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Villa Melchiori “da dentro”: impressioni

2 Ott

A concentrarsi troppo sulla sua originalità, si rischia di immaginarla fluttuante su Ferrara. Ma Villa Melchiori, l’ex villino-negozio liberty al civico 184 di viale Cavour, è ben incastonata nel quartiere che la ospita.Ce ne siamo resi conto davvero solo lo scorso 27 settembre partecipando nel giardino della stessa Villa alla presentazione – a invito – del libro “Villa Melchiori. Storia di un restauro a Ferrara”, a cura di Lucio Scardino (storico e critico d’arte) e Marcello Carrà (artista-ingegnere). Un volume realizzato con BM–Studio Bosi di Marcello Bosi, che ha eseguito i lavori di restauro da poco conclusisi e che è proprietario, assieme alla moglie Maria Magdalena Machedon, di parte dell’edificio. Un centinaio i presenti allo storico (e mondano) evento. Muti e disinteressati (forse solo apparentemente) gli abitanti delle villette o dei condomini attigui, incombenti sull’ “isola felice” Melchiori, edificata in maniera così “scandalosa” 120 anni fa. I rumori e le sagome delle auto sfreccianti su Cavour, uno stendino di panni umidi su un terrazzino molto prossimo, un bambino “trascinato” da una signora oltre una semplice rete divisoria…Villa Melchiori è un gioiello dentro la vita pulsante, quotidiana e contraddittoria della città magica a cui ha donato un sovrappiù di enigma e malinconia.

Andrea Musacci

(Foto di Luigi Pansini)

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 ottobre 2024

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Villa Melchiori mon amour: quando il Liberty sconvolse Ferrara

20 Set

In viale Cavour al civico 184 si trova uno splendido esempio di fusione tra architettura e arte. Vi raccontiamo la sua genesi nel 1904, i tre enfants terribles che la progettarono e resero unica, le linee e i dettagli di un progetto irripetibile che cambiò la nostra città

di Andrea Musacci

Ferrara, al di là di alcuni pregiudizi, è di sicuro città capace di regalare sorprese. Indagando nei suoi meandri, si lascia svelare donando gemme di rara bellezza. E Ferrara è anche mosaico di giardini “segreti” (il successo di “Interno Verde” sta lì a dimostrarlo), spesso in bilico tra realtà e immaginazione (si pensi ai Finzi-Contini). Quanti occhi, da oltre un secolo, si sono posati sognanti, passeggiando su viale Cavour, su quel magnifico villino Liberty e il  regno verde nel quale sembra posato. Si tratta di Villa Melchiori, e siamo al civico 184 della larga arteria che taglia la città. Un villino-negozio, in quanto per anni, al pian terreno, ha ospitato un’ampia sala espositiva di piante e fiori, per poi essere usato come appartamento.

COM’È NATO IL RESTAURO

Alcuni mesi fa, il noto critico e storico d’arte Lucio Scardino vi ha dedicato un libro, “Villa Melchiori. Il capolavoro del Liberty ferrarese” (aprile 2024). Il 27 settembre alle ore 18, proprio all’interno della villa, verrà presentato un altro volume, “Villa Melchiori. Storia di un restauro a Ferrara” (luglio 2024), a cura dello stesso Scardino e di Marcello Carrà, eccelso artista ferrarese e ingegnere. Un volume, questo, realizzato con BM–Studio Bosi di Marcello Bosi, che ha eseguito i lavori di restauro da poco conclusisi, e che contiene, oltre a quelli di Scardino, Carrà e Bosi, anche gli interventi (oltre che del Sindaco e dell’Assessore alla cultura) di Davide Danesi e Leonardo Buzzoni (Studio DaBù, per l’illuminazione della Villa), di Manfredi Patitucci (progettista di giardini) e Maria Chiara Bonora (architetto di BM – Studio Bosi).

È Maria Magdalena Machedon nel 2020 a spronare il marito Bosi a intraprendere i lavori di restauro. Eredi del fondatore Ferdinando Melchiori, infatti, sono la bisnipote Francesca e la stessa Machedon che l’ha acquistata da Anna Moretti, altra bis nipote di Melchiori, divenendo proprietaria, insieme al marito, del primo piano.

STORIA DI UNA RIVOLUZIONE

Villa Melchiori è stata realizzata nel 1904 (inaugurata il 30 luglio) dall’ingegnere ferrarese (ed ebreo) Ciro Contini, allora 31enne: fu la sua prima opera a carattere edilizio. Successivamente, fra i tanti lavori, restaurò l’Albergo “Europa” in corso Giovecca, Palazzo Cicognara-Sani in via Terranuova, realizzò l’ingresso in granito del cimitero ebraico in via delle Vigne, progettò la Laneria Hirsch e fornì al Comune il progetto di massima per realizzare il Rione Giardino. Dopo il trasferimento a Roma, nel ’41 con la moglie Lidia lasciò l’Italia in seguito alle leggi razziali: la coppia andò prima a Detroit poi a Los Angeles, dove Contini morì nel 1952.

Tornando a Villa Melchiori, in epoca estense il terreno su cui sorge appartiene al Convento di San Gabriele, che ospita le Carmelitane per volere della duchessa Eleonora d’Aragona. Il Convento viene poi soppresso in seguito alle invasioni napoleoniche. Nel 21 agosto 1903 l’area è acquistata dai Melchiori grazie a un contratto con la Ditta Pirani-Ancona. Proprio in questi anni viene concluso il tombamento del canale Panfilio, permettendo la nascita di viale Cavour, arteria fondamentale di collegamento della Stazione ferroviaria col centro. Villa Melchiori sarà la prima casa a essere costruita sul tronco terminale del nuovo viale. Contini per questo ambizioso progetto coinvolse lo scultore Arrigo Minerbi (allora 23enne) e il fabbro 37enne Augusto De Paoli, portando l’Art Nouveau nella nostra città. 

TRA REFUSI E CORBEILLE

Fa sorridere, e pare assurdo, il refuso del decoratore Giuseppe Pedroni che sulla facciata riportò erroneamente il nome di “Melchiorri Floricoltore”, con due “r”, ingannando involontariamente nel tempo (e ancora oggi) non poche persone. Ma il buffo raddoppio non tolse fascino e mistero a questo luogo fuori dal tempo. Così, nel 1905 la vicina Villa Amalia (sempre progettata da Contini) cercò in un certo qual modo di emulare la magia di quel villino-negozio; e nell’aprile del 1906 Villa Melchiori finì anche sull’importante rivista torinese “Architettura italiana”. Nell’autunno del 1968 il regista Franco Rossi vi girò addirittura una sequenza del suo film “Giovinezza giovinezza”, con gli attori Alain Noury e Colomba Ghiglia.

