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Wokismo e pol.corr.: «dove c’era dialogo e verità oggi c’è ideologia»

3 Dic

A UniFe gli interventi degli studiosi Andrea Zhok e Lorena Pensato

Spesso i “nemici” delle sacrosante battaglie a difesa delle minoranze sono proprio coloro che queste battaglie sì le combattono ma con metodi e fini sbagliati in sé e controproducenti per le battaglie stesse. Sulle radici storiche e ideologiche di tutto ciò si è riflettuto nel Seminario pubblico dal titolo Natura umana o costruzione sociale? Cultura woke, patriarcato e il nuovo bellum omnium contra omnes,organizzato dalla prof. Fulvia Signani, docente del Corso di Sociologia di genere del Dipartimento di Studi Umanistici di UniFe, lunedì 24 novembre nella sede di via Paradiso a Ferrara.

DOVE NASCE TUTTO

«L’attuale fase storica coincide con la rivoluzione neoliberale, nata negli anni ‘70 negli USA e poi arrivata nel nord Europa e quindi nel resto del nostro continente», ha esordito il primo relatore, Andrea Zhok (Professore di Filosofia morale all’Università degli Studi di Milano). Fino a quel periodo, «l’obiettivo del femminismo era l’uguaglianza fra i generi, obiettivo sostanzialmente raggiunto», nonostante contraddizioni e resti del passato; poi, il femminismo si è spostato su «una posizione “rivendicativa”, che non cerca l’uguaglianza ma la differenza». Questo cosiddetto “femminismo della differenza” «nasce dalla New Left statunitense, che non crede più «nel soggetto rivoluzionario marxiano “classico”» come soggetto di trasformazione, ma vede al suo posto «le minoranze oppresse. Il proletariato però – ha riflettuto Zhok – aveva quel tipo di ruolo perché era la classe universale di tutti coloro che lavoravano e in quanto tali erano sfruttati». Al posto dell’approccio politico, «con la New Left domina un approccio meramente rivendicativo-sindacale»: di conseguenza «il mondo maschile viene messo al posto di quello che era la classe padronale e la metà femminile vista come “classe” oppressa».

UNA “RIVOLUZIONE” CHE PIACE AL POTERE

Questa «morte della dinamica della lotta di classe» porta la lotta su un altro piano, quello «quasi del tutto intellettuale, culturale, quindi nel mondo accademico», con l’obiettivo di «convertire» l’avversario e un conseguente «rifugio nel privato» e la «politicizzazione» di quest’ultimo. Ad essere al centro del dibattito sono «i gruppi naturali», fondati sul genere e l’etnia. Ma per Zhok tutto ciò è utilissimo per le classi dirigente, «perché rende inerte il soggetto collettivo che dovrebbe criticarle, metterne in discussione la posizione dominante». 

E questo spiega perché «qualcosa che nasce dentro gruppi minoritari diventa questione nazionale»: perché si sposta l’attenzione delle masse dalle tematiche che criticano strutturalmente il potere e chi ce l’ha. Si tratta, quindi, «semplicemente di una variante del liberalismo, che non ha nulla a che fare col socialismo e il comunismo».

NEMMENO PIÙ L’INDIVIDUO

A livello antropologico, il terremoto che ha provocato il passaggio da una dinamica classica a quella post moderna, è fortissimo: «per Marx il sistema liberal-capitalistico provoca alienazione e la competizione del tutti contro tutti», andando quindi «contro l’uomo e i suoi bisogni naturali, umani: c’era quindi una natura umana oggettiva da difendere». Superare tutto ciò porta invece al considerare che «non ci sia più una natura umana, cioè una base oggettiva riconosciuta», né una razionalità storica. La mancanza di una base comune riconosciuta porta la libertà ad essere meramente «negativa: il soggetto è libero se gli altri non interferiscono su quel che lui vuole; e l’unico che decide di ciò che ha valore è solo il soggetto»: siamo dunque arrivati all’«autodeterminazione individuale assoluta». Ma l’uomo, da sempre, per Zhok «è ciò che è solo all’interno di una comunità», pur nella sua libertà: «è individuo sulla base di relazioni sociali, innanzitutto quelle costitutive. Il soggetto non nasce come un fungo dal nulla: questa – che è poi la concezione liberale – a livello antropologico è una finzione». Col postmoderno «nasce quindi un individualismo che in realtà è senza individuo, perché c’è un devastante infragilimento dell’identità personale, in quanto questa se estraniata dal contesto storico e dalle forme relazionali comunitarie primarie (famiglia ecc.), si forma da altre “fonti”: ma così si ha un vuoto educativo primario». 

POLITICALLY DAVVERO CORRECT?

Altro aspetto di questa nuova cultura meramente rivendicativa e ultraindividualista è «la radicale culturalizzazione e politicizzazione della sessualità, cioè la dimensione sessuale diventa un fattore in cui la componente naturale non ha nulla da dire», ha proseguito Zhok; per cui «il sesso – anzi, il genere, cioè un’identità pensata, non più naturale – diventa oggetto di opinioni e di dibattito come fosse un abito. Tutto ciò è catastrofico, perché la sessaulità è una sfera delicata e complessa». Da qui nasce il cosiddetto politically correct: «le parole considerate inappropriate diventano elementi di discredito, di ghettizzazione immediata e di aggressione politica, avvelenando drammaticamente gli ambiti per la ricerca del vero», quello giuridico e quello accademico. Di conseguenza, «molti scelgono di non parlare più per paura di essere pubblicamente distrutti».

NON TUTTO È “FEMMINICIDIO”

La seconda relatrice chiamata a riflettere su un aspetto specifico di questa visione ideologico-rivendicativa è stata Lorena Pensato, autrice del libro Non è patriarcato!, uscito lo scorso marzo, nel quale tratta dei cosiddetti «omicidi relazionali»: «più che parlare di violenza di genere – ha detto -, dovremmo parlare dei vari generi di violenza. Abbiamo abusato del termine “violenza di genere” e infatti non esiste nessuna prevenzione sugli omicidi diversi dagli omicidi nei quali è un uomo ad uccidere una donna. La “lettura di genere” – pur importantissima – non può per essere l’unico strumento» e quindi «dentro quelli chiamati “femminicidio” vengono erroneamente messi casi che vanno interpretati diversamente». L’autrice ha analizzato 200 casi di cronaca accaduti fra il 2021 e il 2023, fra i quali, ad esempio, quelli riguardanti donne uccise da altre donne, figlie uccise da madri, donne uccise durante una rapina o per motivi economici o in coppia. Non femminicidi. «Dal dibattito pubblico – ha proseguito – abbiamo quindi escluso» come cause/fattori interpretativi di omicidi che vedono vittime le donne, la complessità del disagio psico-emotivo/disturbi della personalità: «diversi sono gli studi al riguardo ad esempio sul disturbo border line di personalità, o sul disturbo paranoide»; le dipendenze dagli stupefacenti, «comprese le “droghe leggere”, come dimostrerebbe uno studio pubblicato su Rivista psichiatrica del gennaio-febbraio 2013». Oltre ai cosiddetti «”fattori precipitanti”, ad esempio un lutto o una separazione». 

