Il 17 marzo il Convegno AGESCI: «vivere un tempo profondo» slegato dagli “obiettivi” e «saper vivere l’attesa» senza avere il controllo di tutto
Saper vivere nel «tempo profondo» per meglio conoscere sé stessi e quindi saper coltivare le proprie autentiche passioni.
Su questo ha riflettuto la mattina dello scorso 17 marzo, Maura Gancitano (foto in alto), saggista, filosofa e co-fondatrice di Tlon, scuola di filosofia. L’occasione è stato il convegno “Passione in Azione. Il senso di educare oggi ad appassionarsi” promosso da AGESCI Ferrara (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani) e svoltosi nella Sala convegni CNA di Ferrara. Oltre 120 i presenti che prima dell’intervento di Gancitano hanno ascoltato le testimonianze di Roberto Zaghi (fumettista), Pietro Savio (giovane fotografo), Andrea Zimelli (apicoltore), Antonella Antonellini (attrice e curatrice teatrale).
ATTESA E IGNOTO CONTRO LA SOCIETÀ DELLA PERFORMANCE
«Viviamo in una società della performance, che chiede costantemente a ognuno di essere attivo e dà l’illusione di poter avere il controllo su tutto». Così Gancitano ha esordito nel proprio intervento. «Soprattutto riguardo al corpo – ha proseguito -, è costantemente un essere giudicati e giudicarsi. E tutto quel che non raccontiamo di noi» sui social o comunque sul web, «è come se non esistesse». Bisogna, poi, «sempre dimostrare che tutto va bene, dobbiamo raccontare tutto ciò che funziona nella nostra vita, dimostrare che abbiamo tutto chiaro nella nostra testa». Oggi, insomma, la nostra «società della “vetrinizzazione” richiede tantissimo, soprattutto ai giovani».
Alternativo aquesto modello performativo, Gancitano propone il concetto di «fioritura», cioè di «una felicità legata al senso di gratitudine e del sentirsi fortunati di ciò che si ha». E legata al concetto di «passione» come di qualcosa che «mette in gioco la nostra diversità», innanzitutto rispetto al sé passato e quindi rispetto agli altri. Passione, quindi, come qualcosa che richiama non solo il talento – cioè «il saper fare qualcosa in base alle nostre caratteristiche» -, ma «la vocazione», la capacità cioè di «vivere il presente e di vivere un tempo più profondo», slegato dal culto degli «”obiettivi” da raggiungere», e opposto a un «tempo superficiale e frammentato» (soprattutto a causa dell’uso sempre più forte dei dispositivi digitali).
In una società «dove spesso è facile sentirsi inadeguati, non al proprio posto», e dove il tempo dell’inattività ci sembra «tempo vuoto», per Gancitano, quindi, è importante riscoprire il senso della «noia» come – citando Benjamin – «possibile spazio dove arrivano le idee, tempo dell’attesa dell’intuizione creativa per poter capire qual è la propria passione».Ma questa conoscenza profonda di sé presuppone una «cura di sé», quindi «una fatica, un impegno». Fatica che spesso oggi viene vista come «qualcosa da evitare», ma che invece è necessaria nella cura di sé stessi, nel coltivare la propria passione e nel percepire l’autentica bellezza, «quella che ci scuote, che non è ordinaria». Coltivare la passione è quindi «un’azione trasformativa di sé, che mette in discussione la falsa idea che abbiamo nel percepirci e immaginarci sempre come qualcosa di statico». Insomma, non sappiamo mai del tutto ciò che saremo:«la passione, dunque, ha a che fare con l’ignoto». È una bella sfida, da vivere appieno.
L’intervento dello psicanalista al nuovo Polo Didattico di Cona per l’inaugurazione dell’anno accademico: «la formazione sia spazio di luce, fuoco, valore del nome proprio». I disagi dei giovani
A cura di Andrea Musacci
«Quello che erediti dai tuoi padri, riguadagnatelo, per possederlo»: ha preso le mosse da queste parole di Goethe, Massimo Recalcati, noto psicoanalista e docente universitario, per la sua prolusione lo scorso 6 marzo alla cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2023/24 dell’Università degli Studi di Ferrara. «Il movimento dell’eredità è sempre un movimento in avanti, pur nella fedeltà alla tradizione», ha proseguito. «Io adoro gli inizi, i battesimi, i matrimoni, lo sbocciare dei fiori, tutto ciò che prende vita. Ma affinché qualcosa possa cominciare, non deve mai smettere di incominciare», sono state ancora sue parole. Da qui, la citazione di Gentile sull’insegnare come continuo apprendere, «ricominciare ogni volta per evitare il rischio terribile della ripetizione senza sorpresa».
«NAUFRAGIO DELLA PAROLA» E NOME PROPRIO
Parafrasando, poi, un passo de “La peste” di Camus, Recalcati ha detto: «oggi l’università deve “saper restare”, essere cioè un punto di riferimento in un’epoca di forti crisi». Epoca nella quale assistiamo al «naufragio della parola», dove cioè «la parola non ha più peso». Nell’università, quindi, oltre a una necessaria «anima-dispositivo» fatta di regolamenti, burocrazia, valutazioni, algoritmi e numeri, deve avere cittadinanza il «nome proprio»: «chiamare per nome è un atteggiamento di cura», il nome – con la «singolarità storta» che rappresenta – è «eccentrico» rispetto al numero, lo eccede sempre. I luoghi della formazione così intesi non possono che essere «luoghi della luce, dove si fa esperienza della luce, dove cioè si allarga l’orizzonte del mondo».