Come scrive Scardino nel libro, De Paoli e Minerbi in sinergia con l’ing. Contini realizzarono la «convessa quanto estrosa porta-vetrata a forma di corbeille (cesta, ndr) floreale con la cancellatina che riporta una serie di rose canine in ferro, il serpentino cornicione sotto-tetto “a colpo di frusta”, le inferriate delle finestre, i fiori in cemento modellati agli angoli della terrazza e sui pilastri d’ingresso, quasi “carnose” escrescenze quest’ultime che parrebbero voler evocare mazzi del fiore chiamato “alcea rosea”, la cancellata in ferro battuto impostata sul tema-cardine del girasole (che, nella parte centrale, le linee sinuose dei gambi trasformano nella sagoma di un’enorme mela)». Inoltre, ai lati dell’edificio, i Melchiori fecero costruire prima due dépendances (grazie all’ing. Edoardo Roda) e altre due costruzioni dove sistemarono nuove serre, laboratori e un piccolo appartamento per i commessi (v. nella didascalia a pag. 11, il legame successivo con la famiglia Facchini).

UN UNICO MAGNIFICO CORPO

La Villa è immersa in un parco di circa 2200 mq, con ancora presenti diverse specie di piante, fra cui Ginkgo biloba, cedro del Libano, Bagolari, Ippocastano, camelia, azalea, glicine, vari alberi da frutto, una piccola vigna. Come scrivono Marcello Bosi e Maria Chiara Bonora nel libro, il giardino progettato per Villa Melchiori «può essere immaginato come un percorso attraverso tre stanze che dal fronte della villa si articolano in una successione verso la parte più intima del giardino dove il disegno si fa meno marcato e il carattere informale si apre ad un tono più selvatico».

È l’arte che imita la natura? No, è quella forma di preghiera laica con la quale l’uomo esprime il proprio bisogno di una più forte simbiosi con lo splendore del creato. Una casa, un giardino…di più: un corpo unico, un unico intreccio di linee immaginarie, di armonie, di richiami. Anche e soprattutto così ci si prende cura della natura, amandola e ri-dandole vita attraverso l’arte, indagando con passione nei suoi dedali tanto oscuri quanto incantatori.

Pubblicato sulla “Voce” del 20 settembre 2024

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(Foto Maria Chiara Bonora)

Palio, dopo 91 anni rivive un abito di S. Maria in Vado  

17 Mag
Caterina Guidi con l’abito di Iole Maffei

Il costume di seta viola con effetti dorati era appartenuto alla contessa Iole Maffei Gulinelli, che lo fece realizzare da Nives Casati. 40 anni fa lo acquisirono due collezionisti, che ora l’hanno donato alla Contrada 

di Andrea Musacci

Un piccolo gioiello di moda. Un abito di seta tanto desiderato, quindi indossato, ma che, per vicissitudini varie, è rimasto per 90 anni custodito, nascosto.

È la storia di un abito da donna di ispirazione rinascimentale appartenuto alla contessa ferrarese Iole Maffei Gulinelli. Lo fece disegnare appositamente da Nives Comas Casati – grande stilista protagonista della Ferrara degli anni ’30 del secolo scorso -, per sfoggiarlo nel 1933 in occasione delle celebrazioni del IV centenario della morte di Ludovico Ariosto, momento storico di rinascita del Palio estense. Circa 40 anni fa l’abito venne poi acquisito da una coppia di collezionisti della nostra città, Claudio Gualandi e Linda Mazzoni, che ora lo hanno donato alla Contrada di Santa Maria in Vado. Sì, perché i colori dell’abito richiamano proprio quelli del gruppo di Borgovado. Ma ripercorriamo questa affascinante storia.

LA RINASCITA: GUIDO FACCHINI E NIVES CASATI

Come detto, nel 1933 a Ferrara si svolgono le celebrazioni del IV centenario della morte di Ludovico Ariosto. Proprio in vista di questo evento epocale, a fine degli anni ‘20 a Guido Angelo Facchini viene affidato il compito di studiare la tradizione del Palio, per farla rivivere. Dopo intensi studi, Facchini riesce a dimostrare che il nostro Palio ha radici storiche antichissime, anzi è il più antico d’Italia: tracce di una vera e propria manifestazione popolare “in festo beati Georgi” (per la festa di San Giorgio) risalgono agli Statuti del 1279. Il “papà del Palio ferrarese” – così viene chiamato Facchini – traccia a tavolino i confini di Contrade e Borghi, individuandone i nomi, costruendo il Regolamento e disegnando di suo pugno le bandiere e i simboli del Palio che saranno quasi in toto ripresi da quello contemporaneo. Facchini poi individua in Nives Casati la stilista a cui affidare il compito di disegnare e realizzare le divise delle Contrade, che furono un vero vanto per la città. Nives Casati era figlia della triestina Itala Dudovich, sorella di Marcello, noto cartellonista che, non a caso, proprio in quegli anni, circa nel 1931, realizzò per il calzaturificio Zenith di Ferrara la celebre pubblicità dell’uomo che fuma adagiato nella scarpa.

GLI ABITI VENDUTI AL PORTOGALLO

Un vanto, quello degli abiti che, però, troppo presto, si trasforma in peso, vergogna di cui sbarazzarsi. Lo spiega bene Gian Paolo Bertelli nel suo libro “I Costumi Del Palio Di San Giorgio Di Ferrara (1933-1952)”: «nel 1935 il Comune prese in carico tutte le attrezzature ed i costumi che erano stati utilizzati per la manifestazione. Dopo il periodo bellico, nel 1946, qualcuno si accorse di questo materiale che era stato ammassato alla rinfusa nella chiesa della Consolazione in via Mortara» e «da subito l’amministrazione comunale si dimostrò propensa a disfarsene in quanto il Palio era considerato (…) una manifestazione scarsamente culturale ed educativa». Inoltre, «le autorità non potevano sopportare che a riscoprirlo fosse stato Italo Balbo e le altre autorità fasciste dell’epoca». Viene rifiutata una prima offerta fatta da una casa d’arte di Firenze, la Ceratelli, poi viene invece accettata una più sostanziosa proposta di acquisto – 2 milioni e mezzo di lire – da parte della Universalia, società cinematografica romana. Ma nella primavera del ’47 la Prefettura di Ferrara blocca la transazione. Ormai, però, prosegue Bertelli, «le decisioni a livello politico erano state prese e la vendita era ormai scontata, venne indetta una nuova gara e questa volta entrò in lizza anche il Comune di Lisbona in Portogallo che proprio nel 1947 festeggiava l’ottavo centenario della nascita della città e pertanto era interessata all’acquisto dei costumi e degli accessori per poter organizzare il corteo storico». Ci furono nuove «proteste di alcuni giornali locali poi si dovette arrendere anche la Prefettura ed il contratto venne stipulato, per due milioni e novecentomilalire. Il console portoghese – prosegue Bertelli – acquistò il materiale che era stato utilizzato per rappresentare il primo Palio di San Giorgio effettuato dopo l’esilio degli estensi. Il ricavato sembra sia stato devoluto (si spera interamente) alla scuola d’arte Dosso Dossi che nel ùprimo dopoguerra versava in condizioni precarie». 