Ciò porta al paradosso per cui quello che viene definito “vizio di mente” «è riconosciuto dalla giustizia – articoli 88 e 89 del nostro Codice penale – ma non dalla prevenzione/informazione dominante», che appunto «non li riconosce come influenti nell’uccisione di donne». Questa visione limitante e ingiusta, secondo Pensato porta anche al fatto che «dai Centri Antiviolenza rimangano esclusi determinati soggetti come le donne maltrattate da altre donne, i figli maschi maggiorenni maltrattati, le persone disabili o quelle omosessuali».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 dicembre 2025

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(Foto: Mohamed elamine M’siouri – Pexels)

Anelito alla solidarietà: il grido della ragione etica in Horkheimer

31 Ott

Proseguono nella Camera del Lavoro (CGIL) di Ferrara gli incontri dedicati al marxismo occidentale, o meglio ai marxismi occidentali, per loro natura eterodossi.

Lo scorso 20 ottobre Davide Ruggieri (Università di Padova) ha relazionato sul tema “Max Horkheimer: la teoria critica tra marxismo e pessimismo”. Il relatore è stato introdotto dalla giovane studentessa dell’Università di Padova, Lucia Run Hui Li (i due nella foto), per l’iniziativa promossa da Istituto Gramsci Ferrara in collaborazione con CGIL Ferrara, SPI CGIL Ferrara, ISCO Ferrara e il Laboratorio per la Pace dell’Università degli Studi di Ferrara, con il patrocinio del Comune di Ferrara.

Parlare di Horkheimer vuol dire parlare innanzitutto della Scuola di Francoforte di cui lo studioso faceva parte, cioè di quel luogo prediletto del pensiero critico dove si era «con Marx e oltre Marx», e dove alla critica del totalitarismo nazista si affiancava la critica al totalitarismo sovietico, al neopositivismo e alle forme di dominio del capitalismo, in un’unione feconda tra politica, filosofia, sociologia, cultura e psicanalisi.

Due sono gli amori di una vita di Horkheimer: uno del pensiero, Schopenhauer; l’altro del cuore, totale, la moglie Rosa Riekher, che «lo apre al senso di solidarietà tra le persone», che non nasce dalla miseria materiale ma «dalla comune condizione umana segnata dal limite e dalla morte».

Nello specifico della critica alle fondamente della visione capitalista, Horkheimer vede con chiarezza come «nella società borghese tutto – anche la libertà – è mercificato», e quindi sia in atto una vera e propria «catastrofe, conseguente al fallimento della ragione nel suo senso etico, universale, contrapposta alla ragione tecnicistica e strumentale e individualistica del neopositivismo», che ha dato vita ad una «società totalmente amministrata e fondata sullo sfruttamento della maggioranza delle persone». Marx va quindi «superato» in diversi punti, ma per questo non può essere messo da parte e non può venir meno la critica radicale all’illuminismo inteso come «movimento culturale che produce un impulso alla distruzione», da noi conosciuto in particolare nei conflitti mondiali. Il «sistema dell’amministrazione totale» occidentale è quindi una forma di «totalitarismo», che si può combattere – oltre che con la teoria critica – rivalutando «elementi irrazionali» e riscoprendo «temi legati alla religione e alla trascendenza, che il mondo totalmente amministrato sta tentando di eliminare». Fra questi, Horkheimer individua la «compassione», la «gioia compassionevole», lo «spirito del Vangelo». Per far rinascere – prima nel cuore di ognuno, poi a livello collettivo – un «forte anelito alla solidarietà».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 31 ottobre 2025

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Il mito e quel «riarmo mentale» che ci porta dritti al totalitarismo

1 Ott

ERNST CASSIRER. 80 anni fa moriva il noto filosofo tedesco. Postumo, uscì nel ’46 un suo saggio sugli aspetti irrazionali e «demoniaci» insiti anche nei moderni poteri statali. Un’analisi dura che ancora oggi può farci molto riflettere 

di Andrea Musacci 

Nella primavera del 1945 moriva improvvisamente uno dei più importanti filosofi del Novecento, Ernst Cassirer. Ebreo e neokantiano, non ha mai potuto vedere la pubblicazione del suo “Il mito dello stato”, da lui scritto tra il 1944 e il ’45 e concluso e copiato dal suo manoscritto pochi giorni prima della sua morte improvvisa che lo colse il 13 aprile all’età di 71 anni. L’opera è stata pubblicata nel ’46.

EBREO IN FUGA DAL NAZISMO

Nel 1906 grazie a Wilhelm Dilthey, Casasirer conseguì l’abilitazione all’Università di Berlino, dove fu a lungo libero docente. A causa delle sue origini ebraiche ottenne solo nel 1919 una cattedra nella neofondata Università di Amburgo, di cui divenne più tardi rettore (1929-30), e dove tra l’altro fu supervisore delle tesi di dottorato di Leo Strauss e Joachim Ritter. Essendo di origini ebraiche, con l’avvento del nazismo nel 1933 dovette lasciare la Germania, insegnò a Oxford dal 1933 al 1935 e fu professore a Göteborg dal 1935 al 1941. In quegli anni fu naturalizzato svedese ma, ritenendo ormai anche la neutrale Svezia poco sicura, si recò negli Stati Uniti d’America, dove fu visiting professor nell’Università di Yale, nel New Haven, dal 1941 al 1943 e docente alla Columbia University, New York dal 1943 fino alla morte. Dopo essere uscito dalla tradizione della Scuola di Marburgo del neokantismo, ha sviluppato una filosofia della cultura come teoria fondata sulla funzione dei simboli nel mito, nella scienza, nella religione, nella tecnica. Ad Amburgo ha collaborato attivamente alla biblioteca di Aby Warburg. Scrive il filosofo statunitense Charles W. Hendelnella premessa all’edizione americana de “Il mito dello stato” (1946): «In tutto ciò che egli intraprendeva c’era una costante dimostrazione delle interdipendenze delle diverse forme della conoscenza e della cultura umane. Egli possedeva, cioè, il genio della sintesi filosofica, oltre che l’immaginazione e la dottrina dello storico».

IL RAZZISMO DI GOBINEAU

Nel libro, Cassirer dopo un’analisi del mito e della «lotta» contro di esso nelle diverse teorie politiche nel corso dei secoli, analizza prima il “culto dell’eroe” di Thomas Carlyle, filosofo scozzeze del XIX secolo e poi il noto saggio di un contemporaneo di quest’ultimo, “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane” del conte francese Joseph Arthur de Gobineau. Secondo quest’ultimo, la storia è una scienza e – scrive Cassirer -, sempre secondo Gobineau, «ora, il sigillo è violato e il mistero della vita umana e della civiltà umana ci si rivela, poiché il fatto della diversità morale e intellettuale delle razze è evidente». Prosegue Cassirer nella sua critica al francese: «Una delle sue convinzioni più salde è che la razza bianca sia la sola che abbia avuto la volontà e la forza di costruire una vita culturale (…). Le razze nere e gialle non hanno vita propria, non volontà, non energia. Non sono altro che materia morta nelle mani dei loro padroni, la massa inerte che deve  essere mossa dalle razze superiori». Prosegue poi Cassirer: «La nostra idea moderna dello stato totalitario era del tutto aliena allo spirito del Gobineau (…)». Tuttavia, egli «appartiene al novero di quegli scrittori che, in modo indiretto, più hanno fatto per preparare l’ideologia dello stato totalitario. Era il totalitarismo della razza che tracciava la strada alle posteriori concezioni dello stato totalitario». E tutto ciò, prosegue Cassirer, nonostante Gobineau fosse «un devoto cattolico»: infatti, «il più potente avversario di Gobineau, si capisce, era la concezione religiosa dell’origine e del destino dell’uomo». La sua teoria, insomma, era «in contraddizione flagrante con gli ideali etici della religione cristiana».

