Paolo, nostro collaboratore dal 1967, ci ha lasciati il 20 ottobre 2024: lo ricordiamo col libro che tanto desiderava e un incontro giovedì 18 dicembre a Casa Cini
[Qui la locandina dell’iniziativa del 18 dicembre]
di Andrea Musacci
È con grande commozione che come Voce presentiamo il libro di Paolo Micalizzi dal titolo Passione cinema. Oltre un secolo di film, volti e storie, che esce come supplemento della nostra rivista. Paolo ci ha lasciati il 20 ottobre 2024 (erano giorni miti e piovosi) e fino all’ultimo è stato un fedele e costante collaboratore del nostro Settimanale.
Il libro è una sorta di antologia-testamento: raccoglie oltre 25 anni di collaborazione con la Voce, dal 1999 al 2024. Ho avuto la fortuna di curare questo volume, ma più che curatore ne sono stato co-curatore, insieme a Paolo. Questo, infatti, non è un libro dedicato a lui ma è il suo libro, il libro che lui ha desiderato, sognato, che ha ideato e organizzato, col sostegno mio, di don Massimo Manservigi e di Laura Magni.
Il volume verrà presentato – in collaborazione col Circolo della Stampa di Ferrara – giovedì 18 dicembre alle ore 17.30 a Casa Cini, Ferrara (via Boccacanale di Santo Stefano, 24 – v. locandina a pag. 5). Il volume (prezzo 15 euro) sarà acquistabile in quell’occasione o successivamente a Casa Cini (contattare il numero 350-5210797) o nella Libreria Paoline di via San Romano.
IL LIBRO: GENESI E STRUTTURA
Gli articoli contenuti in questo volume sono stati pubblicati nella rubrica settimanale Panorama Cinema, poi diventata Cinenotes. Il lavoro per la pubblicazione inizia nel 2024 con la scelta degli articoli, la correzione, il disporli in senso cronologico (il più vecchio è del giugno 1999 ed è dedicato a Mario Soldati; i più recenti sono dell’aprile 2024 e sono due articoli “religiosi”, uno sulla Cattedrale di Ferrara e l’altro sulla figura di Gesù Cristo nel cinema); e poi il dividerli per macro sezioni (Cinema italiano, Cinema internazionale, Cinema ferrarese, Cinema religioso); e le prime due macrosezioni – le più corpose – nel suddividerle a loro volta in cinque sottosezioni: Dive&Divi, Maestri della regia, Storia, arte e letteratura, Protagonisti della settima arte, Coppie: gli indivisibili. Poi vi è stata la stesura degli indici (quello generale e quello dei nomi) e la scelta delle immagini. E a proposito di queste, Paolo per la copertina mi aveva suggerito di usare una locandina del cinema dei fratelli Lumière del 1895.
(Leggi l’articolo intero e il ricordo scritto da Maurizio Villani qui).
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 dicembre 2025
Il docufilm di don Manservigi. A Santo Spirito la versione inedita de “L’unica via” con backstage e animazione. Ecco la storia di un martire del Vangelo, morto a 27 anni a Bando di Argenta.Il 13 maggio serata cinefila con tante sorprese
di Andrea Musacci
Il racconto del sacrificio estremo, quello della propria vita e – insieme – il racconto delle nostre terre e del nostro popolo durante la guerra. È stata una serata particolarmente toccante quella dello scorso 29 aprile al Cinema S. Spirito di Ferrara per la proiezione della versione inedita del docufilm “L’unica via” del regista don Massimo Manservigi e dedicato a don Santo Perin. La nuova versione è introdotta da scene inedite dal backstage e dal lavoro – anch’esso inedito – di Laura Magni per la grafica, il compositing e la titolazione, e della stessa Magni assieme a Giuliano Laurenti (entrambi dell’UCS – Ufficio Comunicazioni Sociali Diocesano) per l’animazione in video real grafica di diverse immagini della pellicola, oltre che di foto e filmati dell’epoca. La sera stessa, il Cinema di via della Resistenza ha ospitato due piccole mostre dedicate a don Perin, una delle quali inedita, e realizzate dallo stesso UCS Diocesano. La prima, fu ideata e creata nel 2010, dopo l’uscita del film; l’altra, rimarrà esposta fino all’11 maggio nella chiesa di Santo Spirito. Ricordiamo che questo del 29 è stato il secondo dei tre incontri del ciclo dedicato al cinema di don Manservigi, dal titolo “Ti ho ascoltato con gli occhi”, che si concluderà il 13 maggio (alle ore 21, ingresso gratuito, e alle ore 20 con buffet offerto ai partecipanti) con “Laboratorio di immagini. Come nasce un documentario tra narrazione e realtà”, con aneddoti legati ad alcuni film. Il primo incontro, tenutosi il 25 marzo, ha visto invece la proiezione dei documentari “Come il primo giorno” dedicato all’artista Giorgio Celiberti, e “Nzermu. Accesa è la notte”, dedicato a p. Anselmo Perri sj.
Tornando a “L’unica via”, la prima fu il 14 ottobre 2010 al Multisala Apollo di Ferrara, per l’occasione gremito di persone.E non pochi erano nemmeno i presenti a S. Spirito. Qui, don Manservigi, nel presentare il film, ha posto ripetutamente l’accento sulla partecipazione di tante persone – soprattutto dell’argentano e di Ferrara – nella realizzazione della pellicola.Una partecipazione di non professionisti a titolo gratuito che ha dato vita, possiamo dire, a una comunità, «alla nascita o al rafforzarsi di relazioni di amicizia e di stima ancora oggi vive». Il film è, quindi, anche «un album di famiglia». Nel futuro, vi sarà anche la pubblicazione di un romanzo breve dedicato a don Perin, scritto da Barbara Giordano (Ufficio Comunicazioni Sociali Diocesano), co-sceneggiatrice del film.