Nel 1952 vengono rinvenuti alcuni oggetti, forse di proprietà dell’Ente del Turismo di Ferrara, nel Deposito disinfezione del Comune in via Mortara: alcune selle, gualdrappe, guanti, qualche costume ed alcuni labari. Fino alla fine degli anni ’60 vi fu una vera e propria rimozione storica sul Palio, dovuta al suo legame stretto col regime fascista. Di questa damnatio memoriae è stato vittima anche Guido Angelo Facchini, riabilitato lo scorso dicembre con la trasformazione dell’Ente Palio in Fondazione Palio Città di Ferrara E.T.S. dedicata proprio alla sua memoria e a quella di Nino Franco Visentini, Consigliere Comunale DC che fece nuovamente rinascere questa tradizione 60 anni fa.

Iole Maffei con l’abito

L’ABITO DI IOLE

Come accennato, Iole Maffei Gulinelli (morta nel luglio 2011), essendo di stirpe nobile, molto probabilmente fu in grado di farsi disegnare personalmente l’abito oggetto di questa nostra storia, riuscendo così a conservarlo. I luoghi dove ha vissuto, o comunque appartenuti alle famiglie di cui porta i cognomi, si trovano in via Savonarola, proprio a pochi passi dalla Basilica-Santuario di Santa Maria in Vado: Palazzo Giglioli-Maffei è all’incrocio con via Bassi (in via Savonarola, 29); di fronte si trova Palazzo Gulinelli. Un altro Palazzo Maffei (Palazzo Bonacossi-Maffei-Boldrini, dove c’è l’edicola con la Madonna dei Facchini) si trova lì vicino, in via Zemola/angolo via Paglia.

L’abito rinascimentale di Iole Maffei è di seta pura, viola con cangianti effetti color oro. All’interno è doppiato con un tessuto di lino, mentre all’esterno presenta nastri di velluto e ricami di passamaneria dorati e perle. La seta è pregiata ma l’abito, rispetto ad altri, non risulta eccessivamente appariscente. È di gusto neogotico, una personale interpretazione, pur non precisissima, degli abiti originali rinascimentali: forse in questo la Casati si era ispirata ad alcuni affreschi di Schifanoia.

Assieme all’abito c’è un copricapo a velo e due stivaletti originali, in panno viola foderato con pelle di capretto e tacco a rocchetto tipico della moda degli anni Trenta. Sotto lo stivaletto destro c’è il segno – un piccolo solco – lasciato dalla staffa. 

IN DANZA DOPO 90 ANNI

Nei primi anni Ottanta, Linda Mazzoni e Claudio Gualandi acquisiscono l’abito. I due erano già appassionati e collezionisti di abiti antichi, lei gestiva ancora il negozio Circus di artigianato artistico in via Mazzini (aperto dal 1979 al 1987). «Inizialmente – ci raccontano – credevamo fosse un abito di carnevale. Poi abbiamo visto che era di color viola e oro e abbiamo pensato potesse essere legato alla Contrada di Santa Maria in Vado». 

Nel 2019 due contradaioli di Santa Maria in Vado, Davide Nanni e Roberto Pavani, vengono ad ammirare l’abito, riconoscendo in esso un pezzo della loro storia: Nanni ne scrive sul periodico della Contrada, “L’Unicorno”, Pavani recupera alcune foto in bianco e nero di Iole Maffei a cavallo.

E un paio di mesi fa Gualandi e Mazzoni decidono di donare l’abito alla Contrada, che ha intenzione di conservarlo ed esporlo in una teca apposita.

La mattina dello scorso 14 aprile nell’Omaggio al Duca della Contrada di Santa Maria in Vado in piazza Castello l’abito è stato indossato, dopo 91 anni, da una dama, Caterina Guidi. La stessa, l’ha sfoggiato lo scorso 6 maggio, danzando con Mauro Biasiolo in Pinacoteca Nazionale durante un evento organizzato da Bal’danza, “Il labirinto di Isabella”, con danze a cura del gruppo “L’Unicorno”.

Una storia affascinante, questa, il cui lieto fine è stato reso possibile grazie alla passione per la tradizione e per la bellezza, e al forte senso di appartenenza dei suoi protagonisti.

Pubblicati sulla “Voce di Ferrara-Comacchio ” del 17 maggio 2024

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«Vi spiego come il nostro Duomo resistette al sisma nel 1570-1574»

22 Mar

Intervista a Marco Stefani, noto geologo e docente di UniFe: il racconto (anche inedito) dei danni

«Nonostante tutto, il Duomo ha retto bene sia agli eventi sismici del 1570 sia a quelli del 2012. Di certo, ci sarà bisogno di altri interventi per mettere maggiormente in sicurezza l’edificio». A dirlo alla “Voce” è Marco Stefani, geologo e Professore Associato del Dipartimento di Architettura di UniFe. Il 22 marzo alle 17 nella sede della CGIL Ferrara (piazza Verdi) interverrà sul tema “Il duomo di Ferrara e i terremoti del 1570 e 2012”, all’interno del ciclo “Riflessioni sull’ambiente” organizzato dall’Istituto Gramsci. Stefani in passato ha lavorato presso la Oxford University (GB), la Johns Hopkins University of Baltimore (USA), il Caribbean Marine Research Center (Bahamas), e l’I.F.P. di Parigi. 

«Quella di Ferrara – ci spiega – è una storia di terremoti, ne sono documentati una ventina che han prodotto danni agli edifici ma nessuno con conseguenze catastrofiche». Il primo risale al 1116-1117, in seguito al quale si decise di iniziare la costruzione dell’attuale Cattedrale. Gli eventi sismici registrati tra il 1570 e il 1574, in particolare tra il 1570 e il 1571, «sono quelli che han provocato più danni e più hanno influito sulla storia della nostra città». La stima è di alcune centinaia di morti, «ma poteva andare molto peggio». Si tratta anche, per Stefani, del «terremoto per l’epoca più e meglio documentato in Italia e nel mondo», grazie a diverse testimonianze, corrispondenze di ambasciatori, resoconti di sopralluoghi, richieste di restauri e successive visite pastorali. Quello che chiamiamo “terremoto del 1570” in realtà è «una lunga serie di fenomeni di debole o media intensità durati quattro anni». Il problema è che – a differenza del terremoto del 2012 – l’epicentro «era sotto la città di Ferrara e gli eventi sono stati tanti e ravvicinati tra loro», ma almeno «sono avvenuti a poche decine di km di profondità».