Cassirer prosegue poi la propria analisi, arrivando a parlare del presunto legame tra razzismo e nazionalismo: «A noi sembra naturale stabilire un legame fra razzismo e nazionalismo. Siamo persino portati a identificarli. Ma questo non è corretto, né dal punto di vista storico né da quello sistematico (…). Questa distinzione diventa chiarissima» nell’opera di Gobineau, aristocratico e nostalgico del feudalesimo, che «non era affatto un nazionalista, e non era nemmeno un patriota francese». Rimane il fatto che il suo «mito della razza ha lavorato come un potente corrosivo, ed è riuscito a dissolvere e disintegrare tutti gli altri valori».

LO STATO TOTALITARIO TRA MITO, MAGIA E CULTO DEL CAPO

Venendo al Novecento, Cassirer arriva quindi a spiegare come «nelle situazioni disperate l’uomo farà sempre ricorso a mezzi disperati, e i miti politici dei nostri giorni sono stati altrettanti mezzi disperati di questo genere». Nelle crisi della vita sociale, quindi, «è ritornata l’ora del mito», contro ogni forma di «organizzazione razionale» stabilita. Il mito, quindi – con le sue «potenze demoniache» – «non è stato realmente vinto e soggiogato». Riprendendo la definizione dello studioso francese Edmond Doutté (1867-1926) – il mito è «il desiderio collettivo personificato» – Cassirer scrive a proposito del culto del capo e della dittatura del suo tempo: «L’esigenza di un capo appare soltanto quando un desiderio collettivo ha raggiunto una forza travolgente, e quando, d’altro lato, tutte le speranze di soddisfare questo desiderio in una maniera ordinata e normale sono fallite». In questi momenti, «l’intensità del desiderio collettivo si incarna nel capo»; legge, giustizia e Costituzione non valgono più niente. «Ciò che soltanto rimane è il potere mistico e l’autorità del capo, e la volontà del capo è la legge suprema».

Razionalità e mito si confondono nella moderna politica totalitaria: è la «nuova tecnica del mito»: «L’uomo politico moderno ha dovuto combinare in sé stesso» due funzioni tra loro diverse: «egli è il sacerdote di una nuova religione, del tutto irrazionale e misteriosa», appunto perché fondata sul mito. «Ma – prosegue Cassirer – quando deve difendere e diffondere questa religione, egli procede in modo estremamente metodico. Nulla è lasciato al caso». Così il «vero riarmo», il primo in ordine temporale, della Germania nazista non fu quello militare ma «cominciò coll’inizio e con lo sviluppo dei miti politici» che portarono a un «riarmo mentale». Inoltre, questi miti politici moderni portano anche a una «trasformazione del linguaggio umano. La parola magica prende la precedenza sulla parola semplice».E portano anche alla creazione di «nuovi riti»: «poiché, nello stato totalitario, non c’è nessuna sfera privata indipendente dalla vita politica, tutta la vita dell’uomo viene improvvisamente inondata da un’alta marea di nuovi riti». L’analisi di Cassirer è lucida e impietosa: «non c’è niente che abbia maggiore probabilità di addormentare tutte le nostre forze attive, la nostra capacità di giudizio e di discernimento critico, e di sopprimere il nostro sentimento della personalità e della responsabilità individuale, quanto il compimento costante, uniforme e monotono degli stessi riti». Adifferenza dei pur terribili poteri del passato, i miti politici moderni «non hanno cominciato con l’esigere o proibire certi atti. Si sono invece proposti di cambiare gli uomini, per poter regolare e controllare i loro atti»: hanno agito quindi come «un serpente che cerca di paralizzare la propria vittima prima di attaccarla». Così,  la «sfera di libertà personale» viene annichilita.

Infine, ma non meno importante, Cassirer analizza come la «vita politica moderna» abbia “attualizzato” forme antiche di divinazione: «L’uomo politico diventa una specie di pubblico negromante. La profezia è un elemento essenziale della nuova tecnica di governo (…); l’età dell’oro viene annunciata di continuo».

L’insegnamento finale di Cassirer è da meditare profondamente anche oggi, nelle “secolarizzate” e postmoderne società avanzate del XXI secolo: «Tutti noi abbiamo avuto tendenza a sottovalutare questa forza» dei miti politici moderni: all’inizio «li trovammo così assurdi ed incongrui, così fantastici e ridicoli, che quasi non potevamo indurci a prenderli sul serio. Ormai è diventato chiaro a noi tutti che questo era un grande errore. Non dovremmo commettere l’errore una seconda volta».

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Marco Bertozzi e il ruolo della filosofia contro il mito

“Ernst Cassirer e il mito dello stato” è stato il tema al centro della conferenza di Marco Bertozzi svoltasi lo scorso 26 settembre nella Sala Agnelli della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara. Introdotto da Filippo Domenicali (Istituto Gramsci di Ferrara, che assieme all’Isco ha organizzato l’iniziativa), Bertozzi ha svolto un’ottima introduzione de “Il mito dello stato” del filosofo tedesco.Ricordiamo che Bertozzi è docente di “Storia della filosofia politica” a UniFe, Direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara e Presidente del Comitato scientifico del Centro internazionale di cultura “Giovanni Pico” di Mirandola.

Cassirer – ha spiegato Bertozzi – nel ’44-’45 ha la percezione che il potere mitico abbia avuto un «potere schiacciante». Questa «specie di stregoneria, di incantamento» è stato dal potere moderno «sfruttato e tecnicizzato» per manipolare le masse convincendole che la vera libertà stia nell’essere sudditi – più che cittadini – di un potere totalitario. Per il tedesco, in politica viviamo sempre su un terreno «vulcanico», dominato cioè da «forti caratteri emozionali e irrazionali». Bertozzi ha quindi citato una novella di Thomas Mann, “Mario e il mago” (1930), per sottolineare in Cassirer l’insistenza del forte potere di suggestione, «magico» appunto, che il potere può avere. Il relatore ha poi citato il noto testo “Il tramonto dell’Occidente” (1918) di Spengler, dove quest’ultimo spiega come la nascita di una cultura sia sempre un «atto mistico», qualcosa di legato al «destino», cioè a qualcosa di «inevitabile». L’analisi di Cassirer è stata poi da Bertozzi confrontata con alcuni passaggi di Heidegger in “Essere e tempo” (1927) è l’idea di «destino comune». In conclusione, anche la riflessione di Cassirer – pur esponente del cosiddetto “neoilluminismo” – è connotata da una rilevante negatività:il mito – per lui – è qualcosa di «invulnerabile», che «la filosofia, la razionalità può solo aiutare a conoscere, a riconoscere e quindi a combattere». Forse non è poco, ma di sicuro c’è bisogno di altro per salvarci dal rischio del totalitarismo.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 ottobre 2025

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La filosofia nel Santo Rosario: padre Giuseppe Barzaghi a Ferrara

24 Apr

I Misteri e la dialettica, un rapporto originale. Incontro il 4 maggio a Casa Cini

di Andrea Musacci

Cosa c’entra la filosofia con il Santo Rosario? Come questi due mondi possono incontrarsi? 

