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Nel 2021 usciremo dall’emergenza Covid? Speciale vaccino a Ferrara

4 Gen

PRIMA PARTE. “È il momento della speranza”: intervista ad Anna Marra e Marcello Delfino della Farmacia Ospedaliera di Cona

Il team vaccinazione dell’Ospedale di Cona

di Andrea Musacci
Alle ore 14 di domenica 27 dicembre anche in Emilia-Romagna sono iniziate le prime vaccinazioni anti-Covid 19. Nella nostra Regione sono state 975 le donne e gli uomini – fra medici, infermieri e OSS -, a ricevere il vaccino Pfizer. La prima fase della campagna – iniziata il 31 dicembre (con 91 vaccinazioni tra Cona e Delta) e che dovrebbe concludersi a fine marzo – in Emilia-Romagna riguarda circa 180mila professionisti, oltre ai degenti nelle Case Residenze per Anziani. Nella provincia di Ferrara le vaccinazioni sono iniziate all’Ospedale di Cona. La prima vaccinata è stata Noemi Melloni, centese di 27 anni, assunta lo scorso luglio dall’AUSL come medico delle Unità Speciali di Continuità Assistenziali (USCA).
Abbiamo colto l’occasione per intervistare la dott.ssa Anna Marra, da poco Direttrice dell’Unità Operativa di Farmacia Ospedaliera dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara.
A un mese esatto dall’inizio del nuovo incarico, un giorno “storico”. Come vive questo periodo di grande responsabilità?
«Il momento è sicuramente storico e avverto una grande responsabilità nell’aver assunto questo incarico proprio in questo periodo. I miei collaboratori ed io ci stiamo impegnando al massimo per far fronte agli impegni di questa nuova sfida. Certamente l’arrivo del vaccino ci dà la speranza di poter uscire dal dramma che stiamo vivendo».
Ci può raccontare quando avete avuto la notizia che Cona sarebbe stata il luogo dei primi vaccini antiCovid-19?
«Il 17 novembre da parte della Struttura Commissariale del dott. Arcuri ci è stato richiesta la disponibilità nell’Ospedale di Cona di congelatori ULT (Ultra Low Temperature), in cui eventualmente poter conservare il vaccino Pfizer che necessitava di particolari temperature di stoccaggio (-80°C). Abbiamo subito risposto e fornito la nostra disponibilità alla conservazione dei vaccini. Da allora siamo stati individuati come centro Hub della Provincia di Ferrara».
Com’è stato organizzato l’arrivo e la distribuzione del vaccino?
«Il vaccino necessario per il 27 dicembre, il cosiddetto v-day, è arrivato dal Belgio, sito di produzione, all’Ospedale Spallanzani di Roma il 26 dicembre. Da qui l’Esercito ha distribuito le dosi già scongelate in tutte le Regioni Italiane. Per l’Emilia Romagna centro di ricevimento e smistamento delle dosi regionali era l’Ospedale Bellaria di Bologna. Il 27 mattina noi dell’Ospedale S. Anna di Cona siamo andati a ritirare con appositi contenitori frigo le dosi destinate alla Provincia di Ferrara. Tali dosi sono state conservate in frigorifero fino all’inizio della seduta vaccinale che era stata stabilita per tutta la regione alle ore 14».
Quali le difficoltà incontrate nella gestione di questo tipo di vaccino?
«Le principali difficoltà sono legate alle particolari temperature a cui deve essere conservato in congelatori ULT. Il vaccino deve essere scongelato per preparazione prima della somministrazione. Lo scongelamento può avvenire sia in frigorifero (2-8°C) sia a temperatura ambiente. Se viene scongelato in frigorifero, è stabile per un periodo di 5 gg; se viene scongelato a temperatura ambiente, deve essere preparato entro due ore. La fase di preparazione prevede un’iniziale diluizione e poi la ripartizione in sirighe. Da ogni flaconcino di vaccino si ricavano sei dosi da somministrare».
Nei prossimi mesi che consigli possiamo dare alle persone per evitare che, prese dall’ottimismo per l’arrivo del vaccino, vengano meno le regole elementari di prudenza?
«La campagna vaccinale appena cominciata è al momento rivolta agli operatori sanitari e alle RSA. L’immunità di gregge che proteggerà tutta la popolazione sarà raggiunta non prima dell’autunno 2021, quando, si spera, sarà stato vaccinato il 70-80% della popolazione generale. Fino a quel momento sarà necessario continuare ad adottare le regole elementari di prudenza e di protezione individuale che abbiamo imparato in questi mesi, per proteggere chi non si è ancora vaccinato».


Un altro protagonista del v-day a Cona e delle prime vaccinazioni è il dott. Marcello Delfino, Farmacista all’Ospedale di Cona.
Che giornata è stata quella del 27 a livello umano e professionale?
«Densa di emozioni. Una giornata storica, carica di speranza in cui la dimensione umana e professionale sono coincise nell’impegno dedicato alla lotta al covid. Le ore precedenti all’arrivo dei vaccini sono state impiegate a chiarire insieme ad alcune colleghe della Farmacia gli ultimi aspetti organizzativi circa le fasi di conservazione e trasporto ai punti di somministrazione del vaccino. Eravamo tutti visibilmente emozionati e consapevoli di rappresentare l’avanguardia di una vera e propria riscossa della vita contro la minaccia di un nemico invisibile e letale. L’esempio dato dai primi vaccinati infonde in tutti noi una carica di fiducia e di coraggio di cui si sentiva il bisogno».
Come ha vissuto questi ultimi dieci mesi a Cona?
«Sono stati mesi lunghi, con una fortissima pressione lavorativa e psicologica, in particolare il periodo marzo-maggio. Ci sono state giornate in cui la stanchezza fisica e la rassegnazione sembravano prendere il sopravvento. Non potrò mai dimenticare la carica emotiva che provavo, e che ancora avverto, quando tutti i giorni lungo la strada per andare in Ospedale leggo i messaggi dei cartelli che ci ringraziano e ci incoraggiano a non mollare. Noi operatori della Farmacia Ospedaliera siamo stati impegnati in numerose attività in ambito strategico.organizzativo, galenico e nella logistica e approvvigionamento di farmaci, disinfettanti e dispositivi per la sicurezza dei pazienti e operatori sanitari. Questi sono giorni in cui convivono sentimenti contrastanti, angosce e speranze. Angoscia per le troppe persone colpite da questo maledetto virus e per la paura di non farcela. Ma è anche il momento della speranza. Speranza di rivedere la luce grazie al vaccino. Adesso si intravede la via d’uscita da questo lungo tunnel e da notti insonni. È il tempo di ricostruire e per farlo ognuno di noi deve fare la sua parte con serietà».