Per quanto riguarda il nostro Duomo, i danni – da quel che sappiamo – hanno riguardato, esternamente, sul lato settentrionale (via Gorgadello, attuale via Adelardi), un «timpano triangolare che è crollato negli edifici dal lato opposto della strada, per la precisione sopra il postribolo allora presente» (sede attuale della Pizzeria Osteria Adelardi), «provocando una decina di morti»; Mario Equicola negli “Annali della città di Ferrara” della seconda metà del XVI sec. scrive di questi danni «al frontespicio del Duomo verso Gorgadello, con ruina di una casa al’incontro di quello». Danni hanno registrato anche «alcune guglie, gli archi sul lato meridionale dell’edificio e la facciata, che è stata vicina al crollo». All’interno, invece, danneggiamenti si sono registrati nelle «due pareti del transetto», nella «parete dell’Altare del Crocifisso» e alle «torrette campanarie cilindriche» ai lati dell’abside, che sono crollate. Le conseguenze del sisma del 2012 le conosciamo bene. Ferrara non è dunque esente dal rischio sismico: non servono allarmismi ma una chiara consapevolezza di questa realtà.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 22 marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

La «memoria funerea» dei reduci della Repubblica di Salò

14 Feb

Il 9 febbraio importante incontro all’ISCO di Ferrara con Andrea Baravelli e Andrea Rossi. Nessun intento nostalgico, ma la volontà di andare oltre un’inutile damnatio memoriae

«Che qui si fa l’Italia e si muore / Dalla parte sbagliata / In una grande giornata si muore»: così cantava De Gregori nella sua “Il cuoco di Salò”, e in pochi versi riuscì a racchiudere la tragedia di «quindicenni sbranati dalla primavera» nella Repubblica Sociale Italiana (RSI), regime collaborazionista della Germania nazista esistito tra il settembre ’43 e l’aprile del ’45. Una “memoria nera” che solo i grandi artisti o gli storici onesti hanno ancora il coraggio di raccontare, senza rigurgiti nostalgici. 

Di questo si è parlato in un coraggioso incontro svoltosi lo scorso 9 febbraio nella sede dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, che ha visto, dopo i saluti della Presidente dell’ISCO Anna Quarzi, gli interventi degli storici Andrea Baravelli, docente di Storia contemporanea all’Università di Ferrara, e Andrea Rossi, dottore di ricerca in Storia militare. Una 20ina i presenti, coinvolti anche in un appassionato dibattito finale

STORIOGRAFIA REPUBBLICHINA, DAL LIMBO ALLA RINASCITA

Ma partiamo dall’inquadramento proposto da Baravelli, che ha parlato del periodo della RSI come di «un tema sommerso, che nei decenni a volte riemerge per poi inabissarsi di nuovo». La memorialistica repubblichina iniziata nel ’46 «ha rappresentato una sorta di contro-storiografia che ha impedito il formarsi di una vera storiografia». Un «limbo», quello della storiografia sulla RSI, in particolare del periodo dal ’45 al ’62, «riflesso della scarsa storiografia, negli stessi anni, della Resistenza» e del desiderio di «rimuovere l’evento traumatico della guerra civile». Nei primi anni ’60 qualcosa inizia a cambiare grazie agli studi di Enzo Collotti e Frederick W. Deakin, oltre a quelli del parlamentare missino ed ex repubblichino Giorgio Pisanò. Quest’ultimo, ha spiegato Baravelli, «negò il concetto antifascista della Resistenza come “Guerra di Liberazione” e tolse alla Resistenza la sua dimensione nazionale, identificandola come scatenata e diretta esclusivamente dal PCI». Bisognerà aspettare la fine degli anni ’70 per veder avviarsi una «storiografia complessiva» sulla RSI. Negli anni successivi, importanti saranno gli studi di Giorgio Bocca (“La repubblica di Mussolini”, 1977) e Claudio Pavone (“Una guerra civile”, 1991). Proprio grazie a quest’ultimo è partita «una nuova stagione storiografica sulla RSI», con i successivi contributi di Renzo De Felice,Nicola Tranfaglia e Luigi Ganapini. 

Ma la storia repubblichina non poteva non vivere e alimentarsi anche di immagini, e per questo Baravelli ha dedicato parte del proprio intervento all’opera dell’illustratore Gino Boccasile, che lavorò prima per la RSI poi, fino alla morte avvenuta nel ’52, per il MSI.

MEMORIE FRA ONORE E MORTE

Il lavoro degli storici nel caso dei reduci della RSI deve tener conto dell’importanza del «vissuto personale», ha sottolineato poi Rossi:«Ho lavorato molto sulla loro memorialistica, intervistando anche diversi reduci». Alcuni di loro, aderirono alla RSI da adolescenti. La RSI «non era un monolito ma qualcosa di molto magmatico», al cui interno vi erano sostanzialmente «quattro categorie» di persone: gli irriducibili, cioè «coloro che, anche nelle mie interviste, non compivano nessuna revisione critica del proprio periodo repubblichino, rimuovendone tutti gli aspetti sgradevoli. Altri, invece, da persone mature hanno riguardato criticamente quel loro vissuto», fra cui Piero Sebastiani e  Carlo Mazzantini, quest’ultimo autore del libro “A cercar la bella morte” (1986). A un’altra categoria appartengono poi coloro che non vi aderirono per motivazioni politico-ideologiche ma militari, essendo soldati di leva, spesso alpini. Vi è poi il gruppo, non irrilevante, di coloro che, nonostante vissero un’esperienza giovanile nella RSI, nel resto della loro vita «scelsero un’importante militanza antifascista». In ogni caso, per Rossi la memoria fascista è «una memoria funerea:nessuno di coloro che ho intervistato, pensava al dopo RSI: tutti sapevano che sarebbe finita male. E, infatti, raccontano quei 18 mesi a Salò e poi nulla», come se non vi fosse nulla di degno di nota dopo quell’esperienza totalizzante, dopo quella tragedia vissuta e mai superata. Il loro ricordo, quindi, non può che essere «cimiteriale», come un volto scolpito da Wildt. La morte e l’onore, per loro, erano tutto. Il resto è stato tradimento, piccole bassezze borghesi. Salò o niente.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 16 febbraio 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

Don Minzoni, incontro col Vescovo a Libraccio

5 Dic

Far luce su uno dei delitti che hanno segnato il periodo dello squadrismo fascista nel nostro territorio. Lo scorso 1° dicembre la libreria Libraccio di Ferrara ha ospitato la presentazione del libro “Un delitto di regime. Vita e morte di Don Minzoni, prete del popolo”, di Girolamo De Michele, che per l’occasione ha dialogato col nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego e con Paolo Veronesi.

