
Eutanasia dal Belgio all’Emilia-Romagna: riflessioni sulla falsa pietà e l’autentica cura
di Andrea Musacci
Appena una settimana fa, in Belgio la Commissione federale di controllo e valutazione dell’eutanasia ha pubblicato i dati aggiornati: nel 2023 i casi di eutanasia certificata sono stati 3.423, il 15% in più rispetto al 2022 e il 3,1% di tutti i decessi (rispetto al 2,5% nel 2022). Ci spostiamo di poco geograficamente, e dai dati passiamo a una notizia: l’ex premier olandese (in carica dal 1977 al 1982, all’epoca del Partito cristiano democratico) Dries van Agt e sua moglie Eugenie, hanno chiesto e ottenuto l’eutanasia di coppia. Un fenomeno, quest’ultimo, in crescita nei Paesi Bassi (dove dal 2002 – come in Belgio – esiste una legge sull’eutanasia e il suicidio assistito): la Commissione di vigilanza Rte informa che nel 2022 sono state accolte quasi il doppio delle richieste di coppie. In totale 29: nel 2019 furono 17, nel 2020 13, e 16 nel 2021.
È utile partire dai dati di Paesi vicini dove l’eutanasia è permessa da molto più tempo, per renderci conto di quel che può essere il futuro anche nel nostro Paese se vengono fatte scelte come quella dell’Emilia-Romagna. Terra, questa, «sazia e disperata», come il card. Biffi definì il suo capoluogo Bologna.
Fa tremare le vene ai polsi il constatare, quindi, come nelle nostre società avanzate il morire si stia riducendo a un passaggio medico-burocratico fra i tanti. Una scelta come le altre, una rivendicazione estrema, assurda legata al falso principio del benessere: «Quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo», scriveva San Giovanni Paolo II in “Evangelium vitae“ (EV 64). Perciò, «l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza». Così, proseguiva papa Wojtyła, «nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone» (EV 66).
Pur nella sempre estrema pietà verso chi compie il gesto estremo, va ricordato come questo innanzitutto «comporta il rifiuto dell’amore verso se stessi» (EV 66). Su questo riflette anche il filosofo Fabrice Hadjadj: «l’amore per la propria vita è il fondamento dell’amore per la vita altrui: se non amo me stesso, se detesto la vita, a quale scopo soccorrere il prossimo?» (in “Farcela con la morte”, 2005). Va contro il prossimo, dunque, e contro se stessi. È il non darsi nessun’altra possibilità: «Il suicidio è un assassinio più intimo, senza possibile pentimento, mentre ogni altro omicidio lascia il tempo per un’eventuale conversione (…). Colui che voleva poter fare tutto senza limiti si condanna a non poter fare più nulla. Con il suicidio pretende di liberarsi di tutto, invece si riduce a niente», prosegue Hadjadj.
Ma come scriveva Giovanni Paolo II, «la domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno» (EV 67). E la speranza per sua natura è un salto oltre la logica e il peso del dolore. È sempre speranza di qualcosa che non riusciamo a scrutare. Ancora Hadjadj: «vedere tutto nell’orizzonte della padronanza significa chiudersi all’incontro, all’imprevisto, all’altro». E all’Altro: «La morte rimanda a una trascendenza, e io» col suicidio «cerco di metterla al livello dei miei ragionamenti». Al contrario, «colui che parla dal pulpito dell’agonia lascia un insegnamento indimenticabile, anche se ridotto a un pietoso battito delle palpebre. È più vivo di ogni altro, ricorda agli altri l’imminenza della morte e l’esigenza della speranza (…). In quell’ultima ora l’uomo giacente è un tabernacolo».
Pubblicato sulla “Voce” dell’8 marzo 2024




Quante tracce di noi lasciamo ogni giorno su Internet? Partendo da questo interrogativo, che forse non si pongono ancora in molti, ha iniziato a riflettere Davide Sisto (foto), filosofo, docente e saggista torinese, intervenuto il 6 novembre scorso all’Ibs+Libraccio di Ferrara per presentare il suo ultimo libro, “La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della cultura digitale” (Bollati Boringhieri, 2018). L’incontro è il terzo dei cinque del ciclo intitolato “Uno sguardo al cielo. Percorsi di avvicinamento all’elaborazione del lutto”, organizzato da Università degli Studi di Ferrara, Comune di Ferrara, Onoranze funebri AMSEF e Pazzi. Dopo la presentazione dell’ideatrice Paola Bastianoni, docente di UniFe e il saluto di Michela Pazzi, Stefano Ravaioli ha dialogato con l’autore, il quale ha spiegato: “il problema riguarda principalmente il fatto che sui social e in generale nel mondo della Rete lasciamo molte tracce di noi – audio, video, scritti, fotografie ecc. -, una sorta di ’eredità digitale’ importante, e che sarà sempre più rilevante da gestire”. Tant’è che negli Stati Uniti esiste già la figura del “Digital Death Manager”. Ogni persona, dopo la propria dipartita terrena, nel web diventerà uno “spettro digitale”: la nostra vita “digitale”, infatti, proseguirà dopo quella biologica. Purtroppo, ha proseguito Sisto, “il diritto all’oblio, nonostante si possa fare di più, è impossibile da raggiungere totalmente. Così, chi rimane in vita deve fare sempre più i conti col fatto che l’assenza della persona deceduta è sostituita da tutta questa mole di tracce digitali, che da una parte assomigliano – negativamente – a simulacri, dall’altra possiedono una propria identità specifica, sembrando vive, reali, dando una sorta di illusione che la persona in questione sia ancora viva”. Questo ha un risvolto particolarmente negativo: “impedisce o limita fortemente la necessaria elaborazione del lutto, incentivando il sentimento della rimozione della morte e della non accettazione della stessa. La mancata elaborazione del lutto rende anche in un certo senso “inutile” lo stesso rito funebre “nel suo senso di momento di passaggio, di rottura, di accettazione dell’assenza, di spartiacque tra un prima e un poi”, creando una sorta di “continuità temporale in cui passato, presente e futuro sembrano annullarsi”. Un’altra problematica particolarmente seria, anche dal punto di vista legale, riguarda chi potrà avere diritto all’“eredità digitale” della persona scomparsa (i famigliari? Lo stesso social network? ecc.), “con anche il rischio molto concreto di sciaccallaggio e di furti di dati e di immagini”, come nel caso di “Cambridge Analytica”. Secondo Sisto, sarebbe dunque più che mai necessario poter redigere una sorta di “testamento digitale”. Tanti gli esempi portati dall’autore sul legame tra “mondo dei morti” e “mondo della Rete”: sul social Facebook, ad esempio, si stima che su un totale di circa 2 miliardi di utenti, 50 milioni siano persone decedute. Oppure, è interessante e particolarmente inquietante il fatto che esista un social, “Eter9”, nato in Portogallo, nel quale, una volta iscritti, si possono lasciare informazioni e abitudini personali di ogni tipo: in questo modo, rielaborando in maniera molto complessa tutti questi dati, “Eter9” “continuerà” l’esistenza dell’utente una volta deceduto. Infine, il fatto che molte persone scelgano di assistere a concerti dal vivo nei quali, al posto di cantanti più o meno recentemente deceduti, vi siano ologrammi. La domanda quindi è: qual è il confine tra, da una parte, una giusta, compassionevole e anche necessaria consolazione nei confronti della morte di una persona cara, e, dall’altra, un’illusione che, a lungo termine, può nuocere chi vive il lutto, non elaborandolo adeguatamente?