Su questo il prossimo 4 maggio rifletterà padre Giuseppe Barzaghi (foto), Direttore dello Studio Filosofico Domenicano di Bologna, sacerdote domenicano, saggista e docente di Teologia. L’appuntamento è per le ore 18.30 a Casa Cini, Ferrara. Si tratta dell’ultimo dei tre incontri del ciclo “Il cuore non basta. Filosofia e fede oggi: un legame da riscoprire”, organizzato dalla Scuola di Teologia per laici “Laura Vincenzi” e coordinato dal prof. Maurizio Villani. I primi due incontri si sono svolti il 23 febbraio con Anna Bianchi (Università Cattolica di Milano) su “Fides et ratio” e il 16 marzo con lo stesso Villani su “Percorsi fenomenologici sulle religioni”. 

Il titolo dell’incontro di p. Barzaghi riprende, invece, quello di un suo noto libro, “Il riflesso. La filosofia dove non te l’aspetti o il rosario filosofico” (ESD Edizioni Studio Domenicano, collana Anagogia, ottobre 2018.)

La dialettica porta alla Gloria

Per un approccio integrale al sapere, occorre trovare una visione sintetica – scrive padre Barzaghi nel suo libro – nel senso di «tecnicità dell’operazione teoretica» e di «visione che raccoglie tutto, anche i rimasugli. I rimasugli sarebbero lo scarto», ciò che per l’uomo di scienza è opinabile.

La struttura più conforme è quella dialettica: tesi, antitesi e sintesi (che non è mera somma, ma oltrepassamento degli elementi, loro superamento nella relazione). Anzi: Positio, Oppositio, Compositio. Ma questo metodo, questa struttura si può applicare anche per i Misteri della nostra fede: la positio è rappresentata dai cinque misteri gaudiosi, l’oppositio dai cinque misteri dolorosi, la compositio dai cinque misteri gloriosi. Così, ognuna delle tre parti si divide in cinque tappe, proprio come le cinque decine del Rosario. Questa l’originale intuizione del domenicano.

Misteri gaudiosi (Positio)

Praepositio: lo stupore, la meraviglia da cui nasce la filosofia. Ovvero, la meraviglia di Maria durante l’Annunciazione. Dispositio: la Visitazione di Maria ad Elisabetta, «l’abbandono di qualsiasi presupposto», «l’umiltà di chi non sa». Propositio: proporre una nuova idea: la Nascita di Gesù. Suppositio: la Presentazione di Gesù al Tempio. Ovvero, proporre la nuova idea ma in modo riflesso. Expositio: Ritrovamento di Gesù tra i dottori nel Tempio: l’interrogare di Gesù.

Misteri dolorosi (Oppositio)

Depositio: l’agonia, la lotta, l’agone: Gesù nel Getsemani. Contrappositio: il primo atto della lotta: la Flagellazione di Gesù. Interpositio: la Derisione di Gesù. Impositio: la salita di Gesù al Calvario. Decompositio: «l’addormentarsi in Dio, nella nebbia della non conoscenza».

Misteri gloriosi (Compositio)

Superpositio: «il risvegliarsi in Dio, la Resurrezione di Gesù», cioè «considerare da un punto di vista assoluto». Transpositio: avere quindi uno sguardo più ampio e pieno: l’Ascensione di Gesù Cristo. Circumpositio: lo sguardo pieno porta a un pieno coinvolgimento: lo Spirito agisce dall’interno. Appositio: coinvolgimento anche sensibile: l’Assunzione di Maria Vergine in cielo in anima e corpo. Infine, Diapositio: «In Paradiso c’è la perfetta compositio», scrive p. Barzaghi. La diapositio è «la Gioia, filtrata dal Dolore, e che si consu(m)ma, cioè arriva a perfezione, nella Gloria». «Che cos’è il meraviglioso della Gloria? È l’atto nel quale gioia e dolore sono la stessa cosa. E questa è la commozione, la compassione e la consolazione», sono ancora sue parole. È il «meraviglioso senza perché»: «si tratta di una identificazione, come se l’addormentarsi in Dio nel risvegliarsi in Dio implicasse una fusione».

Dallo stupore iniziale, “crudo”, naturale si arriva dunque alla mistica, passando per la speculazione.

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Si chiede ai partecipanti iscritti in presenza di comunicarlo alla Segreteria dell’Istituto. Gli incontri saranno anche disponibili (in diretta e come registrazioni) sulla piattaforma YouTube dell’Ufficio Comunicazioni diocesano.

Per informazioni e iscrizioni contattare la Segreteria: Tel. 0532 242278 

segreteria@stlferraracomacchio.ithttp://www.stlferraracomacchio.it

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Cristo condizione dell’umano: Enzo Cicero a Ferrara

24 Apr

Dal dio astratto a una nuova cristologia: l’intervento di Enzo Cicero a Ferrara. Arrivare a Cristo tramite l’analogia, suprema struttura trascendentale di tutto ciò che riguarda l’umano

È ancora possibile oggi un discorso su Cristo partendo da basi filosofiche? È possibile, dunque, una cristologia filosofica? Una grande sfida a cui cerca di dare una prima risposta Vincenzo Cicero col suo libro “Sapienza muta. Dio e l’ontologia” (Morcelliana, 2023), presentato lo scorso 21 aprile nella sede dell’ISCO di Ferrara (vicolo S. Spirito, 11). L’incontro, organizzato da Istituto Gramsci e ISCO, ha visto l’autore dialogare con Piero Stefani. 

«Io sono colui che sono!», dice Dio a Mosè (Esodo 3, 14). Da qui è partito Stefani nella sua riflessione introduttiva:«come suggerisce anche Cicero nel suo libro, si è esaurita la possibilità di fare un’ontologia filosofica che abbia come primato questa “autopresentazione” di Dio. Ma non si è esaurito, invece, il versetto di Giovanni “E il Verbo si fece carne” (Gv 1, 14), che sarebbe più corretto tradurre con “La Parola [Logos] si fece carne”. Da questo versetto di Giovanni – ha proseguito Stefani – si può fare non un discorso su Dio ma su Cristo, è cristologia, da cui può partire quindi una cristologia filosofica».