Ricordiamo, fra gli altri protagonisti del progetto, Roberto Manuzzi per le musiche, Nicoletta Marzola per la scelta dei costumi d’epoca, Scolastica Blackborow per la fotografia di scena e Alberto Rossatti come voce narrante. Decisiva, già prima della realizzazione del film, anche la figura di Sergio Marchetti, Presidente del Comitato “Amici di Don Santo Perin”, che ha sposato Rosanna, una delle nipoti del sacerdote, e che ha svolto il ruolo di addetto al coordinamento durante le riprese. Il film inizia proprio con immagini inedite del backstage e interviste ad alcuni dei protagonisti, fra cui don Stefano Zanella – che interpreta don Perin -, allora sacerdote da appena 2 anni, e oggi parroco dell’Immacolata di Ferrara, Direttore dell’Ufficio Tecnico Amministrativo Diocesano e neo Presidente del Museo della Cattedrale.
Nel docufilm si alternano parti di cronaca storica ad altre di narrazione della vita – interiore e non – di don Santo e delle persone di Bando di Argenta a lui affidate. Ad arricchire il racconto, testimonianze e ricordi di Dolores Filippi, sorella di Pino, il giovane morto con don Santo, Bruno Brusa, e diversi nipoti di don Santo, oltre allo storico Rino Moretti e a molti altri. Quella di don Perin – «figura piccola sul piano storico ma grande sul piano umano», come ha detto don Manservigi -, è una delle vittime di un gruppo specifico nella seconda guerra mondiale: 7 sono stati, infatti, i preti ferraresi, o attivi nella nostra provincia nella Seconda guerra mondiale, uccisi nello stesso periodo, su un totale di 123 sacerdoti e religiosi ammazzati in Emilia-Romagna negli stessi anni, come ha ricordato il nostro Arcivescovo mons. Perego nel saluto finale.
TUTT’UNO COL SUO POPOLO
Il docufilm di don Manservigi è anche un racconto popolare, della vita umile nelle campagne nel difficile periodo della guerra.E così la vita di don Santo è quella di una famiglia contadina, di un ragazzino presto dovutosi abituare al lavoro nei campi ma che non per questo non si innamorò dello studio, anzi.
Santo Perin nasce il 3 settembre 1917 a Trissino (Vicenza) da Crescenzio Luigi e Maria Miotti e 6 giorni dopo è battezzato al fonte della chiesa parrocchiale di Sant’Andrea Apostolo. Proprio nella località vicentina, l’Amministrazione, oggi, sta pensando di dedicargli una via. Nel ’24 la sua famiglia emigra ad Argenta, ma si pensa che alcuni Perin si siano recati lì già nel ’22 per valutare l’acquisto di alcuni terreni, e per l’occasione abbiano conosciuto quella che di lì a breve diventerà una delle prime vittime del fascismo: il parroco don Giovanni Minzoni. Passano 10 anni e il 28 novembre 1933 Santo decide, nonostante la giovane età, di iniziare il cammino che lo porterà al sacerdozio. Prima tappa, l’Istituto Missionario Salesiano “Cardinal Cagliero” di Ivrea (Torino). Nel ’36 muore il padre, stroncato da un infarto e un anno dopo Santo entra nel Seminario Arcivescovile di Ravenna dove il 5 dicembre 1943 riceve il diaconato e pochi mesi dopo, il 25 marzo 1944, l’ordinazione sacerdotale. Il 17 giugno dello stesso anno termina gli studi teologici e lascia il Seminario per essere destinato a Bando di Argenta come vicario cooperatore del parroco don Enrico Ballardini, che però, ormai molto anziano, muore pochi mesi dopo, lasciando al giovane l’intera responsabilità della parrocchia. Fin da subito, don Santo si dimostrerà un pastore attento a ogni singola persona a lui affidata; come ogni padre, capace di dosare tenerezza e fermezza, di rapportarsi ai più piccoli come ai più anziani, con una spiccata sensibilità che solo la fede nel Dio incarnato può donargli.
Il periodo non è di certo uno dei più facili, con la guerra che incombe e soffoca la vita delle persone. Guerra che nel film di don Manservigi innerva gesti, parole ed emozioni dei protagonisti, divenendo, delle loro esistenze, sfondo e ossatura, e intrecciandosi a quei riti quotidiani – una donna che impasta il pane, i bambini che giocano a calcio con un pallone di stracci -, come la nebbia che tutto avvolge e ovatta. Ma, scriveva il giovane parroco nel proprio diario, «sorriderò e il buio della mia anima si dissiperà»: incessante, infatti, è la sua preghiera al Padre, non tanto per sé ma, sempre, per questo suo popolo affidatogli; tanto che il paese si rappresentava in lui, e lui era il suo paese. Emblematica, a tal proposito, la scena della consegna da parte dei bandesi delle chiavi delle loro case a don Santo prima di sfollare nei campi. Don Perin scelse di vivere così il proprio servizio a Cristo e al suo pezzo di Chiesa: confortando i sopravvissuti, medicando i feriti come un buon samaritano, dando degna sepoltura ai morti. E svolgendo buona parte della propria missione sulla strada, da Bando a Filo, da Bando a Longastrino e ritorno, sempre inforcando la propria bicicletta, a portare i sacramenti e la prossimità, fisica e spirituale, del parroco, dell’amico, del Signore dei poveri e degli sfollati, medico per le ferite delle loro anime, capace anche di vincere il male di una guerra assurda e fratricida.
«Signore accetta la mia vita. Non avrò paura della morte. Il futuro è tuo», scriverà sempre nel suo diario.