Una 40ina i presenti in un incontro introdotto proprio dal nostro Vescovo: quello vissuto da don Minzoni – ha detto – è «odio nei confronti della fede», verso quegli uomini e quelle donne per cui «la fede è strettamente legata alla vita». E don Minzoni ha fatto «della vita della gente la ragione della propria missione, soprattutto verso i più poveri». Don Minzoni – così lo ha definito il Vescovo – è un esempio di «prete sociale», assieme a figure come quelle di don Milani e don Mazzolari. Mons. Perego ha quindi sottolineato la formazione del prete ravennate nella Scuola sociale di Bergamo, il suo forte legame col magistero sociale della Chiesa e il suo grande interesse per l’ambito educativo, in particolare attraverso lo scoutismo. Da qui, «l’importanza della libertà educativa – oltre a quelle politiche e civili – ancora oggi, per poter guardare al futuro con occhi diversi».

Occhi che possono essere illuminati solo se la luce proviene anche dal passato. Ed è questo che ha tentato di fare De Michele nel suo libro e nel suo intervento a Libraccio, dove ha ripercorso la vita del sacerdote, sottolineando innanzitutto il suo  forte legame col popolo: quello del territorio argentano assegnatogli, che raggiungerà – viste le lunghe distanze – in bicicletta (fatto anomalo per un prete di quell’epoca); o quello mandato a combattere sul fronte nel primo conflitto mondiale, che seguirà arruolandosi, «pur non essendo un guerrafondaio». Ma la reazione al cosiddetto “biennio rosso” (per De Michele più correttamente da individuare tra il ’20 e il ’21), fu quello squadrismo fascista sostenuto in ogni modo dal mondo agrario anche ferrarese:a tal proposito, per De Michele «il “metodo Balbo” venne inaugurato proprio ad Argenta con l’omicidio Gaiba», consigliere comunale socialista, avvenuto  nel maggio ’21.

De Michele ha quindi accennato ad alcune vicende riportando, a tratti, anche particolari inediti: fra le curiosità, la presenza accertata di un deputato ferrarese, Vico Mantovani, nel gruppo di squadristi che hanno disturbato l’inaugurazione della sede scout argentana e il ruolo di Augusto Maran (capo fascista locale e mandante dell’omicidio di don Minzoni), nella cui casa ha accolto i due assassini del sacerdote subito dopo l’omicidio, e prima di farli nascondere a casa di un suo parente. 

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” dell’8 dicembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vita di Nella Gandini, un sogno di canto libero interrotto troppo presto

27 Ott

La giovane ferrarese è tra i 191 morti dello spezzonamento americano del 10 giugno 1944. Vi raccontiamo la sua pur breve vita di promessa cantante lirica: un pezzo di storia della città

di Andrea Musacci

Aveva solo 24 anni Nella Gandini quando trovò la morte, assieme ad altre 190 persone, a causa dello spezzonamento delle forze armate americane sulla città di Ferrara. Una vita orribilmente stroncata assieme al suo sogno: diventare una grande cantante lirica, come il padre Napoleone e il cugino Angelo.

Vi raccontiamo questa storia inedita grazie soprattutto ai racconti di Savia Salmi, vedova di Giorgio Gandini, nipote di Nella. Una vicenda drammatica ma ricca di aneddoti ed episodi particolarmente interessanti, dove l’intimità delle persone e delle famiglie richiama fatti collettivi, e viceversa.

UNA FAMIGLIA FERRARESE

Nata il 21 gennaio 1920, era figlia di Napoleone e Maria Faccini.Suo padre, classe 1892, era cresciuto nel Borgo San Luca dove vivrà per alcuni anni (forse anche dopo sposato), prima di spostarsi con la famiglia in corso Porta Reno, 23, come risulta dalla carta d’identità di Nella del 1938 (dove si firma “Nella Maria Gandini”), e poi in via Ripagrande, 21 (dove oggi c’è l’hotel Maxxim), occupando qui un intero piano sopra i fratelli Cervi, storici “biciclai” ferraresi. Prima e durante la guerra, Napoleone gestiva una macelleria in via Gorgadello (l’attuale via Adelardi). Dai suoi documenti, risulta anche che Napoleone aveva vissuto in via della Luna, 23. La madre Maria, detta Edvige, amava invece ospitare nella sua casa per pranzo o cena, e a volte dando anche alloggio, giovani artisti e studenti universitari, anche amici dei figli, a cui a volte chiedeva di recitare alcuni versi.

Nello stesso documento di identità, di Nella si dice che fosse alta 1,69 m, «robusta» di corporatura, capelli e occhi «castani», fronte «media» e naso «concavo». Nelle foto dell’album di famiglia, spesso la giovane è assieme a una sua carissima amica, Wanda, riconoscibile per i folti capelli ricci.

Nella era la maggiore di quattro figli: gli altri erano Rino, padre di Giorgio (marito di Savia), più giovane di quattro anni; Giorgio, giornalista e storico; Giovanni, il più giovane. 

LA PASSIONE PER LA LIRICA

Il padre Napoleone, come detto, era baritono e usava il nome d’arte Nino Cavalieri. Cantò anche con Enrico Caruso. Anche suo nipote Angelo Mercuriali (1909-1999), figlio della sorella, era cantante d’opera (tenore, per la precisione) e veniva simpaticamente chiamato “voce d’Angelo”. Diceva sempre che doveva molto allo zio Napoleone, ed era sposato con il soprano Lina Paletti.

Nella, quindi, respirò fin da piccola quest’aria e volle seguire il padre e il cugino su questa strada: studiò a Padova e si esibì a Parma, Firenze, alla Scala a Milano, oltre che a Ferrara. Nel 1937, ad esempio, prese parte al “Lodovico…il Moro” con regia di Angelo Aguiari.

CLIENTE DEL “PICCOLO PARIGI”

Nella adorava collezionare piccole bambole che vestiva con abitini da lei stessa realizzati: acquistava dei “bustini” femminili di piccole dimensioni (parti di pompon per la cipria) che legava a coni di cartone usati come base e rivestiva con abitini che riproducevano gli abiti delle protagoniste degli spettacoli o forse di personaggi che lei stessa interpretava. Li usava come portafortuna e amava ammirarli poggiati sulla sua toeletta, chissà, forse anche fantasticando. 

I “bustini” (realizzati tra gli anni ’20 e ‘30) probabilmente li acquistava nel “Piccolo Parigi”, boutique in piazza Trento e Trieste vicina al Teatro Nuovo, per la precisione dove ora si trova l’entrata del negozio “Kasanova” (mentre le attuali altre due vetrine dello stesso, un tempo erano occupate dal negozio di abbigliamento per bambini “Cottica” e da un negozio di tessuti). Di proprietà di un certo Trevisani, il negozio (chiuso da una 30ina d’anni) prima si trovava in piazza Municipale, proprio sotto l’arco che divide questa da piazza Duomo e vendeva, fra l’altro, bigiotteria, pettini, profumeria, cerchietti per capelli per bambini, portachiavi e portasigarette. Il magazzino del “Piccolo Parigi” si trovava invece nella vicina via Contrari. L’illustratore Claudio Gualandi ci racconta come a metà anni ’70 lo visitò trovandoci, fra l’altro, gadget fascisti (spille, anelli) e un fez.