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SECONDA PARTE. Il racconto a “La Voce” di Francesco ed Elisabetta Pasini, volontari per la sperimentazione del vaccino italiano anti-Covid 19: “diamo il nostro contributo nella lotta al virus”

Francesco ed Elisabetta Pasini

Francesco Pasini, 67enne originario di Portomaggiore, da tanti anni vive con la propria famiglia vicino Verona, per la precisione a Castel d’Azzano. Perito chimico e laureato in Tecniche di laboratorio biomedico, da quattro anni è in pensione, dopo aver lavorato dal 1973 al Policnico di Verona come Tecnico in un laboratorio di biochimica.
Lui ed Elisabetta, una dei suoi 5 figli, sono due delle 90 persone che hanno scelto di proporsi come volontarie per la sperimentazione di quello che aspira a essere il primo vaccino anti-Covid-19 tutto italiano, il GRAd-COV2 COVID-19. Il vaccino è frutto della ricerca dell’azienda biotech ReiThera di Castel Romano in collaborazione con l’Istituto Nazionale per le Malattie Infettive “L. Spallanzani” di Roma, e ha ricevuto finanziamenti dal Ministero dell’Università e dalla Regione Lazio. In passato Reithera ha sviluppato con successo vaccini genetici contro le principali malattie infettive, tra cui epatite C, malaria, HIV ed Ebola.
La sperimentazione clinica di Fase 1 in corso sta valutando la sicurezza e l’immunogenicità di GRAd-COV2 su 90 volontari sani, divisi equamente in due gruppi con fasce di età, 18-55 anni l’uno e 65-85 anni l’altro. I partecipanti sono monitorati per un periodo di 24 settimane. Il primo ha ricevuto il vaccino il 24 agosto allo Spallanzani. L’obiettivo primario dello studio è valutare la sicurezza e la tollerabilità di GRAd-COV2 e selezionare una dose di vaccino per le successive fasi 2 e 3 di sperimentazione clinica. Il secondo obiettivo è valutare la capacità del vaccino di indurre nei volontari risposte immunitarie (sia anticorpi sia linfocitiT), contro il nuovo coronavirus. A breve partirà anche la sperimentazione di un altro vaccino anti-Covid 100% italiano, quello prodotto dall’azienda Takis.
«È stata mia figlia Elisabetta a informarmi che c’era allo studio questo vaccino anti-Covid, e che cercavano volontari anche della mia età», racconta a “La Voce” Francesco Pasini. «Il 2 novembre, dopo un giorno di digiuno, ho assunto il vaccino, ma solo dopo aver fatto una visita di controllo. A ogni volontario il giorno dell’inoculo – il cosiddetto “giorno zero” – consegnano un kit con un termometro per misurare quotidianamente la febbre e segnalarla nel report insieme a eventuali sintomi (mal di testa, nausea, vomito, diarrea, dolori addominali, dolori muscolari, stanchezza, brividi)». Diversi i controlli nell’arco di sei mesi, più frequenti all’inizio e via via sempre più radi. «Io e alcuni dei miei figli – prosegue Pasini – avevamo già partecipato come volontari a studi clinici». Un’esperienza, dunque, la sua, pienamente consapevole, di chi conosce bene il mondo della ricerca scientifica e la scrupolosità necessaria per le sperimentazioni. «Molta gente purtroppo fantastica» riguardo a fantomatici effetti negativi dei vaccini sulle persone. «Nella Fase 3 di sperimentazione verrà usato addirittura il metodo del “doppio cieco”: a metà dei volontari verrà somministrato il vaccino, a un’altra metà un placebo, ma nessuno – né i volontari né i somministratori – sapranno quali sono vaccini e quali placebo». Inoltre, prima di arrivare all’inoculazione, diversi test sono stati eseguiti su animali. «Non ho ricevuto critiche», conclude Pasini. «Il Sindaco del mio paese ha elogiato pubblicamente noi volontari».
Elisabetta Pasini, 39 anni, sposata da 10 anni, vive invece nella vicina Povigliano Veronese col marito e i tre figli. Laureata in Economia e Commercio e impiegata in banca, ha ricevuto il vaccino lo scorso 23 settembre. «Il 10 marzo – ci spiega – avrò l’ultima delle sette visite calendarizzate. In questi mesi sono stata bene, non ho avuto nessun sintomo». E non ha mai avuto nemmeno paura, «talmente sono convinta che sia la cosa più giusta da fare». A differenza del padre, forse anche perché donna, di critiche ne ha ricevute, anche pesanti. «Qualcuno mi ha detto che lo facevo solo per soldi, o altri mi hanno definita “irresponsabile” in quanto madre di famiglia. Ma io, proprio perché madre, non voglio vedere nessuno, compresi i miei figli, con la mascherina per un altro anno, e per questo sto cercando di dare il mio contributo. Se riuscissi a convincere anche una sola persona scettica a farsi vaccinare, vorrebbe dire che ne è valsa la pena».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 gennaio 2021

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Covid, aumenta la depressione: boom di chiamate per sostegno psicologico

9 Nov

Paola Giacometti (AUSL Ferrara): “domina lo sconforto. Nei primi 4 giorni stesso numero di telefonate di un mese di lockdown”

«In pochi giorni il nostro Numero Verde di sostegno psicologico ha registrato più chiamate di quelle ricevute in un intero mese di lockdown. La situazione è grave, ci sono diversi casi depressivi».
A parlare con “La Voce” è Paola Giacometti, Psicologa e Psicoterapeuta, Responsabile della Psicologia Clinica Territoriale dell’AUSL di Ferrara. Da lunedì 2 novembre il Dipartimento di Salute Mentale ha infatti riattivato il Numero Verde di sostegno psicologico alla cittadinanza. E il primo quadro che emerge non è certo rassicurante, conseguenza di nuove limitazioni negli spostamenti e nelle attività dovute a un peggioramento dell’emergenza sanitaria. «Nei mesi scorsi, dalla fine del lockdown – ci spiega Giacometti -, avevamo iniziato a vedere alcune delle conseguenze della quarantena e in generale di questo periodo emergenziale, ma ora, con la recrudescenza del virus e le conseguenti nuove restrizioni notiamo un aggravamento della situazione».
Da marzo a maggio, nelle persone che hanno contattato il servizio di sostegno psicologico, si registrava «perlopiù ansia, senso di incertezza, paura e frustrazione», ma c’era comunque «un atteggiamento di resilienza, un tentativo di adattamento» alla situazione, anche facilitato dal clima di unità a livello nazionale. Spirito che è venuto molto a mancare negli ultimi mesi. In questa nuova fase invece «notiamo molto più sconforto e in misura maggiore elementi depressivi, anche gravi, legati a sentimenti di lutto, di perdita: perdita di un famigliare, del lavoro, della fiducia, della speranza, di ogni prospettiva. A ciò si aggiungono sentimenti di rabbia, una sensazione di isolamento sociale e che tutto quel che è stato fatto nella lotta contro il virus sia servito a poco. Ciò a maggior ragione se pensiamo che ora rispetto alla scorsa primavera si conosce anche meglio la malattia». Insomma, le conseguenze di mesi di quarantena e di crisi sociale si notano sempre di più. E le ulteriori chiusure, pur differenziate a livello nazionale, non fanno che peggiorare la situazione. «Non c’è niente di peggio – sono ancora parole di Giacometti – che convincersi di essere in una fase di risoluzione del problema e poi capire che invece non è così». La fine delle illusioni è pericolosissima e più peggiora la situazione, più sarà difficile affrontare e superare le conseguenze psicologiche sulle persone.
Sono una 15ina le telefonate al Numero Verde nei primi quattro giorni, «alcune di anziani isolati in casa, timorosi di tutto quel che rappresenta l’esterno, altre di persone più giovani in quarantena domiciliare perché risultate positive e per questo impossibilitate ad accudire famigliari anziani che vivono sotto lo stesso tetto». Altre telefonate riguardano richieste di informazioni, anche queste in aumento, a dimostrazione dell’accresciuto livello di ansia.
A tal proposito è stato anche attivato l’USCo, la nuova Unità Soccorso Covid per persone isolate perché positive al Coronavirus nei casi in cui ci sia il sospetto che stiano maturando propositi suicidari. «Se nelle telefonate avvertiamo questo pericolo – prosegue Giacometti -, chiamiamo il medico di Medicina Generale che attiva la procedura per valutare la situazione ed eventualmente intervenire. Registriamo in pochi giorni già un caso di questo tipo, oltre a uno contenuto invece dalle telefonate della psicologa che se n’è occupata».
Un ulteriore aspetto riguarda il fatto che, a differenza del periodo del lockdown, ora gli operatori del Dipartimento di Salute Mentale e dello Spazio Giovani sono tornati a ricevere i pazienti in presenza. A parità di personale, quindi, il carico di lavoro è maggiore. E il problema della tenuta psicologica riguarda anche alcuni operatori sanitari vittime di ansia, sfiducia e frustrazione. E di una condizione drammatica che nessuno contava di dover rivivere.