E così vivrà, fino all’ultimo: tra il 10 e il 18 aprile ’45, gliAlleati sferrano l’attacco definitivo contro le ultime difese tedesche, provocando rovina e morte anche a Bando, dove don Santo celebrerà il rito di benedizione per 40 vittime, aiutando lui stesso a scavare la fossa. Il 25 aprile 1945, quando il Ferrarese è già stato da alcuni giorni liberato dall’invasore, il giovane prete viene a sapere che lungo l’argine del canale Benvignante c’è il corpo di un soldato tedesco, e subito decide di andare a seppellirlo. Perché rischiare la propria vita per un morto, perlopiù “nemico”? Ma la logica che muove don Santo non è quella di questo mondo, ma quella del Regno: i nemici vanno amati, perché tali non sono, ma fratelli nostri. DonSanto parte, seguito da alcuni ragazzi che si offrono di aiutarlo. L’esplosione di una mina li investirà, dilaniando a morte il corpo del giovane Giuseppe “Pino” Filippi e riducendo in fin di vita don Santo, che morirà il giorno dopo all’ospedale di Argenta. Nel cimitero di questa località verrà sepolto, ma le sue spoglie mortali il 20 aprile 2002 saranno traslate nella chiesa parrocchiale di Bando. Nel cippo posto sul luogo della sua morte, sono incise le parole di Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Solo il Cristo Risorto può essere la fonte di questo amore assurdo.
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 maggio 2025
Presentato in Biblioteca Ariostea il volume “Infinito Antonioni”. Gli aneddoti della nipote
Il piccolo ma ricchissimo mondo di Ferrara e il grande e caotico universo degli anni ’60, con i suoi tumulti e le sue rivoluzioni.
Michelangelo Antonioni durante la sua lunga e complessa carriera artistica ha saputo porsi nei diversi punti di intersezione- temporali e spaziali – fra queste diverse dimensioni. Di questo e molto altro si è parlato lo scorso 10 gennaio in Biblioteca Ariostea a Ferrara nel corso della presentazione del libro “Infinito Antonioni. Una ricerca rivoluzionaria sulle immagini” (L’Asino d’oro edizioni, Roma, 2024). Il volume, curato da Elisabetta Amalfitano e Giusi De Santis, raccoglie i contributi di Giulia Chianese, Iole Natoli e Francesca Pirani.
Proprio Chianese il 10 ha dialogato con la storica Antonella Guarnieri, il fondatore della Ferrara Film Commission Alberto Squarcia e il pittore Luca Zarattini.
POPOLARE E SEMPRE OLTRE
«Antonioni, nonostante le sue origini borghesi, scelse il mondo popolare, protagonista dei suoi primi film, dimostrando così di avere uno sguardo diverso, profondo sulla realtà». Così Guarnieri nel suo intervento. «Possedeva uno sguardo politico nel senso di umano, nel saper guardare la commozione profonda di chi non poteva esprimersi».
Della Ferrara metafisica, città dei silenzi e città in bianco e nero», ha invece parlato Squarcia: «Antonioni è stato fortemente influenzato dalla sua città ma al tempo stesso ha raccontato le trasformazioni e le inquietudini degli anni ’60», ha aggiunto.
Sulla stessa scia, Chianese, la quale ha sottolineato la sua «capacità di cogliere dinamiche profondissime e di rappresentarle per immagini».
Zarattini ha invece spiegato come il regista abbia influenzato la sua arte, per poi riflettere sul rapporto tra Antonioni e la musica jazz. «Grande era la sua capacità di mettersi sempre in discussione – ha riflettuto il pittore -, di andare sempre oltre e oltre il proprio tempo in maniera sempre originale». Zarattini ha poi mostrato alcuni suoi disegni realizzati per l’occasione e ispirati ad alcune immagini delle pellicole di Antonioni, fra cui “Gente del Po”, “La notte” e”L’eclisse”.
ANEDDOTI AGRODOLCI
L’incontro si è quindi concluso con l’intervento di Elisabetta Antonioni, fondatrice e Presidente dell’Associazione “Michelangelo Antonioni” e protagonista di un’intervista contenuta nel volume. Diversi gli aneddoti raccontati in una Sala Agnelli colma di persone. Le origini familiari, innanzitutto: «la madre di Michelangelo, mia nonna Elisabetta Alfonsina Maria – ha detto – era casalinga e per radio ascoltava sempre le commedie, e Michelangelo si lagnava un po’ di questo»…mentre suo padre «amava i treni e le ferrovie». Michelangelo, «che a 8-10 anni suonava il violino», aveva un tic «amato da tante ragazze», e il sogno «di girare un documentario nel manicomio di Ferrara, grazie al fatto che suo padre ne conosceva il Direttore». Ma non andò a buon fine. Un altro dispiacere era legato al fatto che «metà del girato di “Gente del Po” andò perduto» e alle critiche «della sinistra politica di allora al suo “Grido”, perché in esso – a dire di alcuni – aveva rappresentato i sentimenti “borghesi” di un operaio». Altra delusione fu la stroncatura de “L’avventura” a Cannes, con Monica Vitti che «esce piangendo dalla sala della prima perché nel pubblico in tanti fischiano e sghignazzano. Ma il mattino dopo molti critici sostengono pubblicamente con una lettera la pellicola« (il documento è esposto allo Spazio Antonioni). E ancora: «le foto andate perdute» delle giovani fan a un concerto dei Beatles e la «forte preoccupazione di Michelangelo perché dopo il grande successo di “Blow Up” si sentiva oppresso in quanto temeva di non riuscire più a fare un film all’altezza». Paura infondata. Infine, il “ritorno” a Ferrara coi ricordi e Michelangelo che «impara a sciare sul Montagnone», la casa nel quartiere San Giorgio e l’ultima casa ferrarese dove ha abitato, in via Cortevecchia, 57, dove ora si trova un noto bar-pasticceria. Insomma, «Michelangelo non ha mai perduto la sua Ferrara: l’ha sempre tenuta nel cuore».