«Filosoficamente parlando – è intervenuto dunque Cicero -, è Cristo la chiave ermeneutica dell’intera Bibbia. Ad essersi esaurito – ha proseguito – non è quel passo di Esodo ma la sua traduzione filosofica: hanno fallito le interpretazioni filosofiche di Dio, tutte o troppo astratte, astruse o troppo antropomorfe. È questo dio a essere morto». Da qui il tacere, il silenzio necessario della filosofia sulla deità. Ma andando oltre l’appercezione trascendentale kantiana, e mettendo in guardia dall’interpretazione errata di Esodo 3,14 («non si può usare l’io per Dio»), Cicero ha proposto l’uso dell’es tedesco, che non è né personale né impersonale, per dire Dio. L’autore suggerisce dunque la nozione di “inquanto” inteso nella sua struttura analogica, il medio analogico trascendentale, l’analogo, l’”in quanto tale”. «Ciò che non può essere posto in relazione ad altro, l’innominabile, la condizione stessa di ogni nominazione. Condizione che, dunque, si sottrae ad ogni nominazione». Appunto, ciò che non è né personale né impersonale. L’analogo, quindi, è «la suprema struttura trascendentale, la condizione trascendentale di ogni sentire, pensare, dire e immaginare dell’umano». Insomma, di ogni relazione. «È ciò mediante cui ogni cosa può essere sentita, pensata, detta e immaginata. L’analogo richiama quindi Cristo»: «tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1, 3). «Di tutto ciò, quindi, che anche può essere sentito, detto, pensato, immaginato. L’analogo è Cristo», ha concluso Cicero.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Quel desiderio di verità nell’uomo: fede e ragione, quale rapporto?

28 Feb

Al via il Seminario “Il cuore non basta”: nel primo incontro, Anna Bianchi ha riflettuto sulla “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II

Sta nell’essenza della ragione di desiderare di spingersi sempre al di là, sempre oltre sé stessa. Ma questo non può non portare allo scontro/incontro col mistero dell’Essere, con qualcosa che la supera infinitamente. Lì entra in gioco la fede. Questa riflessione ha tanto diviso filosofi e pensatori nel corso dei secoli e rimane, anche nella società dell’ultrarazionalismo e del relativismo, un pungolo inevitabile.

E proprio al rapporto fede-ragione è dedicato il Seminario di tre incontri organizzato dalla Scuola di teologia per laici della nostra Arcidiocesi, dal titolo “Il cuore non basta. Filosofia e fede oggi: un legame da riscoprire”. Il coordinatore del Seminario, Maurizio Villani, ha introdotto il primo dei tre incontri svoltosi on line il 23 febbraio. Sul tema “Fides et ratio: una sfida per la filosofia? Considerazioni a margine dell’Enciclica di Giovanni Paolo II” è intervenuta Anna Bianchi, Docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

È il concetto di verità quello centrale per indagare, come viene fatto nell’enciclica, il rapporto tra ragione e fede: se è vero che «la fede è recepita dal soggetto non passivamente, ma attraverso appunto la ragione», dall’altra parte la Rivelazione «è la base del rapporto tra fede e ragione»: la ragione, quindi, «non è autosufficiente, ma arriva a verità fondamentali attraverso la Rivelazione». 

Da qui la critica nell’enciclica a una «filosofia separata» tipica dell’età moderna e contemporanea, che ha, cioè, abdicato a ricercare una dimensione soprannaturale. 

Bianchi ha poi spiegato come nel testo si riflette su come «la ragione può comprendere l’ordine razionale della realtà, il suo aspetto ontologico, andando oltre gli aspetti empirici, cercando quindi la verità: se la filosofia vuol essere un pensiero autentico, deve cercare la conoscenza di ciò che è vero sempre, della realtà in sé, deve trascendere il piano fattuale ed empirico per attingere ai principi primi e universali dell’essere». Questa «capacità metafisica» della filosofia, per san Giovanni Paolo II è una sorta di «filosofia perenne e destoricizzata, una filosofia implicita attraverso i secoli», ma ancora oggi molto dibattuta in ambito filosofico. 

La relazione di Bianchi si è poi concentrata sull’aspetto antropologico, quindi sul soggetto-persona nel quale fede e ragione si incontrano. Nell’enciclica l’uomo è definito «come colui che cerca la verità e come colui che vive di credenza»: da una parte, quindi, il «desiderio di verità appartiene alla natura dell’uomo, quindi non può essere del tutto inutile e vano», dall’altra parte, insito nell’uomo vi è anche il bisogno di «abbandonarsi fiduciosamente all’altro, se riconosciuto come testimone credibile». Ciò avviene, in maniera simile, nell’ambito della fede.

Ma l’unione di questi due desideri – della ricerca della verità e dell’abbandono – come spiegò ad esempio San Tommaso d’Aquino, «derivano da una comune origine, Dio». Solo nel supremo Creatore, quindi, possiamo ritrovare, ancora, la risposta a ogni anelito di trascendenza, sia nella forma della ragione, sia in quella della fede.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Non solo scienza ma domanda sul Mistero

22 Nov

Nella pandemia, il necessario discorso scientifico rischia di farci dimenticare la nostra ricerca della Verità

di Andrea Musacci
Lo scorso settembre su Huffington post Italia il filosofo Massimo Adinolfi poneva una domanda importante: «Chi è competente, in fatto di umanità? O forse pensiamo che l’uomo è solo ciò che rimane da discutere a filosofi barbuti una volta sottratte loro tutte le questioni scientifiche (mediche, sanitarie, fisiologiche o psicologiche, o non so cos’altro)?».

Fermarsi, riflettere, interrogarsi e interrogare su ciò che davvero ci rende umani. Tornare ad ascoltare l’altro. Propositi che sempre meno, spiace registrarlo, sembrano andare di moda. Il coro unanime di quasi due anni fa sulla necessità e l’urgenza di proteggere noi stessi e gli altri dal Covid19, si è purtroppo, ormai da molto tempo, trasformato nel suo opposto. Ora, sempre più, domina lo scontro tra due intolleranze: quella dei sostenitori di ogni forma di restrizione potenzialmente senza limiti di tempo, e chi, dall’altra parte, già da un bel po’ ha dimenticato quanta sofferenza, angoscia e morte ha portato una pandemia di questo tipo. In mezzo, quegli interstizi sempre più stretti (e sempre meno affollati, purtroppo) di chi non rinuncia a porre questioni sulla gestione dell’emergenza – pur sempre difficile –, e soprattutto su come, veramente, possiamo cogliere questa fase eccezionale delle nostre vite per riscoprire il Mistero che si cela dietro di esse. Che significa anche ripensare il rapporto tra salute e salvezza, come propone il gesuita Gaetano Piccolo nel suo ultimo libro “Salute o salvezza? Il dilemma dei nostri tempi” (Ediz. San Paolo).


Salute o salvezza?

Salute o salvezza è un aut aut sbagliato, a cui non cedere. Assolutizzare il primo dei due termini significa castrare la dimensione spirituale, religiosa, annullandola nel culto illusorio di ciò che è corruttibile. Dall’altra parte, la finta “salvezza” di chi pensa che la cura di sé e dell’altro non abbia nessun valore rispetto alla vita eterna, nasconde una pericolosa mancanza di empatia per il prossimo.