UNA VOCE SPEZZATA

I suoceri di Savia e altri parenti acquisiti han sempre parlato poco e malvolentieri della morte di Nella, per un pudore recondito o perché il dolore per il trauma vissuto minacciava sempre di riaffiorare.

Rino, fratello di Nella, è un partigiano o comunque collabora con i partigiani. Possiede un furgone con cui durante la guerra mette in salvo persone trasportandole fuori città. E forse trasporta anche partigiani, ricercati dai nazifascisti e armi. Forse per questo, per non esporla a rischi, il 10 giugno del 1944 non vuole caricare Nella in uno dei viaggi verso Porotto. Ma Rino – che è molto legato a lei – non può sapere che così la sta abbandonando a un’orrenda fine. Quando Rino torna da Porotto, lo spezzonamento in zona San Luca è già avvenuto: Nella viene colpita in via G. Fabbri presso il frutteto Tenani. Proprio il fratello Giorgio nel suo libro “Ferrara sotto le bombe” (Comune di Ferrara, 1999) racconta, forse riportando la testimonianza del fratello Rino: «Mia sorella aveva un grosso buco dietro l’orecchio, un largo squarcio sulla schiena, sul petto e sulla pancia, un piede amputato. Il suo impermeabile era intriso di sangue. Zeffira aveva la testa appoggiata su mia sorella e guardava il cielo, stringendo al petto il maglione di lana che stava sferruzzando, lordo di sangue. (…) Mia sorella Nella – continua il racconto – l’avevano distesa sul pavimento della cucina e noi la guardavamo con occhi impietriti. “Uomini, andate via! Dobbiamo lavarla e vestirla”, ci avevano intimato le donne del Borgo, spingendoci affettuosamente fuori (…).  Il giorno dopo il “Corriere Padano” (…) diede la notizia dell’inaudito massacro. “I gangsters nuovamente su Ferrara (occhiello) – Micidiale spezzonamento di inermi fuggiti nei campi (titolo)” (…). L’articolo scriveva: “(…) Il numero delle vittime sorprese all’aperto e senza possibilità di difesa è pertanto assai elevato. La pesante incursione ha avuto luogo nella mattinata” (alle ore 10.30, ndr)». Probabilmente quando muore, Nella è sola, anche se dall’elenco delle vittime risultano altre due donne (Nina Merli, 19 anni e Maria Grazia Schivalocchi), colpite anch’esse «nei pressi di via G. Fabbri». Nella forse si trovava in questa zona perché rifugiatasi da parenti di S. Luca dove il padre stesso era nato e cresciuto. 

Il “santino” funebre di Nella recita così: «Per te che hai spiccato il volo verso la più eccelsa e luminosa vetta, cantino gli angeli il cantico più bello, la melodia più dolce; perché tutto in te era arte, tutto era musica. L’Alma tua, aleggerà sempre sopra di noi indicandoci la via del bene. Tu pura, tu buona, come hai cantato fra gli uomini continuerai a cantare fra gli angeli».

Una Speranza infinita per questa ragazza strappata troppo presto al palcoscenico drammatico e sublime della vita.

Grazie a Claudio Gualandi e Linda Mazzoni per averci aiutato nella raccolta delle informazioni e delle immagini.

Pubblicato sulla “Voce” del 27 ottobre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Vittorio Cini fu un “figlio illegittimo”: ecco perché

8 Lug

Una vicenda quasi inedita: l’industriale, politico e mecenate ferrarese fu riconosciuto dalla madre solo a 13 anni, e dal padre a 18. La causa? Lei era già sposata. Indagine sull’infanzia di uno degli uomini più potenti del Novecento italiano

di Andrea Musacci

La vita di Vittorio Cini, si sa, è stata nelle grazie e nelle disgrazie una vita anomala…

Leggi l’articolo integrale qui: https://lavocediferrara.it/vittorio-cini-fu-un-figlio-illegittimo-ecco-perche0/

«Intransigente nella fede e universale nell’amore»: Don Giovanni Minzoni, prete da riscoprire

6 Lug

Una sera di fine agosto del 1923 ad Argenta i fascisti uccidono barbaramente il parroco don Giovanni Minzoni. Ritratto di un uomo che ha scelto di dedicare la propria vita a Cristo e, quindi, sempre capace di chinarsi davanti al dolore delle persone. In ogni “trincea” in cui ha vissuto

di Andrea Musacci

Può capitare che alcune vicende decisive nell’esistenza di una persona portino i suoi biografi a costruirne, più o meno in buona fede, un ritratto non sempre aderente alla vita reale della persona stessa. Il rischio di ridurre personalità complesse a ruoli, pur nobili ma parziali, è dunque spesso dietro l’angolo.

Così è accaduto anche per don Giovanni Minzoni, sacerdote ravennate, parroco di Argenta fino alla morte, avvenuta per mano degli squadristi di Italo Balbo nel 1923. Una vita, la sua, scandita certamente da fasi differenti (Seminario-primi anni da prete; in trincea; anni ad Argenta), fra le quali è possibile individuare una chiara maturazione umana e spirituale. Può essere superficiale, però, non intravedere tra le varie fasi un filo rosso, segno del suo carattere sempre forte ed entusiasta, idealista ma non astratto, le cui inquietudini giovanili – pur nell’acerbità – sono nient’altro che quelle di un uomo che non cerca infingimenti rispetto alla condizione umana e, nello specifico, al proprio tempo. 

AMORE PER LA VERITÀ

Pur nella mancanza, nel periodo in Seminario e nei primissimi anni ad Argenta, prima della guerra, di un contatto diretto e quotidiano con la realtà concreta del suo popolo, don Giovanni dimostra nel suo Diario una lucidità non scontata verso la società nella quale è chiamato a vivere. Così, l’arroganza di un sapere tecno-scientifico slegato dalla realtà – oggi così drammaticamente attuale – era già ùin nuce: «Quante volte l’uomo chiede ad una scienza vana chi è Dio e quali siano le prove della sua esistenza, mentre poi la risposta la può dare solo la vita, ossia l’anima che compie il suo dovere, che lotta per il bene e vive e succhia tutto ciò che è puro! La scienza è una cosa troppo unilaterale in un problema così vitale» (8 aprile 1909).

E ancora: «Il fosco medio evo quanta luce, quanto più sole non faceva gustare all’ombra delle abbazie ai figli dei nostri avi, a quei figli che uscivano dalle scuole non scienziati, ma uomini» (4 ottobre 1909). La chiarezza delle posizioni non gli mancava nemmeno allora (manca, invece, spesso oggi in alcuni cattolici): «Noi dobbiamo attingere un’unica scienza, quella del Vangelo; l’unica, e non dimentichiamolo mai, che possa convertire la presente società» (18 giugno 1909).