I dati in Emilia-Romagna

In Emilia-Romagna sono state 9.729 le prestazioni psicologiche dedicate all’emergenza COVID-19 tra il 17 febbraio e il 17 maggio, delle quali 241 con l’AUSL di Ferrara. Numero comunque inferiore ad altre AUSL, come ad esempio Parma (2.275), Bologna (1.823) e Modena (1.055).
La consulenza è stata data per il 26,9% dei casi a chi ha contratto il virus e può trovarsi ricoverato o a casa; al personale sanitario (24,7%); a familiari (19,4%) in condizione di stress acuto a causa del distanziamento e di paure specifiche; a cittadini (17,8%) che hanno vissuto in prima persone le esperienze negative legate al lockdown; infine ad assistiti di Servizi sanitari o socio-sanitari (4,16%), che con le limitazioni imposte nel periodo di emergenza hanno avuto meno possibilità di rivolgersi ai Servizi stessi.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 novembre 2020

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Fragilità da quarantena: conseguenze psicologiche del lockdown e problemi di riadattamento

18 Mag

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Inchiesta sui risultati dalle varie forme di supporto dell’ASL a operatori sanitari, giovani, famiglie e persone con dipendenze patologiche nei primi due mesi dell’emergenza Coronavirus

a cura di Andrea Musacci

A distanza di due mesi dall’inizio dell’emergenza da Coronavirus, col conseguente lockdown e la quasi totale limitazione delle attività cosiddette “in presenza”, quali sono le prime analisi a livello psicologico che si possono tentare nel nostro territorio? E quali ipotesi si possono iniziare a fare – per le prossime settimane e i prossimi mesi, in vista di un sempre maggiore ritorno alla “normalità” – riguardo alle difficoltà di determinate persone a “riadattarsi” o a superare fragilità emerse o acutizzatesi in quarantena? Partendo da queste domande fondamentali, abbiamo rivolto alcuni quesiti specifici ai diversi referenti delle Aree del Dipartimento Salute Mentale e dello “Spazio Giovani” dell’AUSL di Ferrara. I dati e le analisi raccolte si riferiscono indicativamente al periodo compreso tra il 16 marzo e il 9 maggio scorsi e riguardano precisi ambiti di utenza: in questa prima fase dell’emergenza, infatti, ogni Area ha predisposto, quasi sempre a distanza, forme differenti di sostegno psicologico.

Sostegno psicologico per gli Operatori Sanitari

Protagonisti della “Fase 1” dell’emergenza (e, in parte, anche della “Fase 2”) sono gli Operatori Sanitari. Nonostante la nostra provincia continui a registrare un numero di deceduti e di contagiati inferiore rispetto al resto della Regione (al 16 maggio, sono 978 i positivi e 155 i deceduti ferraresi), per limitare il disagio e lo stress di medici, infermieri e OSS direttamente coinvolti nell’emergenza, il servizio di Psicologia Clinica Territoriale Adulti dell’Azienda USL (afferente all’Area psichiatria adulti del Dipartimento Salute Mentale) ha organizzato una forma di “sostegno psicologico online”. Sono stati 25 gli Operatori che hanno contattato il servizio, di cui oltre il 90% di sesso femminile. La metà dei contatti si è risolta con la prima telefonata di consultazione (della durata di circa 30-40 minuti e l’acquisizione di informazioni utili). La restante metà, invece, ha richiesto interventi successivi (contenimento emozionale, individuazione di strategie di fronteggiamento del problema, psicoeducazione per affrontare la situazione). Le situazioni che hanno richiesto più attenzione si riferiscono a Operatori che sono entrati in uno stato d’ansia quando è stato comunicato loro che sarebbero andati in un reparto COVID: il timore di non essere adeguati al nuovo compito ha inizialmente prevalso. In particolare, si è registrato un numero consistente, fra i 25 in questione, con il timore di essere contagiati e di portare il contagio in famiglia ai propri cari. In alcune situazioni l’ansia si è trasformata in un vero e proprio panico con blocco psicomotorio. Altre chiamate sono poi rappresentative di un carico emotivo eccessivo determinato dalla situazione, con l’ansia come stato d’animo prevalente. Dal servizio ci riferiscono anche della possibilità che da qui a qualche mese ci possa essere in alcuni operatori sanitari più direttamente coinvolti nell’emergenza un effetto di rimbalzo, cioè “un disturbo post traumatico da effetto di ritorno”. Uno scenario, più in generale, caratteristico di tutte le situazioni eccezionali e portatrici di uno stress fuori dalla norma.