Fatta questa premessa, il rischio maggiore nelle nostre società occidentali è che questa fase – dove il dominio del discorso medico-scientifico va a scapito di quello religioso, politico e culturale -, ci faccia ancora una volta venir meno nella nostra ricerca di un equilibrio diverso fra la difesa della salute e l’anelito alla Salvezza. Salvezza che è fatta di amore e di relazioni, di prossimità fisica, di consapevolezza dell’invincibile limite della morte e di desiderio di una vita davvero piena. Coscienza, quindi, che, come di non solo pane vive l’uomo, nemmeno gli possono bastare le conoscenze medico-scientifiche. Ma che tutto il nostro essere (corpo e anima) domanda un nutrimento ben diverso: una fede e una pienezza che da credenti troviamo in Cristo, Pane di vita.


Non fare della scienza un idolo

La possibilità di poter risolvere sempre più problemi non deve illuderci di poter avere il controllo su ogni aspetto della nostra esistenza. Questa tendenza a sentirci onnipotenti può risultare molto pericolosa se ci si affida al “sapere della scienza” come a ciò che possa rispondere alle domande più profonde. Non è così e mai potrà esserlo: significherebbe storpiare la fondamentale ma limitata missione della scienza. Soprattutto in una situazione estrema e inattesa come quella della pandemia, spesso si è riposto, invece, purtroppo, in medici e ricercatori una speranza quasi “religiosa”. Ciò che la scienza, in sé, non può darci è la felicità, la pienezza di vita, è salvarci dal vuoto, dal terribile nulla della depressione e della disperazione. È inutile convincerci che possiamo delegare tutto a medici e virologi. La lotta contro il male spetta a ognuno di noi. La testimonianza della misericordia nella prossimità all’altro è un compito che abbiamo sempre davanti.


Non fare del corpo un idolo

Idolatrare la scienza – qualsiasi filosofo o uomo di scienza non ideologico inorridirebbe solo all’idea! – porta all’idolatria del corpo. Il filosofo ed epistemiologo francese Bernard-Henri Lévy, liberale, l’anno scorso nel suo libro “Il virus che rende folli” scriveva: «L’inferno è il corpo. Solo il corpo e il corpo solo». L’inferno siamo noi «in quanto persone che sono chiuse nel proprio corpo, ridotte alla nostra vita di corpi e che, sotto il dominio del potere medico, o del potere in generale che si appropria del potere medico, o della nostra stessa sottomissione a entrambi, ci sottomettiamo a esso». «La cura della nostra salute -, scrive invece Piccolo nel libro sopracitato – nel momento in cui dovesse essere possibile solo a costo di rinunciare a tutto quello che per noi è spiritualmente essenziale, varrebbe la pena?».

Spiritualmente essenziale è anche il “filosofare”, il sentire e parlare – senza scorciatoie – della nostra finitezza, del nostro limite, del nostro morire. «Filosofare è imparare a morire», scrive Fabrice Hadjadj nel suo libro “Farcela con la morte. «L’atto stesso di pensare la Verità produce una “piccola morte”, un distacco dal corpo che addestra al grande distacco del trapasso. Quando medito sulla vita entro nella vita stessa della saggezza, passo già nell’aldilà, la mia anima tende a liberarsi della carne, non a motivo della sua debolezza, ma a causa della sua rinnovata vitalità di anima immortale, che va oltre la vita corruttibile dei miei organi».


La ricerca della Verità contro la paura

Tornare a interrogarci e a compiere la nostra ricerca della Verità significa anche non cedere alla paura. Sentimento umano, umanissimo, ma da controllare e affrontare. Da non eludere e a cui non sottomettersi. È importante, oggi, non cedere né alla paura di vaccinarsi né a quella che ci paralizza impedendoci una riflessione profonda e un conseguente vivere che non sia solo sopravvivere nella nostra “sicurezza” di non venire contagiati. Ma in una società come la nostra dove è sempre meno diffusa una concezione religiosa della vita e della morte, certi interrogativi che possono inquietare, vengono posti sempre meno. È, invece, importante cercare di riempire di senso il nostro tempo, perché non sia vuoto. Vuoto di una dimensione spirituale e relazionale. Vuoto che è manifestazione profonda della nostra fragilità, proprio quella fragilità che tendiamo a rimuovere, a negare.

La nostra mortalità ci costringe ad evitare che la nostra vita sia sprecata. Il limite è ciò che muove la nostra libertà nella ricerca di un senso. Senso che riguarda l’interezza di ciò che siamo. Corpo e anima, salute e Salvezza. Solo così, solo interrogando il Mistero e testimoniando la Verità, potremmo dirci davvero umani.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 novembre 2021

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(Immagine: Edvard Munch, “Malinconia”, 1892)

Non possiamo non credere: è il laico Horkheimer a ricordarcelo

12 Apr

La nostalgia del totalmente Altro: 50 anni fa l’insegnamento del filosofo della Scuola di Francoforte.

L’incubo di una società perfettamente amministrata, dove dominano la noia e la performance. Dove la ricerca di senso è abolita. Un ritratto spietato anche del nostro tempo, nel quale il limite della condizione umana viene rimosso. La profezia di un ebreo marxista che anelava all’Assoluto

di Andrea Musacci

Con il Sessantotto ancora fresco nelle sue speranze e nel suo messianismo secolarizzato, in Germania viene pubblicato il libro “La nostalgia del totalmente Altro”, contenente l’intervista rilasciata da Max Horkheimer a Helmut Gumnior. Horkheimer (1895-1973), filosofo e sociologo di origini ebraiche, tra i più noti esponenti della Scuola di Francoforte, nel ’33 dalla Germania nazista è costretto a emigrare, in quanto marxista, prima a Ginevra poi negli USA. Solo nel ’49 rientra a Francoforte, dove con l’amico Theodor W. Adorno riapre l’Istituto di Ricerca Sociale trasferito in America durante l’esilio.Vent’anni dopo, nel ’70, quell’intervista apre dunque una breccia religiosa in un ambiente accademico e politico laico, seppur di un laicismo critico e per nulla dogmatico. La modernità, nel pieno del suo splendore e delle sue contraddizioni, veniva insomma interrogata da Horkheimer nei suoi assunti sempre più presentati come incontrovertibili.


Nel regno della noia, che posto ha la ricerca di senso?

«La storia del moderno è, per molti versi, la storia (…) di questa emersione dell’inconsistenza del mondo, della profanità del mondo che, pur scontando l’assenza e l’imprevedibilità di Dio, è un mondo progettabile, in balìa delle mani dell’uomo. Però è un mondo tragico, non sostenuto da alcunché, i cui rischi sono esplosi in quello che chiamiamo il postmoderno». Così rifletteva Sergio Quinzio in un’intervista rilasciata nel 1991 (1). La lucidità del teologo ligure richiama certe pagine dell’ultimo Horkheimer su quel mondo mirabolante nei suoi progressi ma, appunto, se guardato con disinganno, «non sostenuto da alcunché». Le conseguenze le abbiamo ormai quasi tutte sotto gli occhi, in termini di manipolazione della vita e della verità, di perdita di realismo nella percezione dello stesso dolore e della stessa morte. «L’autentica tragedia è l’assenza del sentimento tragico», scrive magistralmente Giuseppe Genna su “L’Espresso” del 4 aprile scorso riguardo alla perdita della domanda sul limite, di ogni verticalità soprattutto in quest’ultimo periodo di pandemia, dove l’indifferenza sembra vincere, smentendo non solo i corifei dell’“andrà tutto bene”, ma anche i falsi ottimismi sul “ne usciremo (necessariamente) migliori”. Horkheimer mezzo secolo fa, nella sopracitata intervista così parla di questo mondo nel quale siamo sempre più inghiottiti: «l’assenza di senso nel destino dell’individuo, la quale già prima era determinata dall’assenza di ragione, dalla pura naturalità del processo di produzione, nella fase attuale si è tramutata in un segno caratteristico dell’esistenza. Ciascuno è abbandonato al suo cieco caso». Si arriverà, per il filosofo tedesco, alla «liquidazione del soggetto». In un sistema dove viene meno la ricerca di senso e l’inquietudine per le cose ultime, inevitabilmente finisce per dominare la «noia». Fanno venire i brividi queste parole rilette oggi.