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 gennaio 2025
Paolo Micalizzi. L’ultimo saluto al critico e storico cinematografico. Mons. Manservigi: «la sua vita era un viaggio, era sempre altrove, dove le cose nascevano e accadevano. Oggi di uomini così ce ne sono sempre meno. Raccoglieva idee e le portava agli altri»
Le parole, nella vita di ogni giorno, e in particolare in un mestiere come quello del giornalista, possono essere un’arma o una carezza, una via di incontro o di conflitto. Vanno usate, più che mai, con attenzione, con una parresia sempre intrisa di attenzione all’altro, di un desiderio pieno: che quando quelle parole si interromperanno, avvenga l’incontro, il cuore e la mente si elevino, le vite e i volti delle persone si incrocino e si affianchino.
Ci sono state persone come Paolo Micalizzi che per una vita hanno tentato di usare le parole in questo modo: come ponte, come sempre nuovo sprone per continuare la ricerca.Nel pomeriggio dello scorso 24 ottobre, in chiesa e sul sagrato della Sacra Famiglia a Ferrara, in occasione delle sue esequie, le parole scorrevano discrete fra le tante persone accorse. Erano vocaboli di dolore e di riconoscenza, di un’incredulità ancora bruciante, di affetto, parole di pietà per la moglie Mara e la figlia Federica. Parole discrete, sì, ma che si rincorrevano, tanti erano gli aneddoti su Paolo da raccontare, i suoi progetti portati a compimento, le relazioni intessute, gli intrecci. C’era l’Amministrazione Comunale – nella persona dell’Assessore alla Cultura del Comune di Ferrara Marco Gulinelli -, il mondo accademico, dell’associazionismo, di tutte le varie anime della cultura ferrarese che Paolo ha attraversato e alimentato.
Le parole, quindi. Tante ora sono raccolte e si continueranno a raccogliere in un blog a lui dedicato (https://mostramicalizzi.blogspot.com), altre commoventi le ha pronunciate mons. Massimo Manservigi nell’omelia per l’amico e collega:«questo – ha detto – non è un saluto estremo ma il nostro saluto terreno, diverso da quell’abbraccio di quando il Signore tornerà per portarci là dove ci ha già preparato una dimora. E ora Paolo è col Signore, perché Lui lo conosce, perché Dio è attento a ciascuna persona come se fosse l’unica». Uno dei tratti di Paolo – ha proseguito – «era di prendere congedo, sempre pronto per andare da un’altra parte: “devo andare” in quel tal posto, diceva sempre, aveva «questa dinamica.Era sempre in ciò che doveva fare, nel luogo che doveva raggiungere, guardava sempre avanti». Come “Voce” stavamo lavorando assieme a lui per un libro che raccoglierà diversi suoi articoli usciti sul nostro Settimanale diocesano: «avrei dovuto chiamarlo a breve per dirgli che a livello di impaginazione il volume è pronto», ha proseguito mons. Manservigi. «Sembrava sempre giovane, Paolo, sempre attivo, mai si rallentava nei suoi impegni. Era uno che – citando il Vangelo – andava a preparare posti, perché amava condividere con gli altri. La sua vita era un viaggio, era costantemente altrove, andava a vedere dove le cose nascevano e accadevano. Oggi di uomini così ce ne sono sempre meno».
E ancora: «per lui valeva sempre il motto “prendi quel che ami e portalo da un’altra parte”: era un “accumulatore seriale” di oggetti, cimeli, libri, di tutto ciò che riguardava il cinema, soprattutto ferrarese». Da qui, l’idea di donare tutto al “Centro Documentazione Studi e Ricerche Cinema Ferrarese” con sede a Palazzo Roverella, Centro di cui era ideatore e Responsabile. «La sua vita – se ci pensiamo – è la misura del tempo in cui il cinema è vissuto a Ferrara. Questo suo raccogliere, materiale e non, è un’eredità che lascia e che ora dovremmo far nostra. Lo dobbiamo a una persona equilibrata, pronta al dialogo, anche se a volte poteva sembrare sbrigativo, preoccupato com’era di arrivare al dunque, di portare a termine i suoi tanti progetti, ma sempre rispettoso delle persone con le quali aveva a che fare. Paolo ci ha donato qualcosa che nessun altro potrà donarci».
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° novembre 2024
Un ricordo del critico e storico cinematografico Paolo Micalizzi, scomparso la notte tra il 19 e 20 ottobre
di Andrea Musacci
Già quando nella tarda mattinata di sabato 19 ottobre mi aveva chiamato, la voce stanca, ero dispiaciuto nel sentirgli dire: «non so se faccio in tempo a inviarti il pezzo per Cinenotes perché ho avuto la febbre alta». La mia risposta – «va bene, saltiamo una settimana, non succede niente» – pur sincera non faceva trapelare la stranezza di immaginare un numero della Voce senza la sua rubrica. Poi aveva aggiunto: «riesci a riempirlo comunque quello spazio?». «Sì, Paolo, non ti preoccupare…». Certo, lo abbiamo riempito, ma sembra rimasto vuoto.
In questo mio ricordo avrei voluto raccontare i tanti progetti e attività della sua vita, ma avremo tempo per farlo con più calma e in parte lo fa chi lo ricorda in questa pagina (v. qui “La Voce” del 25 ottobre 2024). Voglio solo aggiungere che Paolo nasce a Reggio Calabria nel 1938 e a soli 21 anni (il 1° maggio ’59) viene assunto dalla Montecatini di Ferrara, dove lavorerà fino alla pensione. Come critico cinematografico esordisce alla Gazzetta Padana di Ferrara: un secondo lavoro che lo affaticava ma che – mi raccontava poche settimane fa – faceva con enorme passione. Nel giugno 2021 lo intervistai per La Voce e come ultima domanda gli chiesi i suoi progetti per il futuro: «Continuare a tenere viva con articoli, libri e iniziative che intendiamo attuare come Cineclub Fedic Ferrara, la tradizione di Ferrara e il suo cinema…». Lo ha fatto fino all’ultimo, finché ne ha avuto le forze.