Supporto psicologico nella popolazione in generale

Se la solitudine è stata una delle cifre di questo periodo, soprattutto in negativo nei termini di isolamento, le soluzioni per affrontare questo aspetto non potevano mancare. Per questo, il Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL ferrarese ha attivato una collaborazione con la “Società Ferrarese di Psicologia” dal 16 marzo fino al 9 maggio e con l’associazione “Progetto San Giorgio” dal 14 aprile per garantire supporto a distanza a chi in questa fase poteva particolarmente soffrire il venir meno di relazioni e contatti diretti con famigliari, amici, colleghi o con la schiera di persone che normalmente si incontrano nella quotidianità. 90 i primi contatti totali, perlopiù ripetutisi fino a tre volte, avvenuti via telefono, mail o social (Facebook) a cui sono seguite sia telefonate sia videochiamate a seconda delle possibilità tecniche dell’utente e delle sue competenze. “La richiesta più frequente – ci spiegano dal servizio – è sicuramente la paura del contagio con lo sviluppo a volte di paure irrazionali o manifestazioni ipocondriache. Una buona parte delle reazioni ansiose o depressive si sono manifestate in persone che avevano qualche forma di fragilità emotiva. Per una piccola parte dei contatti – proseguono nell’analisi – si può immaginare una difficoltà di ripresa nella seconda fase. Sono quelle persone che hanno sviluppato reazioni depressive e che faticano a staccarsi dal supporto psicologico dopo il numero di chiamate concordato con lo psicoterapeuta”. La “Società Ferrarese di Psicologia”, che sta portando a conclusione i casi in essere, ha attivato una consulenza comprendente tre colloqui della durata di un’ora ognuno, con la possibilità di replicare il ciclo. “Ad oggi 54 utenti ci hanno contattato – ci spiegano – grazie soprattutto alla promozione effettuata attraverso i social network, e abbiamo svolto oltre 200 consulenze con una media di 4 colloqui a persona”. Le 38 donne e i 16 uomini – dai 27 agli 80 anni, e di ogni estrazione sociale – che si sono rivolti al servizio hanno evidenziato “sintomi di natura ansiogena (attacchi di panico, paura per il futuro, paura della contaminazione), un senso di solitudine rispetto al fenomeno del distanziamento sociale, l’elaborazione del lutto traumatico da COVID e sintomi depressivi”. Attraverso colloqui di carattere psicoeducativo (telefonici o via Skype), la “Società Ferrarese di Psicologia” ha “cercato di sostenere una rielaborazione emotiva e di stimolare una ‘pensabilità’ resiliente. Abbiamo offerto un contatto con una modalità di caring (‘prendersi cura’), per accompagnare le persone a dare un senso a ciò che stavano vivendo”. “La maggioranza delle richieste di supporto – ci spiegano invece dal “Progetto San Giorgio” – sono state avanzate da donne, di età e stato civile differenti. Molte di queste hanno chiamato da 1 a 3/4 volte. La solitudine, i ritmi rallentati, il silenzio hanno dato voce alle paure, ai demoni, al mal di vivere di tante persone. Alcune sono operatori sanitari operanti prevalentemente negli ospedali di Cento e Argenta; alcune di loro a casa infettati in quarantena, o familiari degli stessi”. “I casi di Covid positivo, in quarantena – proseguono – hanno sviluppato disturbi d’ansia con frequenti attacchi di panico, difficoltà nella regolarità dei pasti, dimagrimento importante e disturbi del ritmo sonno-veglia”. Riguardo, invece, alle donne in generale rivoltesi al servizio, “molte hanno evidenziato un bisogno di ascolto e di supporto esasperato dalla quarantena, alcune in condizioni di solitudine esistenziale, con a carico un familiare invalido o malato, altre sposate ma non considerate nella loro ansia e paura dai mariti o dai figli; altre ancora, sfiancate dall’abbattimento dei confini tra ruolo di madre, moglie e donna che lavora”.

Supporto psicologico per persone con dipendenze patologiche

Il Servizio per la Prevenzione e cura delle Dipendenze Patologiche (Ser.D) del Dipartimento di Salute Mentale nel periodo di lockdown ha attivato un nuovo servizio per aiutare le persone con dipendenze patologiche, pur mantenendo, a differenza degli altri Supporti (tornati attivi non solo a distanza da lunedì 18 maggio, in forma contingentata e controllata), il servizio in presenza. “In questi ultimi due mesi – ci spiegano – il Ser.D ha registrato un notevole aumento delle telefonate di pazienti, per la necessità di quella presenza fondamentale che gli aiutasse a non crollare del tutto. Sono inoltre aumentate le visite a domicilio, in particolare per i pazienti le cui condizioni fisiche, compromesse da anni di uso di sostanze, non erano compatibili con gli spostamenti, e per non esporli al rischio di contagio”. Infine, l’isolamento forzato ha “paradossalmente” abbattuto il ricorso al gioco d’azzardo, per l’impossibilità di recarsi in bar o tabaccherie. Il problema si ripresenta ora che questi esercizi sono riaperti”.

Sostegno Psicologico alle famiglie con minori

Per offrire un sopporto alle famiglie di minori in difficoltà, gli Psicologi della U.O. di Neuropsichiatria Infanzia Adolescenza del Dipartimento Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche dell’ASL, si sono resi disponibili alle famiglie con minori attraverso un nuovo servizio di consulenza telefonica. Sono state 22 le chiamate di genitori preoccupati per la difficoltà di gestione dei figli minori in questo periodo di convivenza “forzata”. Si è trattato spesso di interventi di “psicoeducazione” al genitore, nei quali l’aiuto pratico e immediato si è accompagnato a consigli specifici. “Un lavoro psicoeducativo – ci spiegano – è stato effettuato anche su 3 ragazze adolescenti che hanno contattato il servizio, con forme diverse di somatizzazione conseguenti al timore di essere state contagiate, e quindi accompagnate al Pronto Soccorso”. Infine, vi sono state anche chiamate relative a violenza assistita all’interno dell’ambito famigliare, quindi da parte di donne vittime dell’aggressività del coniuge o convivente in presenza dei figli. Casi, questi, in parte dirottati al Centro Donna Giustizia.

Supporto psicologico “Spazio Giovani”

Per tutti i giovani dai 14 ai 24 anni – e relativi adulti di riferimento – è stato rafforzato il Consultorio dello “Spazio Giovani”, con l’apertura di uno spazio di ascolto online. “Abbiamo raccolto 25 richieste tramite telefono o videochiamata – ci spiegano – da studentesse e studenti fra i 17 e i 23 anni. Tutti hanno deciso, successivamente, di proseguire i colloqui. Il bisogno prevalente emerso è stato quello dell’ascolto e della richiesta relazionale, ma sono emersi anche problemi di ansia, tristezza, depressione e disturbi dell’umore. La domanda dei familiari, invece, riguarda soprattutto aspetti di comunicazione coi propri figli”. Anche in questo caso, “per alcuni dei giovani utenti si teme un problema di riadattamento al periodo successivo”. Per questo, in collaborazione con il Tavolo Provinciale Adolescenti, si stanno individuando progetti, strategie e modalità dirette e fruibili per raggiungere il più possibile gli adolescenti, considerato anche il termine dell’attività scolastica. Infine, “i giovani già in carico prima dell’emergenza sono monitorati con colloqui programmati in base al bisogno”.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 maggio 2020. Leggi e scarica gratuitamente l’intera edizione su http://www.lavocediferrara.it 

Addio a Renzo Melotti, amante dell’arte e filantropo

4 Mag

È deceduto il 15 aprile a Cona. Sua la collezione d’arte all’Ospedale (prima al vecchio Sant’Anna) e il presepe in Duomo. In passato la sua Galleria ha ospitato mostre di Ligabue, Picasso e Mirò. Aiutò anche l’arte nel post sisma

di Andrea Musacci

Melotti nella sua casa insieme a una scultura di Attardi

Uomo dolce e risoluto, dotato di una tempra decisa e concreta ma sempre sostenuta da un animo gentile, appassionato, da una posa attenta e mai corriva. La notte tra il 15 e il 16 aprile è deceduto (non per coronavirus) all’Ospedale di Cona Renzo Melotti, 86 anni, noto gallerista e collezionista d’arte di Ferrara. Le esequie si sono svolte in forma riservata alla Certosa. Sua la volontà che, nell’eventualità, si aspettasse la fine di aprile per diffondere la notizia della sua dipartita. Lascia tre figli, Antonella, Alessandra e Diego.