AMORE PER IL PROSSIMO

Non solo una passione astratta, quella di don Minzoni, ma sempre con lo sguardo rivolto ai dolori e alle speranze delle persone: «Gesù è amato dalle anime tribolate (…), poiché egli è il primo martire dell’umanità: martire dell’amore» (13 ottobre 1909).

Il tormento più grande deriva dall’incapacità di vedere l’altro, di amare. Don Minzoni lo sa: riguardo a un giovane socialista «che sente disprezzo per me», scrive nel suo Diario: «Dio mio, se potessi baciarlo in viso quanto sarei felice! Vorrei fargli sentire che sotto questa veste v’è un cuore che ama ed ama fortemente; vorrei fargli sentire quanto io gli sia fratello; vorrei fargli comprendere che se sono intransigente nella fede sono però universale nell’amore!» (22 novembre 1909).

Il 28 dicembre dello stesso anno porta la Comunione a un vecchio morente: «in quell’ampia ma bassa stanza, annerita dal tempo e resa solenne dal rantolo di quell’esistenza che lentamente spegnevasi, ho provato un sentimento che non so esprimere, ma che tuttora sento in cuore, come un’eco dolce e mesta». Nello stesso momento, sente il vagito di un neonato proveniente da un’altra stanza: «la culla e la tomba parlavano il medesimo linguaggio: dolore!… Gesù, sospeso nelle mie mani sacerdotali, benediva ad entrambi!».

LA GUERRA: ORRORE E PIETÀ

La Storia catapulterà don Giovanni nell’inferno della prima guerra mondiale: nel 1916, poco dopo l’incarico ad Argenta, viene arruolato, prima in un ospedale militare di Ancona, poi è lui stesso a chiede di essere inviato al fronte. Lo spirito nazionalista, l’attaccamento alla Patria non fa però mai venir meno i suoi sentimenti più profondamente umani. Il 26 maggio 1918, riguardo al famoso combattimento aereo, avvenuto sul Montello, dove perde la vita l’eroico aviatore Francesco Baracca di Lugo, scrive: «Ai caduti del cielo ho impartito l’assoluzione: certo, in quel momento tragico precipitando nel grande vuoto e nel martirio delle fiamme, lo spirito deve essersi rifugiato in Dio con un grido di preghiera (…). Lì, in disparte, coperto da un telo da tenda, giaceva il martire del dovere (forse, lo stesso Baracca, ndr). Non aveva più forma umana, essendo in parte bruciato ed in parte disfatto. Nessuno si curava di lui; quasi lo calpestavano per vedere lo spettacolo (…). Mormorai una preghiera su quei miseri avanzi, pensai ad un cuore di madre lontana che forse nel presentimento materno già piangeva la sua creatura che precipitando dallo spazio era divenuto figlio del Cielo!».

CRISTO, VERA RISPOSTA AL DOLORE

Don Minzoni rimarrà sempre, al di là delle sue idee politiche e sociali, un sacerdote della Chiesa, colui che, anche nell’orrore della guerra, porta Cristo alle donne e agli uomini.

In una lettera a don Giovanni Mesini, amico e maestro di Ravenna, il 7 giugno 1917, così scrive: «I miei soldati sentono odor di polvere e, senza che io li spinga, vengono essi stessi in cerca del Cappellano. Non più tardi di ieri sera vedevo anche gli ufficiali che mi desideravano sia come amico, sia come sacerdote. Oh, che confessioni ho udito! Piene di lacrime e di propositi santi. Ho pianto io pure mentre cercavo di dire loro quella parola intima, forte e serena che solo può dire la Religione. Li ho baciati ad uno ad uno…speriamo bene (…). Penso a Dio, alla mia coscienza, alla sorte che mi potrà toccare ed ogni sera dico con cuore calmo e rassegnato: Signore sia fatta la vostra piena, paterna, inscrutabile volontà».

E ancora, sul suo Diario il 9 marzo 1918: «Vi sono (…) anime che in questo lungo e doloroso periodo della guerra sono diventate più profondamente religiose: la guerra ha fatto sentire maggiormente Iddio non in base ad un profondo ragionamento, ma attraverso l’onestà e la bontà della vita. Più l’uomo è venuto meno alla serietà, più queste anime sono andate a Dio e in Dio stanno incondizionatamente, perché al di fuori di Dio non trovano conforto».

«LA RELIGIONE NON AMMETTE SERVILISMI, MA IL MARTIRIO»

Tutta la vita, dunque, e anche la drammatica morte di don Minzoni sono sempre nella fede in Cristo Risorto. In un’altra lettera a don Mesini dell’agosto ‘23, così si esprime: «Gli avversari mi fanno colpa dell’influenza spirituale che ho nel paese…ma che debbo farci se il paese mi vuol bene? Come un giorno per la salvezza della Patria offersi tutta la mia giovane vita, felice se a qualche cosa potesse giovare, oggi mi accorgo che battaglia ben più aspra mi attende. Ci prepariamo alla lotta tenacemente e con un’arma che per noi è sacra e divina, quella dei primi cristiani: preghiera e bontà. Ritirarmi sarebbe rinunciare ad una missione troppo sacra. A cuore aperto, con la preghiera che spero mai si spegnerà sul mio labbro per i miei persecutori, attendo la bufera, la persecuzione, forse la morte per il trionfo della causa di Cristo (…). La religione non ammette servilismi, ma il martirio».

***

Una vita in prima linea

Giovanni entra in seminario nel 1897 (dove entra in contatto con Romolo Murri) e nel 1909 è ordinato sacerdote. Nel ’10 è nominato cappellano ad Argenta, dove rimane fino al ’12 per andare a studiare alla scuola sociale della Diocesi di Bergamo. 

Alla morte del parroco di Argenta nel gennaio 1916, viene designato a succedergli, ma dopo pochi mesi viene chiamato alle armi: prima opera in un ospedale militare di Ancona, ma poi chiede di essere inviato al fronte: vi giunge come tenente cappellano del 255º reggimento fanteria della Brigata Veneto. Durante la battaglia del solstizio sul Piave, viene decorato sul campo con la medaglia d’argento al valore militare. Al termine del conflitto torna ad Argenta e diviene parroco di San Nicolò, dove promuove la costituzione di cooperative tra i braccianti e le operaie del laboratorio di maglieria, il doposcuola, il teatro parrocchiale, la biblioteca circolante, i circoli maschili e femminili. Grazie all’incontro con don Emilio Faggioli, si convince della validità dello scoutismo, per cui fonda un gruppo scout in parrocchia. Contrasta l’Opera Nazionale Balilla e l’Avanguardia giovanile fascista. 