Grazie di tutto, Paolo.
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 ottobre 2024
Nel volume, 365 recensioni e diversi interventi. Presentazione il 12 settembre in Biblioteca Ariostea
Si intitola “Il cinema raccontato giorno per giorno” il volume che raccoglie 365 recensioni di film, una per ogni giorno dell’anno, del giornalista Gian Pietro Zerbini, dal 1989 fino a pochi mesi fa nella redazione de “la Nuova Ferrara”.
Da giornalista, Zerbini vedeva scorrere ogni giorno la pellicola della realtà, e con gli occhi del cronista la registrava, la interpretava. Per fare il giornalista, bisogna avere passione per la realtà. E il cinema (l’arte in generale) non è meno “reale” di quella fuori dallo schermo. È la realtà vissuta prima nella mente e nel cuore del regista, che poi rivive nel cuore di chi la osserva. Ho sempre apprezzato poco l’espressione “cinema della realtà”: il cinema è un’illusione non negativa (lo è la mera foto “di cronaca”, figuriamoci un film “di finzione”…), è creazione, ri-creazione nel senso di stacco, di distacco, di sempre nuova realtà, che prima non esisteva.
Allo stesso modo, il cronista/critico cinematografico Zerbini con le sue parole ha ri-creato 365 e più volte quel reale sullo schermo che tanto ama. Lo ha fatto rivivere di vita nuova, perché la parola non può essere corpo morto, ma vita che si incarna sulla pagina, vita che a sua volta rivive in chi la legge. E così via, su una pellicola invisibile e potenzialmente infinita.
Andrea Musacci
IL 12 SETTEMBRE PRESENTAZIONE IN BIBLIOTECA ARIOSTEA
Il volume, già acquistabile nelle librerie e anche on line, viene presentato giovedì 12 settembre alle ore 17 nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara (via delle Scienze, 17).
Il libro di Zerbini inaugura anche una nuova collana della Faust edizioni di Fausto Bassini, intitolata “Buio in sala”, dedicata ai legami tra il cinema e Ferrara.
GLI INTERVENTI NEL LIBRO
Uscito per Faust edizioni, il volume ospita anche diversi interventi: Cristiano Meoni (Direttore “la Nuova Ferrara”), Massimo Marchesiello (Prefetto Ferrara), mons.Massimo Manservigi (Vicario della nostra Arcidiocesi e regista), Paolo Micalizzi (critico d’arte e nostro storico collaboratore), Gabriele Caveduri (ex gestore di sale cinematografiche), Paolo Govoni (Vice Presidente Camera di Commercio Ferrara-Ravenna), Carlo Magri (docente UniFe a.c. e filmaker), Riccardo Modestino (Presidente De Humanitate Sanctae Annae odv), Stefano Muroni (attore e fondatore di “Ferrara La Città del Cinema”), Erik Protti (Foiunder e co-CEO gruppo Cinepark), Anna Quarzi (Presidente ISCO Ferrara), Bobo Roversi (Presidente nazionale Unione Circoli Cinematografici ARCI).
Gli artisti Roberto Melli, Severo Pozzati e Laerte Milani, oltre alla costumista Adriana Berselli nel libro di Scardino “Cinema Pittura Ferrara”
«I film dovranno diventare disegni viventi», profetizzava un secolo fa Hermann Warm, scenografo de “Il gabinetto del dottor Caligari”. Tecnici, artigiani, scenografi, costumisti. E ancora: attrezzisti, tappezzieri, falegnami, stuccatori, fabbri e sarte. Dietro un film effettivamente vi è un mondo variegato di professionisti spesso poco considerati ma in realtà fondamentali per la realizzazione dell’opera. Un concerto di creatività che fa essere un film qualcosa di infinitamente più complesso e affascinante di una mera sequenza di riprese.
Lo ricorda Lucio Scardino, critico e storico dell’arte, nel suo libro da poco edito “Cinema Pittura Ferrara. Quattro artisti ferraresi prestati alla Settima Arte” (Ed. La Carmelina, 2022).
L’autore si sofferma in particolare su quattro creativi del nostro territorio che hanno tentato, con alterne fortune, di realizzarsi anche nell’ambito cinematografico. Parliamo di Roberto Melli (1885-1958), Severo Pozzati (1895-1983), Laerte Milani (1913-1987) e Adriana Berselli (1928-2018).
Un crescendo, temporalmente parlando, di riconosciuta fama: si parte con Melli, pittore e scultore che riscosse ben poco successo nel suo tentativo: fu direttore artistico della San Marco Film, sceneggiatore e scenografo de “La piccola fioraia”, co-regista de “La cugina d’Alcantara” e “La casa dei libri”, regista de “Il fiore del destino”.
Poi, Pozzati, detto Sepo, artista comacchiese, che collaborò con la Felsina Film, prima come insegnante nella scuola per attori e tecnici, poi realizzando alcune scenografie. Successivamente, firmò soggetto e regia di “Fantasia bianca”, film ben presto dimenticato.
Sicuramente più successo ebbe lo scultore Milani, originario di Mezzogoro: dagli anni ’40 realizzò prima documentari scientifici per il GUF (Gruppo Universitario Fascista) ferrarese, poi, con altri (grazie allo “Studio Milani” o “Pubblicine”), alcuni shorts, cortometraggi pubblicitari d’animazione proiettati nei cinema locali prima dei film, e una pellicola animata, “Destinazione errata”. In seguito, si concentrò su cartoons, scenografie, fondali e disegni animati.
Infine, la vera “diva” del quartetto: Berselli, costumista, nata nell’ospedale dei bambini di via Savonarola, considerata – da un articolo di “Repubblica” – «regina dei costumi del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta». Lavorò tra l’altro per “La voce del silenzio” di Georg Wilhem Pabst, “L’avventura” di Antonioni (foto), altre pellicole con Virna Lisi, Peter Seller, Sylva Koscina, Michel Piccoli, o dirette ad esempio da Roman Polanski e Carlo Lizzani.