Una passione, quella per l’ambito artistico, in lui sempre strettamente allacciata a un profondo desiderio di aiutare la propria comunità, in particolare in quello che rappresenta uno dei luoghi privilegiati della fragilità: l’ospedale. Proprio in questo periodo di pandemia, in un silenzio estremo, quasi senza voler distogliere l’attenzione dai drammi legati al coronavirus, in una delle strutture del nostro territorio più legate all’emergenza sanitaria, ci ha lasciato dunque una grande figura di mecenate, forse una delle ultime incarnazioni nel nostro territorio. Ognuno ricorda i tanti dipinti che adornavano i corridoi del vecchio Sant’Anna in corso Giovecca e ora gli asettici spazi del nuovo Arcispedale di Cona. Opere che ora, qui, ci si augura rimarranno molto a lungo, a memoria di colui che ha intuito come la bellezza sia non un orpello ma una componente fondante le nostre vite, anche e soprattutto nei luoghi e nei momenti più delicati.

Nato ad Ambrogio di Copparo il 5 agosto 1933, da piccolo ha vissuto alcuni anni a Fiume, per poi tornare in paese e trasferirsi successivamente a Ferrara. Già dirigente commerciale della multinazionale “Star”, dove iniziò a lavorare negli anni ‘50, fin da giovanissimo si è interessato di arte figurativa. Grazie all’amicizia con il critico Mario De Micheli, entra in contatto con artisti come Levi e Manzù, e nel ’76 lascia il suo incarico dirigenziale. Nel ’78 dà avvio alla sua attività galleristica con una grande mostra di Ligabue nel suo “Studio d’arte Melotti”, rimasto attivo fino al 2003, quando l’ha ceduto ai fratelli Remigio e Rossano Surian. Nei 25 anni della sua gestione, la Galleria ha ospitato, fra gli altri, personali di Remo Pasetti, Tono Zancanaro, Renato Guttuso, Robert Caroll, Giorgio De Chirico, Linsday Kemp, Achille Funi, Pablo Picasso, Joan Mirò, Giò Pomodoro e Severo Pozzati. Nel 1984 Melotti dà vita anche al progetto editoriale legato al suo Studio, con la collana monografica “I grandi pittori a Ferrara”, che arriverà a contare 10 titoli. Negli anni ’90 nasce la “Fondazione Renzo Melotti”, che, grazie al coinvolgimento dei “Dieci artisti” per Ferrara, permette la creazione di un fondo di solidarietà per la nascita nel ‘92 del Reparto di Endoscopia pediatrica, a lui intitolato, al S. Anna. Proprio qui nel dicembre ’95 viene inaugurata la Galleria da lui donata, il “Lascito della quadreria d’arte contemporanea Renzo Melotti”, poi ampliata fino al 2002. Nello stesso anno finanzia il Fondo per la Ricerca in Chirurgia Pediatrica, dal 2000 al 2007 le borse di studio in Chirurgia Pediatrica Urologica, oltre a diverse missioni chirurgiche nel mondo.

Anche nel post sisma del 2012, Melotti è in prima linea, promuovendo l’iniziativa “L’arte per l’arte – collezione Renzo Melotti per l’Emilia”, un’esposizione di 109 opere di 76 artisti poi messe all’asta per finanziare i restauri dei capolavori emiliani danneggiati. Passano due anni, e iniziano le prime diatribe con la direzione dell’Ospedale cittadino: Melotti chiede la revoca della donazione per inadempienza contrattuale, non avendo l’Azienda spostato le sue opere nella nuova sede di Cona (aperta nel 2012). L’anno successivo, il 2015, il magnifico presepe napoletano di proprietà di Melotti, stile Settecento, con 86 statuine tra personaggi e animali, dopo 15 anni all’ingresso della struttura di corso Giovecca, deve trovare una nuova collocazione. Sarà una grande occasione per la nostra Arcidiocesi, che deciderà di installarlo permanentemente nella Cattedrale di Ferrara. Il giorno dell’Epifania del 2016, a conclusione della S. Messa serale, l’Arcivescovo benedice il presepe presentandolo ai tanti fedeli radunatisi. Ad aprile dello stesso anno, il 23, festa di San Giorgio, dopo la S. Messa nella Basilica fuori le Mura, lo stesso Arcivescovo consegna a Melotti il prestigioso titolo di “massaro” della Cattedrale di Ferrara. In ottobre, acuitisi i contrasti con la Direzione del Sant’Anna, Melotti dona le sue 157 opere all’Ulss 18 di Rovigo (due anni dopo diventate 169), esponendole, con grande inaugurazione pubblica, all’Ospedale Santa Maria della Misericordia. Nei corridoi della struttura rodigina si possono ammirare, tra le altre, opere di Annigoni, Aymone, Cattabriga, Brindisi, Fioravanti, Fiume, Mastroianni, Orsatti, Sughi, Vespignani e Zarattini. L’anno dopo, la città di Rovigo gli conferisce anche la cittadinanza onoraria. Nei mesi successivi Melotti dona un migliaio di copie del catalogo “Arte e scienza 4 in ospedale. Renzo Melotti per Rovigo”, curato insieme a Mons. Massimo Manservigi, a 500 ospedali italiani (i primi tre e il quinto volume di “Arte e scienza in ospedale” riguardano il Sant’Anna di Ferrara-Cona).

part. di un'opera all'ex s.anna

Chi scrive, in quel periodo ebbe l’onore di essere ospitato nella sua dimora ferrarese: “le opere d’arte – furono alcune delle sue parole – hanno anche un’importanza culturale e terapeutica. Ho cercato di migliorare un ambiente per sua natura triste, ma anche gioioso, per le nascite e le rinascite che ospita”. In quella piacevole mattinata, ricordò con affetto alcune figure a lui particolarmente care, come Maccari, De Micheli, Giò Pomodoro. Di quest’ultimo del quale fu amico per circa 20 anni, mi disse: “le sue uniche mostre personali, tre, le fece nel mio Studio d’arte. Ci siamo conosciuti, abbracciati, abbiamo litigato, ma siamo sempre rimasti uniti, anche se lontani fisicamente”. Nel 2018 inizia il riavvicinamento con l’Azienda Ospedaliero-Universitaria ferrarese, grazie a una prima donazione di 68 opere di 53 artisti contemporanei alla struttura di Cona: nel mese di marzo viene inaugurata la quadreria della Fondazione Renzo Melotti negli spazi dell’Arcispedale. Un momento importante per l’intera città, che metterà fine ad anni di polemiche e cause legali tra Melotti e l’ASL.

Ma Melotti rimase sempre legato al suo paese natìo. Copparo ospita parte della sua Collezione (e il Comune nel ’99 gli ha dato la cittadinanza onoraria): nella Galleria Civica d’Arte Contemporanea ex Carceri “Alda Costa” vi sono permanentemente esposte 110 opere del Novecento (sia di artisti locali sia internazionali) donate dal mecenate, instancabile appassionato della bellezza e della propria terra.