La sera del 23 agosto 1923 viene ucciso a bastonate da alcuni squadristi facenti capo all’allora console di milizia Italo Balbo.

***

Zuppi ad Argenta

Mercoledì 23 agosto alle ore 18 nel Duomo di Argenta si svolgerà la Commemorazione solenne del centenario del Martirio di don Giovanni Minzoni.

Concelebra il Presidente della CEI Card. Matteo Maria Zuppi.

Iniziativa organizzata dalla Parrocchia di Argenta in collaborazione col Comune di Argenta.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 luglio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Straferrara, negli anni ’50 “emigrò” in Argentina

30 Giu

Nel dopoguerra la storica Compagnia dialettale ferrarese fu portata anche a Buenos Aires grazie alla  passione di alcuni emigrati: Nino Beccati, Icaro Rossi e Gianni Casadio. Il racconto di un’intuizione poco nota

di Andrea Musacci

Un amore così grande per la propria città e la sua lingua, da non poter fare a meno di portarle ovunque con sé. È ciò che hanno vissuto tanti emigranti nel corso dei decenni. Alcuni di loro, però, nel secondo dopoguerra, decisero di portare la propria città e le sue tradizioni non solo nel cuore ma anche di farle rivivere pubblicamente.

È il caso della “Straferrara” che a Buenos Aires in Argentina negli anni ’50 e ’60 ha rappresentato diversi spettacoli della storica Compagnia dialettale ferrarese nata negli 1931 grazie a Ultimo Spadoni insieme a Mario Bellini, Piero Bellini, Renato Benini, Leonina Guidi Lazzari, Arnaldo Legnani, Umberto Makain, Norma Masieri, Erge Viadana.

LA STRAFERRARA “MADRE”

La prima recita avvenne il 3 settembre 1931 al Teatro dei Cacciatori di Pontelagoscuro con la commedia “Padar, fiol e…Stefanin” e la farsa “L’unich rimedi”, scritte entrambe da Alfredo Pitteri. Allora, infatti, si usava concludere la serata, dopo la commedia, con una farsa.

Da allora la Straferrara lavorò quasi per un anno intero al Cinema-Teatro Diana di Ferrara. L’anno successivo iniziò una toumée in tutti i teatri della provincia e poi al teatro Nuovo e al teatro Verdi di Ferrara dove si esibì per molte recite. Grande successo ebbe Rossana “Cici” Spadoni, nata nel ’31, che a 5 anni era considerata una bambina prodigio ed era per questo denominata “la Shirley Temple italiana”.

Durante la seconda guerra mondiale, la Compagnia continuò la propria attività, pur sotto l’incubo delle incursioni aeree, recandosi con mezzi di fortuna anche nei pochi teatri di provincia disponibili, per portare un po’ di svago e conforto agli sfollati. Oggi sono oltre cinquecento i testi rappresentati dalla Straferrara e dalle altre compagnie del teatro dialettale.

UN PO’ DI FERRARA IN ARGENTINA

Nel secondo dopoguerra anche dal Ferrarese in molti scelgono di emigrare per cercare un riscatto dopo gli anni difficili del conflitto mondiale. Tra il 1946 e il 1950 si stima che circa 278mila italiani emigrano in Argentina (sono quasi 3 milioni dal 1871 al 1985, con picchi nel primo trentennio del Novecento). Nel secondo dopoguerra tra i ferraresi che emigrano nel Paese sudamericano c’è Nino Beccati, che a fine anni ’40 vi si trasferisce, sposandosi: dal suo matrimonio nascono Anna e Luciana (ancora residenti a Buenos Aires). Nino lavorerà come lucidatore di mobili, professione che già svolgeva a Ferrara, e che a Buenos Aires gli permetterà di aprire un’azienda di grande successo, la “B.K.T.” (sigla che richiama il suo cognome). Ci sono, poi, Icaro Rossi, che conosce Beccati proprio sulla nave che da Genova li porta a Buenos Aires (viaggio che, ad esempio, circa 20 anni prima aveva compiuto la famiglia Bergoglio); Gianni Casadio, classe ’27, nato in corso Isonzo a Ferrara, arrivato a Buenos Aires nel ’50 (l’anno successivo lo raggiunsero la moglie Lara Droghetti e il loro figlio Andrea di 10 mesi; quattro anni dopo nascerà il secondogenito Carlo Alberto); e Mario Maregatti

Questi decidono di ricreare nella capitale argentina una piccola Ferrara, con la nascita, appunto, della “Straferrara”, con Rossi capocomico, e della SPAL. Di quest’ultima ne abbiamo parlato sulla “Voce” del 5 ottobre 2018. 

Nel 2008, un certo Maurizio originario di Portomaggiore, invia una lettera al Carlino di Ferrara: «Cari amici, abito in Argentina da ben 57 anni. Sono venuto coi miei genitori quando ne avevo 6. A quell’epoca i Ferraresi di Buenos Aires erano parecchi. Tanti che in un certo momento si poteva radunare non meno di 50 concittadini in maggioranza Portuensi (di Portomaggiore). Per iniziativa di uno di loro, Icaro Rossi, si formò una compagnia dilettante di teatro parlato in dialetto Ferrarese. Alcune volte all’anno vi si riuniva per assistere alla commedia e dopo si ballava fino a tarda ora. Oggi nel gruppo originale rimaniamo soltanto una decina». 

Quasi un decennio dopo, il 3 agosto 2017, Maurizio Musacchi nella sua rubrica su estense.com scrive riguardo a Gianni Casadio: «Lo conobbi durante un viaggio a Buenos Aires invitato dalla Comunità Ferrarese locale. Portai loro un po’ di Ferrara: Pampapati, ciupéti, farina castagna da “far i tamplù”, una sciarpa della SPAL e pubblicazioni dialettali. Gianni era dinamicissimo e legato fortemente alla sua Città, con amici emigranti, fondò una locale SPAL e una compagnia dialettale chiamandola Straferrara». 

La Straferrara rappresenta a Buenos Aires alcuni storici spettacoli della Compagnia nata nella città estense. Fra questi, “A.S.M.A. (Agenzia Segreta Matrimoni e Affini)”, commedia in tre atti di Augusto Celati e Arturo Forti, nella quale Nino Beccati recita nel ruolo di Franco De Menti; e “Alla bersagliera”, alla quale è legato un aneddoto della guerra. Il 23 aprile 1945, infatti, la Straferrara fu sorpresa dalla prima granata caduta sulla città al Teatro Diana (in via San Romano/piazza Travaglio) dove stava rappresentando il primo atto dello spettacolo.

Una storia, dunque, quella della Straferrara argentina,  che racconta del legame indissolubile dei tanti ferraresi con le proprie radici, della volontà di non dimenticare la propria città, facendola rivivere anche grazie alla commedia dialettale.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Collezione Claudio Gualandi – Anno 1954)