Modi diversi, dunque, di tentare di dare il proprio contributo alla Settima Arte. In ogni caso, un tassello importante di ricerca di un ambito ben poco noto del legame tra Ferrara e il cinema.
Andrea Musacci
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 febbraio 2023
Si chiama “La Scuola come scelta” il docu-film di Alejandro Ventura girato all’Arginone grazie al CPIA di Ferrara
di Andrea Musacci
Il desiderio di riscatto attraverso una nuova comprensione di sé e del mondo. È questa la molla che spinge ogni anno tante persone detenute nella Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara a partecipare alla scuola dentro il carcere gestita dal CPIA (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) di Ferrara.
Questa appassionante esperienza è stata raccontata nel docu-film “La Scuola come scelta” – diretto da Alejandro Ventura – e a cura di Marzia Marchi, docente in carcere – in occasione dei dieci anni del CPIA. La pellicola è stata presentata in anteprima a Bologna, in occasione della 6^ edizione di Fierida (13-15 ottobre), la più importante manifestazione sull’Istruzione degli Adulti del nostro Paese, nella quale è intervenuto il dirigente del CPIA ferrarese Fabio Muzi. Il docu-film sarà proiettato in carcere e a disposizione delle scuole e di iniziative di promozione culturali. Dal 13 al 15 ottobre si è celebrato il decennale dell’emanazione del Regolamento che riorganizza il sistema di Istruzione degli Adulti (DPR 263/2012), la legge 92/2012 che istituisce il sistema nazionale dell’apprendimento permanente e la nascita della rete nazionale dei CPIA, la RIDAP.
La scuola in carcere
La scuola all’interno del carcere esiste da molto tempo: la Legge n. 503 del 1958 ha istituito le Scuole carcerarie elementari, ma anche durante il fascismo, un Regolamento del 1931 prevedeva l’obbligatorietà di corsi d’istruzione elementare per i detenuti.
I CPIA, istituiti appunto dieci anni fa, nel 2012, a Ferrara esistono dall’a. s. 2015-2016. Prima si chiamava CTP ed era la Sezione adulti di un Istituto comprensivo. Ogni anno il CPIA di Ferrara certifica in lingua italiana al livello A2 circa 5 persone che poi proseguono il percorso scolastico, per un numero di 10-15 detenuti-studenti ogni anno.
Essere docenti all’Arginone
Abbiamo avuto la possibilità di vedere in anteprima il bel docu-film realizzato da Ventura nel carcere di via Arginone. Un’emozionante testimonianza dell’importanza dell’incontro come possibilità di crescita per tutti, docenti e studenti. Partiamo dai docenti.
Marzia Marchi, dopo 20 anni di insegnamento nella scuola primaria, 7 anni fa ha iniziato a insegnare alfabetizzazione in lingua italiana agli stranieri in carcere e nella scuola serale. «Sfida importante», dice, perché la persona che viene a scuola in carcere «si mette in una condizione di evidenza del proprio fallimento, delle proprie difficoltà. Cerco sempre di entrare in carcere col sorriso per portare una leggerezza e aumentare l’efficacia dell’insegnamento: devo motivarli perché desiderino scendere in classe anche la mattina successiva». Oltre al raggiungimento del titolo di studio, la scuola anche qui serve per «possedere le parole per interpretare la società in cui hanno vissuto in maniera sbagliata», «quindi cerco di dare loro una chiave di accesso per comprendere il mondo».
«La scuola in carcere è occasione di dialogo», spiega Irene Fioresi, un’altra insegnante. «La classe è uno spazio sociale ma anche di silenzio per gli studenti per riflettere su sé stessi. Anche per me ogni giorno è una sfida e mi permette di interrogarmi sulla mia stessa posizione nella società».
Carlo Tassinari, invece, è docente di cucina dall’IIS Vergani-Navarra. «La scuola in carcere – spiega – è occasione di riscatto dopo una sconfitta, un rimettersi in discussione, per vedere davanti a sé nuove possibilità». Dal Vergani viene anche Alessandra Gunalachi: «per un’insegnante quella nella Casa Circondariale è un’esperienza molto gratificante. I miei studenti-detenuti li ho sempre trattati come i miei studenti fuori, e quindi vi è un rapporto di reciproco rispetto e fiducia».
Le voci dei detenuti
Kelmen è un detenuto-studente: «ho una pena lunga, e frequentare la scuola mi ha ricordato la mia infanzia, le mie radici. Da piccolo non ho avuto la possibilità di frequentarla ma mi sono reso conto che la scuola ci insegna valori veri, e di poter migliorare la nostra vita e quella della società».
Dopo Stephen, fra i detenuti interviene anche Asiruwa, nigeriano: «studiando, puoi conoscere i tuoi diritti. Ora sono felice. Voglio essere un bravo ragazzo quando uscirò da qui, vorrei diventare un politico nel mio Paese».
Per Gianni la scuola in carcere, invece, è «uno scambio culturale. Più studi più hai voglia di imparare. Consiglio a tutti di frequentare la scuola qui in carcere. Non è mai troppo tardi».
Infine, nel video, oltre a due testimonianze di stranieri che frequentano i corsi serali del CPIA – Joelle e Amadou -, vi è anche il racconto personale di un ex detenuto: «la scuola in carcere è stata una grande opportunità per essere, una volta uscito, inserito nella società. Fra noi detenuti facevamo a gara a chi imparava di più».