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 maggio 2020. Leggi e scarica gratuitamente l’intera edizione su http://www.lavocediferrara.it . Nel nuovo numero è possibile trovare anche un ricordo personale di Melotti scritto dagli amici Alberto e Mirella Golinelli.

(foto Andrea Musacci)

“Essere prossimi a chi soffre: questa la sfida”: testimonianza dal “COVID 1” di Cona

27 Apr

Giacomo Forini, giovane medico nel “COVID 1” di Cona: “mi colpisce lo sguardo smarrito e spaventato dei pazienti, ma anche l’umanità di tanti miei colleghi verso malati e famigliari”

giacomo forini(Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° maggio: leggi l’intero speciale con le testimonianze di medici e infermieri del “COVID 3″ di Cona, di Cecilia Turrini, Sara Frignani, protagonisti dell’emergenza COVID-19 su http://www.lavocediferrara.it )

A cura di Andrea Musacci

“Il vero dramma di questo periodo? Il non poter permettere al paziente e ai suoi parenti di portare l’un l’altro il peso del dolore e della malattia”. Dietro quella “strana armatura” – con la quale deve lavorare, come la chiama lui – si nasconde una riserva inesauribile di umanità. Giacomo Forini, 35 anni, è un medico di servizio nell’Unità Operativa di Pneumologia dell’Ospedale di Cona, dove ora il reparto infetti si chiama “Pneumologia di coorte – COVID 1”. Specializzatosi nel 2018 in malattie dell’apparato respiratorio, ha frequentato Cona anche da specializzando, e dallo scorso agosto è stato assunto a tempo indeterminato. Ma il suo impegno travalica i confini del servizio ospedaliero: è, infatti, stato vicepresidente diocesano del Settore giovani di Azione Cattolica dal 2008 al 2014, mentre dal 2014 al 2020 è stato consigliere diocesano e presidente parrocchiale dell’AC di Porotto, frazione dove vive con la moglie e i due loro figli di 6 e 3 anni (e a giugno arriverà una sorellina…).

Forini, cosa del suo lavoro ordinario è cambiato, se non stravolto, in questo periodo?

Fino alla fine di febbraio l’attività a Cona era assolutamente regolare; guardavamo con molta attenzione e preoccupazione quello che stava accadendo a Codogno e a Vo’ Euganeo, ma eravamo ancora ignari delle dimensioni che avrebbe assunto l’epidemia. C’era in cuor nostro la speranza o l’illusione che il contagio potesse rimanere confinato, senza mai arrivare a Ferrara. Ai primi di marzo però la situazione è via via peggiorata e anche la sanità ferrarese si è preparata rapidamente all’arrivo del virus: sono stati predisposti reparti dedicati esclusivamente ai pazienti sospetti per COVID19 ed altri ai pazienti con malattia accertata. Il mio reparto, la Pneumologia, è stato coinvolto da subito nell’emergenza: dal 10 marzo scorso abbiamo preso in gestione 24 posti letto per pazienti COVID+ con insufficienza respiratoria grave e necessità di effettuare ossigenoterapia ad alti flussi o ventilazione non invasiva, ma abbiamo mantenuto anche la gestione di 16 posti letto per pazienti con patologie respiratorie, ma non affetti dall’infezione virale. Tutti i nostri sforzi si sono quindi concentrati nella gestione di queste degenze, sospendendo completamente l’attività ambulatoriale non urgente e annullando tutte le ferie e i congressi programmati. Ci siamo trovati improvvisamente faccia a faccia con una malattia nuova e sconosciuta, dotata di elevatissima contagiosità e dal comportamento subdolo: pazienti, anche giovani, capaci di diventare instabili nell’arco di poche ore, tanto da necessitare il trasferimento in terapia intensiva. Abbiamo dovuto abituarci a lavorare per tutto il turno coperti da una ‘strana armatura’ fatta di tuta, cuffia, calzari, doppi guanti, visiera e mascherina. Abbiamo imparato le delicate operazioni di vestizione e svestizione e abbiamo preso confidenza con l’uso di nuovi farmaci, utilizzati off label o in via sperimentale per la cura dell’infezione. Ci siamo confrontati, soprattutto i primi giorni, con la paura del contagio e con l’ansia di portare l’infezione nelle nostre famiglie.

Come si sono modificati i rapporti con i colleghi? E come quelli con i pazienti?

Questa esperienza sta riuscendo davvero a tirare fuori il meglio da ciascuno di noi: vedo grande impegno e dedizione da parte di tutti, siano essi medici, infermieri od operatori sanitari. Stiamo riuscendo a lavorare con affiatamento, in squadra, superando le tensioni che inevitabilmente ogni tanto possono crearsi. Ciascuno sta mettendo in campo la propria professionalità, ma anche la propria umanità: ho visto colleghi ed infermieri incoraggiare e consolare pazienti in lacrime, fermarsi ben oltre il proprio turno per dare una mano, comprare a proprie spese giornali o tessere per la tv da donare ai pazienti, portare ottime torte per risollevare il morale della truppa, scrivere per fare gi auguri di Pasqua ad un paziente dimesso con cui si è restati in contatto. Il COVID19 è una malattia terribile perché alla gravità dei quadri clinici che a volte provoca, associa anche un corollario di conseguenze logistiche che portano il paziente ad essere improvvisamente isolato dai propri parenti ed amici, ricoverato in una stanza con le porte chiuse ed in cui il personale entra completamente protetto, tanto che i diversi operatori sono riconoscibili solo dagli occhi e dalla voce. I primi giorni mi aveva infatti colpito moltissimo lo sguardo smarrito e spaventato dei pazienti COVID appena arrivati in reparto o di quelli a cui, per il peggiorare del quadro clinico, eravamo costretti a posizionarli dentro l’ormai tristemente famoso casco per supportare la respirazione.

A livello umano, dunque, che cosa vive come maggiormente drammatico? E come ciò la sta facendo riflettere sulla scelta della propria “missione” di medico?

La malattia, la sofferenza e la morte sono sempre un momento difficile e spesso tragico nella vita delle persone. Come detto, il vero dramma di questa nuova situazione sta nell’associare sofferenza e solitudine, nel non permettere al paziente e ai suoi parenti di poter portare l’un l’altro il peso del dolore e della malattia, nell’impedire la possibilità di accompagnare ed essere accompagnati dai propri cari nelle ultime ore di vita. Ciò che in questi giorni mi ha messo più alla prova è stato proprio questo trovarsi a dover “mediare” tra i pazienti e i loro parenti: gli aggiornamenti da dare al telefono ai parenti sulle condizioni di un malato, il dover comunicare il decesso di una persona cara, l’andare a dare una carezza o un saluto o un pensiero affettuoso a un paziente su esplicita richiesta dei suoi cari. E’ proprio in queste situazioni, però, che credo venga messa a nudo la grande sfida che il coronavirus ci ha messo davanti: saper essere accanto, prossimi, a chi è nella sofferenza e nella difficoltà. E’ ciò che viene chiesto in modo forte ed esplicito in questi giorni a chi, come me, ha scelto il lavoro di medico od infermiere, ma è una richiesta che interpella in modo forte ciascuno, indipendentemente dal proprio lavoro: dobbiamo riuscire a tenerci stretti, anche se il virus spinge per allontanarci e dobbiamo essere attenti a non perdere i più fragili e deboli. La solidarietà e la fratellanza dimostrate dalle persone in questi giorni in tanti piccoli gesti mi fa però guardare al domani con grande speranza.