Memoria di ciò che ci salva

Nel ’69, in una conversazione con Paul Neuenzeit, docente cattolico all’Università di Würzburg, Horkheimer afferma: «si deve continuamente ricordare che ciò che importa non sono solamente le varie abilità, ma la questione della verità» (corsivo mio). Il riferimento è all’inarrestabile settorializzazione del sapere, alla trasformazione, ormai totalizzante, di ogni scienza e cultura in qualcosa di funzionale al sistema produttivo e amministrativo. E dunque, alla conseguente riduzione delle finalità al mero presente, all’obiettivo pratico e strumentale. All’oblio, quindi, dei “perché” più profondi. Horkheimer arriva a pensare che sia la religione a rappresentare ancora «la coscienza che il mondo è fenomeno, che non è la verità assoluta, la quale solo è la realtà ultima». La religione è la «speranza che, nonostante questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola». Speranza, anzi meglio, nostalgia, «secondo la quale l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente». È interessante come Horkheimer utilizzi questo termine. La nostalgia richiama un desiderio forte, invincibile, che nasce dal profondo, di qualcosa di maggiormente puro, bello rispetto al presente, o addirittura di qualcosa di puro e vero in sé. Di una pienezza. Qualcosa che sembra richiamare l’anamnèsi platonica, quella reminescenza delle idee eterne, fondamenta del mondo fenomenico. La nostalgia è desiderio di un ritorno all’origine, di uno sforzo di ritrovare l’essenza, un luogo, una “casa” che già si è abitata, o che da sempre si abita, anche se inconsapevolmente. Una casa che è regno di giustizia, di piena pace. «Nostalgia di perfetta e consumata giustizia», la chiama Horkheimer. Se c’è nostalgia vuol dire che esiste una tensione viva e, nel finito, ineliminabile, inappagabile. Una fame che provoca anche sofferenza: «La sofferenza dipende dal fatto che Dio e l’uomo sono qualitativamente diversi», scrive Kierkegaard (2). E per Quinzio, nella sopracitata intervista, gli uomini e le donne “aiutano” Dio con «l’invocazione che sale dal fondo della loro sofferenza, dal loro inappagato bisogno di giustizia» (3). Ma è anche – dice ancora Horkeimer portando al limite il dubbio – «paura che Dio non ci sia», quell’ “altro” «che non trovammo mai», per usare i versi di Rilke (4).Per questo, «il riconoscimento di un essere trascendente» come Dio «attinge la sua forza più grande dall’insoddisfazione del destino terreno. Nella religione sono depositati i desideri, le nostalgie, le accuse di innumerevoli generazioni». 


Una cosa sola

Ma la religione, nel suo stesso etimo, è legame tra le persone. Horkheimer, così, ridona un significato diverso al concetto di solidarietà, che è autentica innanzitutto perché nasce «dal fatto che tutti gli uomini devono soffrire, devono morire e che sono esseri finiti». «Siamo una cosa sola», afferma subito dopo con un’espressione dal sapore “eucaristico”. Rileggendo la Lumen Fidei firmata da Papa Francesco, ho ritrovato assonanze, pur su un piano diverso, con queste sofferte riflessioni di Horkheimer: «La domanda sulla verità – scrive il Pontefice – è (…) una questione di memoria, di memoria profonda, perché si rivolge a qualcosa che ci precede e, in questo modo, può riuscire a unirci oltre il nostro “io” piccolo e limitato» (5). Una comunione più sincera perché più fondata, dove le individualità non solo non sono schiacciate ma anzi possono risplendere di luce vera nella comune nostalgia di una «beatitudine infinita».


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(dove non espressamente indicato, le citazioni di Horkheimer sono prese da M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, 2019)


(1) S. Quinzio, La tenerezza di Dio, Castelvecchi, 2013.

(2) S. Kierkegaard, Diario, BUR Rizzoli, 2019.

(3) S. Quinzio, op. cit.

(4) R. M. Rilke, Poesie alla notte, Passigli, 1999.

(5) Papa Francesco, Lumen Fidei, Libreria Editrice Vaticana, 2013.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 16 aprile 2021

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Siamo capaci di aprirci all’imprevisto?

30 Nov

Spaventati da un virus che rischia ogni giorno di invadere anche le nostre abitazioni e le nostre quotidianità, ci rifugiamo nella ragnatela di Internet o in quella del lavoro. La risposta, invece, soprattutto in questo tempo di Avvento, la possiamo trovare nella riscoperta di una capacità autentica di contemplazione

«Tutta l’infelicità degli uomini proviene da una cosa sola: dal non sapersene restare tranquilli in una camera»
(Blaise Pascal, “Pensieri”, 139)

di Andrea Musacci
Da molto tempo il nostro immaginario è colonizzato dall’idea che l’imprevisto, l’avventuroso e l’impervio appartengano all’uscita fisica verso luoghi quanto più lontani, verso esotici miraggi, esperienze mirabolanti, in un perpetuo movimento che fa equivalere la stasi alla morte.
Le limitazioni legate all’attuale emergenza sanitaria ci possono spronare a mettere in discussione questo assioma.


La casa invasa dal virus e dalla paura
Innanzitutto, sottolineiamo una differenza degli ultimi mesi rispetto al lockdown di marzo-maggio: l’intimo, il domestico, il privato hanno perso in sicurezza, i loro confini si sono fatti ancor più labili rispetto all’esterno. La chiusura è meno netta nelle zone non dichiarate rosse, e per questo le case sono, inevitabilmente, più permeabili al virus. Negli ultimi mesi, dunque, la geografia del dentro e del fuori si è fatta sempre più confusa. La casa non è più sicura. Ma lo è mai stata davvero del tutto?
In ultima analisi è un’illusione quella del confine invalicabile tra il sicuro e il non-sicuro, discrimine immaginario quanto quello fra il prevedibile e l’imprevedibile, fra controllo e caos. Dove trovare un’abitazione che ci faccia del tutto sentire “a casa”? Dove trovare un abito che ci calzi perfettamente, senza fastidi, incertezze, spaesamenti o timori di incespicare?
Spaesati e incerti nello spazio immaginato come regno del confortevole e del familiare, non abbiamo calcolato il perturbante che ci assale, che ci prende alle spalle, spesso all’improvviso e in maniera violenta.