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 ottobre 2022
“The Grand Bolero” di Gabriele Fabbro ha vinto il recente Ferrara Film Festival. Desiderio e violenza nel rapporto tra due donne
di Andrea Musacci
«Ogni cosa e ogni luogo appaiono nella loro veste più vera, ti toccano in qualche modo più da vicino – così come sono: splendore e miseria»
(Giorgio Agamben, “Quando la casa brucia”)
Le mani e la bocca. L’eterno contrasto tra l’energia corporale e la forza delle parole. Due forme di relazione che possono tramutarsi in violenza e sopraffazione. Temi ancestrali ma che col diffondersi della pandemia da Covid-19 hanno assunto un significato maggiore: le mani coperte dai guanti o dal gel, la bocca coperta dalla mascherina. La difficoltà o impossibilità di toccare l’altro.
Su questo si gioca la drammatica vicenda narrata nel film “The Grand Bolero”, diretto da Gabriele Fabbro e premiato al recente Ferrara Film Festival con il premio per la miglior attrice (Lidia Vitale) e per la miglior opera d’autore. Film proiettato lo scorso fine settimana al Cinema San Benedetto e che prossimamente arriverà all’UCI Cinemas. Ambientato per gli esterni nel Santuario della Madonna della Pace alla Rocchetta (provincia di Lecco) e per gli interni nella cappella dell’ospedale di Lodi, il film racconta di una restauratrice d’organi, Roxanne (Lidia Vitale), donna di mezza età che, nonostante il lockdown del 2020, decide di proseguire il proprio lavoro, vivendo nella chiesa abbandonata, custodita solo da un sacrestano, Paolo. Ma irromperà una giovane, Lucia (Ludovica Mancini), appena cacciata, assieme al fratello, di casa dal padre, e invitata proprio da Paolo a far da assistente alla dura e cinica Roxanne. Il rifiuto ostile di quest’ultima nei confronti della giovane si tramuterà in attrazione morbosa.
Dall’indifferenza alla rivelazione
Pur nel momento più difficile della pandemia, quello iniziale, la paura di Roxanne del contatto deriva da altro, da una sua incapacità profonda di esprimere sé stessa, di lasciarsi “toccare”. Una mancanza – si capirà – legata a un rapporto difficile con la madre, e che la porta a esagerare l’aspetto verbale, fatto di toni duri e urlati. Ma lei, indifferente alle restrizioni sanitarie, oltre a non indossare la mascherina, impedirà inizialmente alla giovane ogni contatto: con lei, nemmeno nella gioia per un organo che rivive, e con i suoi amati strumenti musicali. «Non toccare il mio organo!», si sente rimproverare più volte Lucia.
Solo dopo che quest’ultima le avrà dimostrato di poterle essere d’aiuto, l’atteggiamento della donna cambierà. Le mani di Lucia saranno strumento potenziato di comunicazione, di desiderio. Desiderio che si scatenerà in Roxanne, prorompente, cieco. Proprio mentre Lucia suona l’organo, si rivela definitivamente alla donna: quest’ultima la ammira turbata e rapita, ma non vuole mostrarlo. Allora, per la prima volta, per nascondersi indossa la mascherina, quasi a voler celare il proprio desiderio, l’affiorare dell’emozione e del turbamento sul suo volto.
Ma il rivelarsi anche fisico della passione, ben presto si tramuterà in rabbia e violenza.
Il corpo vince
La lotta finale tra le due è, infatti, un intreccio inestricabile di amore e sopraffazione, attrazione e repulsione. Tutto, in quegli istanti, è detto dal corpo – dalla mimica facciale, dalle mani, dall’intera corporeità. Portate all’estremo, forza e dolcezza sembrano annullarsi a vicenda. Ma non è così: come scrive Luce Irigaray (“Elogio del toccare”), e lo possiamo applicare tanto per Roxanne quanto per Lucia, ognuno di noi resta diviso «tra Dioniso e Apollo (…), tra una divinità fedele alla propria naturale energia, ma che non sa come incarnarla e oscilla tra una sua mancanza e un suo eccesso, e un’altra divinità che preferisce confinarsi in un’apparente bellezza, all’interno di una forma ideale», in questo caso musicale. Nel film le parole sono perlopiù rade e fredde. Quelle sincere non possono essere udite dallo spettatore, sono come silenziate dalla distanza, forse a significare la loro mancanza di positività. È il corpo ad avere la meglio.
Ma nel film emerge anche un altro senso.
Nessuna illusione
Non c’è posto, in questa chiesa sconsacrata ma ugualmente carica di sacralità, mistero e bellezza, per la vita medicalizzata. Lì le passioni sono quelle di sempre: amore, gelosia, violenza, desiderio dell’altro. La carne e il sangue riprendono, dunque, il sopravvento sulla razionalità, sulla volontà di dominare tutto – corpi, spazi, parole. L’unica distanza davvero reale, nel film, è tra mondi diversi, l’estraneo è quello che irrompe e stravolge, senza bisogno di parole, nella solitudine melanconica e sovraterrena di una chiesa abbandonata.
Nel film non si può illudere, e autoilludersi, che “andrà tutto bene”. Ognuno dei protagonisti è solo, e rimarrà solo: solo con i propri mostri, col proprio passato, solo nella lotta tanto contro i propri impulsi quanto contro il desiderio di Altro. Il toccare fisicamente l’altro, pur avvenendo, si rivelerà, dunque, un atto “impossibile”: Roxanne non uscirà forse mai del tutto dallo schema del possesso, e la stessa Lucia rimarrà sola. Sola ma più libera e consapevole.
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 settembre 2022
Al PAC di Ferrara fino al 10 luglio la mostra “La città del silenzio”. Opere di 62 artisti ispirate al regista ferrarese. Un’occasione per ripensare all’essenza della sua poetica al di là di facili banalizzazioni
Quel regista che filmava “il niente”, autore di capolavori che spiazzavano – coi loro silenzi, coi loro vuoti, con quegli spazi morti – le abitudini e le mode di critici e spettatori.