 

“Io, tra i primi medici volontari nel reparto ‘COVID 3’ di Cona: Facciamo il possibile, ma lì la solitudine è terribile”

20 Apr

Lorenzo Cappellari, 61 anni, medico Chirurgo, è stato tra i primi a offrirsi volontario per affiancare i colleghi in uno dei reparti dedicati ai malati di coronavirus. Ecco la testimonianza di quelle tre settimane indimenticabili: la paura di contagiare pazienti e famigliari, l’impossibilità di rapporti umani pieni, l’affidamento al Signore

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A cura di Andrea Musacci

Quando la Direzione Generale dell’Ospedale di Cona si è rivolta anche al suo reparto di Chirurgia d’Urgenza, per richiedere medici e infermieri che svolgessero tre settimane nei nuovi reparti COVID, il dott. Lorenzo Cappellari non ha impiegato molto a decidere di offrirsi volontario. O meglio, ha voluto prima confrontarsi con Silvia, sua moglie, e con Marcello, loro figlio. E da entrambi, pur nel timore, il sostegno non è mai mancato. Cappellari ha 61 anni, vive a Ferrara, quartiere Quacchio, è impegnato nella sua parrocchia dove, dal 2013, presta servizio anche come accolito. “Quando è scoppiata l’emergenza – spiega a “la Voce” -, all’Ospedale di Cona c’è stata una rivoluzione nell’assetto dei reparti: è stata bloccata la Chirurgia in elezione, e mantenuti invece gli interventi improcrastinabili, ad esempio in oncologia. Come Chirurgia d’Urgenza abbiamo continuato la nostra attività ma c’è stato un calo degli accessi, in particolare per quanto riguarda la traumatologia, evidentemente legato al blocco della circolazione e delle attività lavorative. La Direzione Generale – prosegue Cappellari – ha dunque chiesto anche a noi la disponibilità, per periodi limitati, ad aiutare i colleghi internisti nei nuovi reparti COVID, per non trovarsi impreparati di fronte all’eventuale arrivo di molti pazienti. Richiesta che era nell’aria da giorni, ma è arrivata con estrema urgenza: io mi sono offerto, sono stato tra i primi a rendermi disponibile. Ho chiesto aiuto ogni giorno al Signore, che mi desse la forza e che non contagiassi nessuno, né in ospedale né a casa”.

Dal 21 marzo al 13 aprile Cappellari ha prestato servizio nell’ultimo reparto COVID aperto, il “COVID 3”. Poi si è fermato per due giorni, e da giovedì 16 ha ripreso il suo servizio a Chirurgia d’Urgenza, lasciando il posto ad altri colleghi che vi staranno per altre tre settimane. “La gestione del paziente COVID è complicata”, ci racconta: “mantenere le distanze, toccare il meno possibile malati e oggetti. Senza considerare che vi sono anche pazienti dializzati. E sapendo che se, in un reparto COVID, può entrare poco, praticamente nulla vi può uscire. Anche la nostra vestizione è alquanto complessa, dovendo seguire un iter ben preciso. Ognuno di noi lavora su turni di 6 ore, dalle 8 alle 14 o dalle 14 alle 20. Alla mattina noi medici ci ritroviamo per fare il punto della situazione dei pazienti ricoverati, poi ci rechiamo nelle stanze per visitarli: il giro dei malati viene svolto da due medici, un internista e un altro dei colleghi in affiancamento. L’organizzazione prevede che al di fuori del reparto vi siano altri medici in un ambiente ”pulito” (il cosiddetto open space) in collegamento con i medici dentro al reparto COVID, per la gestione della parte burocratica (cartelle cliniche, richiesta di esami, stampa dei referti, consulenze, materiali, contatti con i parenti, ecc.). Le cartelle cliniche – prosegue – rimangono nell’ambiente ‘pulito’ e vanno aggiornate con i dati che i medici dentro al COVID trasmettono telefonicamente, tramite la rete o via fax ai colleghi che sono fuori. Anche questa parte è resa difficoltosa dalla necessità di evitare ogni possibile contaminazione al di fuori del reparto COVID”.

La stessa svestizione è forse anche più complicata rispetto alla vestizione: ci si cambia completamente, seguendo vari passaggi prestabili, si scende per farsi la doccia e poi si torna su per la riunione conclusiva della mattinata, a favore di coloro che iniziano il turno pomeridiano. “Per quest’ultimo fondamentale passaggio, in realtà, il conteggio delle ore di lavoro, alla fine, non è mai otto ma circa dieci”. Ma l’aspetto maggiormente doloroso di questa drammatica situazione, è quella riguardante l’estrema difficoltà di ogni tipo di rapporto umano. Innanzitutto, tra i pazienti ricoverati e i famigliari: quest’ultimi non sono ammessi nei reparti COVID, ma almeno anche a Cona esiste la possibilità di utilizzare tablet per mettere in contatto i malati con i propri cari. Proprio nelle ultimissime settimane sono state donate alcune decine di questi dispositivi per i reparti COVID. “La solitudine qui è terribile, soprattutto per i ricoverati anziani, quindi che più facilmente si disorientano, soffrono il non aver qualcuno vicino”. È l’isolamento di chi è malato, di chi ha paura, di chi vive gli ultimi giorni, le ultime settimane senza più rapporti, non avendo la vicinanza dei propri cari. È la solitudine di chi muore solo. “Tra noi medici e tra noi e i pazienti – ci spiega Cappellari -, i contatti sono limitatissimi e inevitabilmente poco ‘umani’: si parla il meno possibile, a distanza, non c’è tempo, come prima, coi colleghi per un caffè o per fare due chiacchiere nelle pause. E il paziente di noi medici o infermieri vede a malapena gli occhi, perché il resto è coperto. E magari sono pure intimoriti nel vederci così coperti. Tutto ciò purtroppo li disorienta, soprattutto i più anziani”.

Inoltre, essendoci nei reparti COVID medici e infermieri da diversi reparti, gli stessi rapporti professionali sono stravolti: “io stesso – prosegue – diversi infermieri coi quali ho lavorato in quest’ultime settimane, prima non li conoscevo nemmeno. Anche nei loro occhi, che sono spesso l’unica parte del loro viso ad aver visto, tante volte ho letto tristezza, preoccupazione, anche perché infermieri e OSS sono davvero degli eroi, coloro che stanno a maggior contatto coi pazienti, che si occupano anche delle cure igieniche, stando quindi diverse ore al giorno a contatto con una carica virale davvero imponente”. Per non parlare del rischio di venire in contatto, fuori dal reparto COVID, con un paziente contagiato ma ignaro di esserlo. Una piccola luce di umanità Cappellari è riuscita a donarla, grazie anche al cappellano don Giovanni Pertile: “mi aveva consegnato alcune cartoline con gli auguri del nostro Arcivescovo, e sono riuscito a darne, a Pasqua e il Lunedì dell’Angelo, ad alcuni pazienti e colleghi che lo desideravano: li hanno accolti con grande gioia”.