La casa invasa dal lavoro
La casa può diventare anche rifugio estremo – come accade in questa pandemia -, prigione intima, addirittura luogo di lavoro, pervaso e invaso – attraverso la Rete che assomiglia sempre più a una ragnatela – dalla produzione, dal dovere di produrre, dall’efficienza. Un corto circuito le cui assurde conseguenze abbiamo già visto nei mesi scorsi e vedremo sempre più nei prossimi anni. Di sicuro sarà qualcosa che vivremo fin quando anche quel “nido” che è la casa sarà invasa da tempi, ritmi e modi di essere e di muoversi funzionali a quello che, prima dell’era dei dispositivi digitali, chiudevamo, quanto possibile, fuori dalla casa stessa.


Conseguenza? Siamo stranieri a casa nostra
Non eravamo abituati a dover fronteggiare un nemico, perlopiù così subdolo, proprio nel luogo dove ci disarmiamo, dove abbassiamo la guardia. Costretti a una “quarantena” domestica spesso ci sentiamo spiazzati, fuori luogo, imbarazzati nei nostri stessi spazi che altri/altro ci costringono a vivere. Luoghi che diventano spazi non più nostri, di cui non riusciamo più a essere abitanti fedeli, che non ci rappresentano. Gabbie che forse diventano tali perché abbiamo dimenticato come si possano vivere davvero come case e non come ameni luoghi di passaggio.
Spazi “vuoti”, insomma, pieni solo di tedio, che, come detto, cerchiamo di riempire col lavoro, con ogni input possibile che possa arrivarci tramite i dispositivi digitali. Un modo anche per esorcizzare quel perturbante che incombe, ma che, in realtà, mai dovrebbe essere rimosso dalla nostra coscienza, ma affrontato, sublimato.

Quale risposta? Profondità o chiusura
C’è chi ha il lusso di poter vivere, in totale intimità e spontaneità, la propria casa, chi invece in un momentaneo appartamento, magari da condividere con altri. In ogni caso, il potersi raccogliere – agevolato, anzi quasi invitato, dall’inverno incalzante – evoca in noi, giorno dopo giorno, il ripiegarci: un atto – più simbolico che fisico – che sta a noi tramutare in profondità (in preghiera, in spazio di contemplazione) oppure in chiusura – un rifugio, una fortezza, un’illusione dunque -, senza speranze da sperare o immaginazione da liberare.
«C’è solo la strada su cui puoi contare / La strada è l’unica salvezza», cantava Gaber e quanto ci sembrano assurde le sue parole nelle vie svuotate dalle ordinanze, dalla paura e dallo sconforto montanti. Per non arenarci in sterili lamentazioni sull’immobilità forzata, ripartiamo allora dal paradosso radicale per cui ciò che non potrà mai proteggerci del tutto – la casa – può, dall’altra parte, definire la nostra identità (seppur non granitica), evocare infinite memorie, aiutare il sogno a fluire liberamente. Non una fuga né un fortino, ma una riscoperta della densità dei nostri spazi, un’intensificazione (come dev’essere) della propria vita attraverso un’apertura a un Oltre dal quale lasciarci spiazzare. A un imprevisto che ci trascenda.
Un’avventura radicalmente diversa da come l’abbiamo sempre immaginata.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 dicembre 2020

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Essere fecondi, non produttori di morte

16 Nov

Teresa Bartolomei e Silvano Petrosino hanno riflettuto sul tema “Terra nostra? La casa dell’umano e l’ecocidio imminente”. L’incontro si è svolto on line il 12 novembre in occasione di Book City Milano: “passiamo da un’etica del successo a una della cura” per realizzare davvero l’abitare come “convivenza e accoglienza”

L’essere umano è chiamato a «coltivare e custodire» il pianeta dove abita, ma al tempo stesso è responsabile di gravi atti di ecocidio.
Su questa contraddizione, che chiama in causa la teologia e l’antropologia, giovedì 12 novembre hanno discusso Teresa Bartolomei, teologa dell’Università Cattolica di Lisbona, autrice del libro ”Dove abita la luce?” e Silvano Petrosino (in grande nell’immagine con Bartolomei e Monda), docente di Antropologia filosofica dell’Università Cattolica e autore del libro “Dove abita l’infinito: trascendenza, potere e giustizia?”. L’incontro è stato organizzato on line su You Tube, in occasione di Book City Milano, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dalla Casa editrice “Vita e Pensiero”. “Terra nostra? La casa dell’umano e l’ecocidio imminente” è il titolo assegnato al dibattito introdotto da Antonella Sciarrone Alibrandi, prorettore dell’Università Cattolica e moderato da Andrea Monda, direttore dell’Osservatore Romano.
Per “ecocidio” – neologismo nato negli anni ’70 dopo la guerra in Vietnam – si indica la distruzione diffusa, grave e duratura dell’ecosistema a opera dell’uomo, tale da dover essere giudicata a livello internazionale. L’uomo con la sua tecnologia, quindi, ha spiegato Bartolomei, può diventare «una potenza di morte e non di vita». È stato papa Francesco con l’enciclica Laudato si’ a chiamare l’ecocidio peccato. Riguardo al Giudizio universale raccontato nella Bibbia, la relatrice ha spiegato come con esso «Dio salvi l’uomo dagli effetti gravi del male compiuto da quest’ultimo, effetti che rompono l’equilibrio universale e il patto tra Dio e uomo». Come credenti e donne e uomini di buone volontà «abbiamo questa grande responsabilità e speranza» e dunque «dobbiamo trovare insieme soluzioni condivise in modo che prevalga l’etica della cura e non della performance e dell’oggettivizzazione del creato». Come cristiani, «scopriamo chi siamo solo riportando alla luce il fatto che siamo a immagine e somiglianza di Dio. Diversamente, diventiamo produttori di morte».
È partito da Genesi 2, 15 invece Petrosino, in particolare dai verbi «coltivare» e «custodire», a suo dire esplicativi del vero senso dell’abitare: «abitare non vuol dire necessariamente dominare, possedere o distruggere ma è possibile, per l’uomo, che significhi coltivare». Detto questo, per Petrosino, richiamando Lacan, anche «il possesso e la distruzione rimandano per l’uomo alla sua ricerca di un’identità»: «il distruggere è una pulsione negativa ma comunque creazionistica». Il problema del creato rimanda quindi sempre inevitabilmente al problema del soggetto, dell’essere umano. Ma anche nella Bibbia dal giardino di Genesi si arriva poi sempre «alla città, cioè – ha proseguito il relatore – al miracolo possibile della convivenza e dell’accoglienza fra gli uomini». L’abitare è dunque «incontrare qualcuno che dica “ti voglio bene”». La terra, ha quindi concluso, «è nostra, perché siamo attori, non subiamo la vita, siamo chiamati a coltivare», ma al tempo stesso «non è nostra perché siamo in affitto, non ne siamo i proprietari» e allo stesso modo «non possediamo la verità intesa come certezza assoluta»: saper accettare questo significa «essere in pace con se stessi. Riscopriamo invece la verità come fecondità».
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 novembre 2020

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