Questo e molto altro è stato Michelangelo Antonioni, al di là di etichette, di facili e strumentali piegature della sua poetica a icona pop. L’Amministrazione Comunale di Ferrara insieme a Ferrara Arte ha deciso di omaggiarlo in occasione dei 110 anni dalla sua nascita con una mostra collettiva di artiste e artisti ferraresi (oltre 60) – “La città del silenzio. Artisti ferraresi per Antonioni” -, che fino al 10 luglio espongono le loro opere al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Ferrara, che prossimamente verrà convertito proprio in Spazio Antonioni. La mostra in un certo senso può essere vista anche come continuo ideale di “Pittori fantastici nella valle del Po” (nel 2020 al PAC) e di “Il sogno di Ferrara” di Mantovani (in mostra al Castello): una sorta di Trilogia del silenzio, per richiamare quella del “silenzio di Dio” di Ingmar Bergman (morto lo stesso giorno di Antonioni, il 30 luglio 2007).
Il legame di Antonioni con le arti è stato indagato, lo ricordiamo, 9 anni fa con la mostra “Lo sguardo di Michelangelo Antonioni e le arti”, esposto da marzo a giugno 2013 a Palazzo dei Diamanti. Per quanto riguarda la pittura citiamo, a mo’ di esempio, i richiami nei suoi film a opere di Rothko e Schifano (per Zabriskie Point, ’70), a quelle di De Chirico e Sironi (nella Trilogia dell’incomunicabilità: L’avventura, La notte, L’eclisse, rispettivamente del ’60, ’61 e ’62). Senza dimenticare le “Montagne incantate” da lui stesso realizzate.
In una lettera a Rothko, Antonioni scrive: «Io e lei facciamo lo stesso mestiere: lei dipinge e io filmo il niente». Lo squallore, la noia, la tristezza della mediocrità degli ambienti e dei paesaggi – urbani e naturali – col regista “diventano” immagine poetica. A lui riesce quel che solo un vero artista può fare: cambiare lo sguardo di chi ammira le sue opere. E quegli occhi nuovi permettono, quindi, di godere, anche nella quotidianità, dei particolari più insignificanti. Di amare – pur nello struggimento e nella malinconia – oggetti, luoghi e ambienti che altrimenti non vedremmo più, incapaci di coglierne l’anima, tediati dalla loro pesante normalità. È questo il servizio che ci fa un artista come Antonioni. Come scrive Enrica Fico nel catalogo: «cercava la luce per ogni inquadratura. Si faceva incantare dal paesaggio, anche da un orribile balconcino grigio sotto la pioggia, pur di creare il contesto esatto, vero per la sua storia».
«Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici», disse Antonioni in un’intervista, a ulteriore dimostrazione di come certo “realismo” in realtà uccida la realtà, banalizzandola. Alain Robbe-Grillet disse: nei film di Antonioni «le immagini non nascondono nulla. Ciò che vediamo è estremamente limpido, eppure il significato dell’immagine è sempre problematico e lo diventa ancora di più man mano che la storia prosegue». Citando Roland Barthes, la poetica di Antonioni privilegia il punctum dell’immagine – cioè quell’indefinibile che coinvolge e turba chi la guarda -, al suo studium – il mero campo di informazioni che l’immagine stessa ci dà.
In alcuni film del regista, disse qualche critico riferendosi in particolare alla Trilogia, «non succede nulla». Giudizi molto superficiali di chi – esperto o meno, poco importa – si aspetta da un’opera d’arte, o letteraria, solo qualche brivido, qualche sensazione, qualche stimolo fugace che non faccia scivolare nella noia. Cioè, detto altrimenti, che non faccia né sentire né pensare alla propria condizione. Come se fosse mero intrattenimento.
È invece sopravvalutata – nel cinema come nella letteratura – la trama, il “significato” potremmo anche dire, mentre si dimentica, non ci si accorge quanto i significanti, la cosiddetta “forma” siano essenziali. La forma è contenuto. Annoiarsi, quindi, è segno della nostra incapacità di contemplare, rimanere in silenzio, attendere, indugiare. Bisogna, invece, reimparare a “prendere tempo” e a perdersi nella densità e nella magia dell’immagine artistica. Ne L’avventura, ad esempio, non vi è soluzione del mistero, non c’è consolazione. Ci si “perde” – ed è una grazia – nelle viscere emotive dei personaggi, nei loro dedali esistenziali e psicologici.
L’assenza o la rarità – di parole, di suoni, di azione – non è vuoto, ma presenza non immediatamente percepibile, luogo del possibile. Il cinema di Antonioni ci abitua a vedere il pieno in ciò che ci sembra vuoto, a immergerci, a sentire il più possibile la vita, a ricordarci di fare attenzione ad essa, senza sommergerla di immagini e rumori.
Ancora Barthes scrisse: «Guardare più a lungo del richiesto […] disturba gli ordini stabiliti, quali che siano, nella misura in cui, di solito, il tempo stesso dello sguardo è controllato dalla società». È inquietante pensare alla nostra attualità in cui generazioni crescono coi tempi brevissimi, quindi vuoti (davvero), delle notizie sullo smartphone, delle immagini su Instagram, dei video su Snapchat o TikTok.
Reimpariamo, invece a indugiare, ad assaporare i vuoti e i silenzi, a contemplare la bellezza. Ci ritroveremo forse più inquieti, meno “soddisfatti”, ma di sicuro più pieni di senso e di verità.
Andrea Musacci
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 giugno 2022
Mi chiamo Andrea Musacci.
Da aprile 2014 sono Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna.
Sono redattore e inviato del settimanale "la Voce di Ferrara-Comacchio" (con cui collaboro dal 2014: http://lavoce.e-dicola.net/it/news - www.lavocediferrara.it), e collaboro con Filo Magazine, Periscopio e Avvenire.
In passato ho collaborato con La Nuova Ferrara, Listone mag e Caritas Ferrara-Comacchio.
-------------
"L'unica cosa che conta è l'inquietudine divina delle anime inappagate."
(Emmanuel Mounier)