(Foto: Cappellari insieme a Maria Grazia Cristofori, caposala del reparto COVID 3)

(Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 aprile 2020: http://www.lavocediferrara.it)

Ferrara Film Festival, lungometraggi accessibili ai pazienti di Cona in emodialisi

23 Mar

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Alizè Latini e Maximilian Law

Saranno una quarantina i pazienti in emodialisi che da stasera fino a domenica potranno vedere nove proiezioni del Ferrara Film Festival, durante gli orari che dedicano settimanalmente alla terapia. È questo il progetto all’insegna dell’accessibilità ideato da Maximilian Law e Alizè Latini, rispettivamente Direttore e vice Direttrice del Festival, e proposto nei mesi scorsi all’Azienda Ospedaliero-Universitaria ferrarese. Protagonista dell’accordo è EasyDial, multinazionale californiana tra i maggiori sponsor del festival, che ha finanziato l’installazione di due maxischermi nella sala dialisi del reparto di nefrologia del Polo Ospedaliero di Cona.

presenti

I presenti alla conferenza stampa

Un progetto, come spiegato ieri dal Direttore Sanitario dell’Azienda Ospedaliera Eugenio Di Ruscio, «che permette di rendere le sedute di dialisi un po’ più leggere, anche attraverso una selezione dei film, evitando quelli particolarmente drammatici».
«Il tempo della dialisi – ha prosegutito Alda Storari, Direttrice del Reparto Nefrologia e Dialisi – se da una parte salva la vita, dall’altra è vissuta come una schiavitù, un tempo perso, noioso. In questo modo, invece, lo facciamo diventare tempo guadagnato, speso in modo utile in senso culturale e ricreativo: è insomma, un’opportunità alla quale non potevamo rinunciare». Proposta alla quale, come confermato da Law, «l’Azienda Ospedaliera ha dato immediata disponibilità, per questo esperimento che, nei prossimi anni, vorremmo estendere ad altre realtà». Un ruolo decisivo per l’accordo è stato svolto da Luca Severi, collega di Law, Responsabile comunicazione per EasyDial, rappresentata ieri da Luca Tommasi, responsabile europeo dell’azienda.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 21 marzo 2017

Cura delle persone e splendore artistico in mostra a Cona

27 Ott

Da sinistra, Luigi Grassi, Matilde Turchetti e Mariella Carlotti

Da sinistra, Luigi Grassi, Matilde Turchetti e Mariella Carlotti

È possibile fondere la difficile quotidiana cura delle persone con lo splendore artistico?

Attorno a questo quesito, l’associazione Student Office ha organizzato l’evento “L’ospedale, luogo di cura e umanità. Dagli affreschi dell’Ospedale Santa Maria di Siena al Sant’Anna”, che comprende la mostra “Ante Gradus, quando la certezza diventa creativa: gli affreschi del Pellegrinaio di Santa Maria della Scala a Siena”, esposta all’Ingresso 1 dell’Ospedale di Cona fino a venerdi, e l’incontro svoltosi ieri pomeriggio. All’evento sono intervenuti Matilde Turchetti di Student Office, la curatrice Mariella Carlotti e Luigi Grassi direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche dell’Università di Ferrara.

Il complesso museale di Santa Maria della Scala in Piazza del Duomo a Siena, uno dei più importanti d’Europa, è l’antico “Spedale Grande” sorto sulla Via Francigena grazie a Sorore, calzolaio, poi divenuto Beato, morto nell’898.

Grassi ha definito la persona, al centro del lavoro di cura, «intesa come essere dotato non solo di corporeità, ma soggetto pluridimensionale», non riducibile a oggetto della tecnica, ma dotato di anima, identità, morale. Perciò, la bellezza della cura non può ridursi a qualcosa di apparente, ma è uno splendore etico, umano. Fondamentale è, quindi, la «relazione interpersonale», ben rappresentata negli affreschi del Pellegrinaio.

La Carlotti ha messo in risalto come «la scoperta del valore infinito di ognuno sia stato portato nel mondo dal cristianesimo, e così lo stesso Ospedale di Siena nasce da quel fiume di carità introdotto da Cristo». Vera e propria città nella città, l’antica struttura senese è infine legata al nostro Ospedale Sant’Anna anche per il fatto che nel 1440, mentre Eugenio IV emana la bolla d’erezione dello spedale ferrarese, Il Vecchietta, Priamo della Quercia e Domenico di Bartolo iniziano gli affreschi nel Pellegrinaio di Siena.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 27 ottobre 2015

A Cona mostra e incontro dedicati all’Ospedale S. Maria di Siena

26 Ott

12184070_455939664588843_4893029016602741012_oUna mostra e un incontro per portare a Cona lo splendore e la carità della senese Santa Maria della Scala. L’associazione studentesca Student Office organizza l’evento “L’ospedale, luogo di cura e umanità. Dagli affreschi dell’Ospedale Santa Maria di Siena al Sant’Anna”, che comprende la visita dell’esposizione “Ante Gradus, quando la certezza diventa creativa: gli affreschi del Pellegrinaio di Santa Maria della Scala a Siena”, esposta all’Ingresso 1 dell’Ospedale di Cona, e un incontro in programma oggi.

Alle ore 17.30 vi sarà infatti la presentazione della mostra, sempre all’Ingresso 1, alla quale interverranno la prof. Mariella Carlotti, curatrice, e Luigi Grassi professore ordinario di Psichiatria e direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche e Chirurgico-Specialistiche dell’Università degli Studi di Ferrara.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 26 ottobre 2015

La vita secondo Lejeune in mostra a Cona

23 Mar

Da oggi fino al 30 marzo nell’atrio dell’ingresso 1 dell’ ospedale di Cona, in via A. Moro, 8 a Cona, sarà possibile visitare la mostra “Che cos’è l’uomo perché te ne ricordi? La vita è una sfida: genetica e natura umana nello sguardo di Jérôme Lejeune”. Sarà, inoltre, possibile visitarla con visita guidata nei seguenti orari: dal lunedì al venerdì dalle 12 alle 19, sabato e domenica dalle 10 alle 13 e dalle 16 alle 19. Lunedì scorso la mostra è stata presentata da Pierluigi Strippoli, professore associato di Biologia applicata all’Università di Bologna e curatore della mostra, nella Sala san Francesco in p.tta san Francesco, 1 a Ferrara. Jérôme Lejeune (Montrouge, 13 giugno 1926 – Parigi, 3 aprile 1994) fu un genetista e pediatra francese, scopritore della causa della sindrome di Down. Nel ’64 diviene professore di genetica alla facoltà di medicina di Parigi, cattedra creata ad hoc per lui. Papa Giovanni Paolo II nel ‘78 gli chiede di entrare nella Pontificia Accademia delle Scienze e del Pontificio Consiglio della Pastorale per gli Operatori Sanitari e nel ’94, poco prima di morire, diventa il primo presidente della Pontificia Accademia per la Vita, appena creata dallo stesso Pontefice.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 23 marzo 2014