DALLA «TOSSICOMANIA» AL RIFIUTO DELLA VITA
L’opulenta e spesso vuota società contemporanea, però, crea nel mondo giovanile due forme di disagio: una, prevalente più nell’era pre covid, che Recalcati definisce «disagio neo-libertino», causato dall’idea che «tutto è possibile», con una «sregolazione pulsionale, del consumo e l’assenza di vincoli e legami». Una «tossicomania» non solo legata al consumo di droghe ma a una vera e propria «idolatria delle cose», una «sacralizzazione degli oggetti che desacralizza la vita». A questa si è aggiunta, dopo il covid, una nuova forma di disagio, un suo «rovescio malinconico»: quello dei giovani che «rifiutano la vita, si ritirano da essa», le cui camere diventano «bunker». Una «pulsione securitaria» che fa vedere «l’altro come una minaccia, l’aperto come fonte di angoscia». D’altra parte, però, oggi assistiamo anche a un «uso inflattivo della psicologia» e a una «medicalizzazione di ogni aspetto della vita», con un «abuso della diagnosi» ad esempio in ambito scolastico, che fa anche «identificare le nuove generazioni come vittime, porgendo così ai giovani alibi per sentirsi sempre giustificati».
C’È BISOGNO DI FUOCO
I giovani, invece, hanno bisogno di «una formazione intesa non tanto come una scala da salire ma come un fuoco»: hanno bisogno, cioè, di «qualcuno o qualcosa» (un insegnante, un libro, ad esempio) «che li scotti, che li accenda», che accenda la loro passione.
La giudice del tribunale per i minorenni di Roma è intervenuta on line per la Scuola di teologia per laici diocesana
La cronaca nel nostro Paese ci racconta sempre più di casi in cui i giovani sono protagonisti in negativo: baby gang, femminicidi, tragiche challenges. Un punto di vista alternativo sulla questione – oltre la demonizzazione di un’intera generazione e la sua assoluta giustificazione – l’ha portata lo scorso 29 febbraio Maria Teresa Spagnoletti, giudice del tribunale per i minorenni di Roma e Presidente del Collegio dibattimentale del Tribunale per i Minorenni di Roma, oltre che Capo Guida Scout d’Italia e autrice del libro “Il mio territorio finisce qui” (Futura ed.). L’occasione è stata la nona lezione dell’anno in corso della Scuola diocesana di teologia “Laura Vincenzi”.Spagnoletti ha riflettuto – in collegamento on line – su “Esperienze di custodia dell’umano”. Il prossimo incontro della Scuola è in programma giovedì 7 marzo, ore 18.30, con suor Veronica Donatello che rifletterà su “La grazia non conosce barriere architettoniche” (incontro solo on line).
NESSUN GIUDIZIO SULLA PERSONA. E NESSUN BUONISMO
Tante le storie e gli aneddoti raccontati dalla relatrice, legati ai ragazzi e ragazze che ha incontrato nella sua lunga carriera. «Innanzitutto – ha detto -, come adulti dobbiamo essere percepiti come persone giuste: il complimento migliore ricevuto è stato quello di un ragazzo che era stato arrestato, ai tempi facevo il gip, e lui era contento: “la Spagnoletti è severa ma giusta”, disse. E poi è importante rispettare le regole anche minime, nella vita e creare un’intensa relazione con la ragazza o ragazzo imputato o detenuto: è decisivo – ha proseguito – che percepisca che il giudice è interessato a lui come persona, al di là del dover giudicare il reato commesso. Ogni persona è diversa e diverse sono quindi le motivazioni che stanno dietro a un reato». Dall’altra parte, però, nessuno spazio al buonismo: «con i ragazzi non bisogna sminuire la colpa, ma bilanciare tra loro giustizia e misericordia». Che significa innanzitutto «scommettere su di loro, senza aver fretta e accettando anche i loro fallimenti». A tal proposito, la Messa alla prova – per Spagnoletti – è «sicuramente l’istituto più importante per la riabilitazione di un giovane che ha commesso un reato. Il carcere spesso è necessario ma ad esso devono seguire misure alternative per reinserirlo nella società e perché non commetta più reati. Non bisogna mai buttare la chiave. È facile scommettere solo su chi è un “bravo ragazzo”…». In ogni caso, «prima di valutare un percorso alternativo per il ragazzo, bisogna cercare di conoscerlo: la relazione con lui è fondamentale: prima di giudicarlo, ho sempre cercato di capire cosa pensasse del proprio periodo trascorso in carcere, del proprio futuro, quali riflessioni aveva fatto». D’altra parte – ha aggiunto -, «non bisogna nemmeno avviare percorsi alternativi quando il ragazzo non è pronto a sostenerli: bisogna avere pazienza, non fretta, altrimenti si mette il ragazzo di fronte a impegni troppo gravosi da rispettare e quindi si aumenta il rischio di recidiva». Giustizia e misericordia – verità e carità, potremmo aggiungere -, si diceva prima: parole che richiamano anche l’educazione alle regole:«è importante far capire ai giovani che le regole esistono non per imporle ma perché sono necessarie per la convivenza comune. A volte i genitori non insegnano, o non testimoniano, questo rispetto ai loro figli». I casi di violenza fra i giovani, per Spagnoletti hanno fra le cause anche «la responsabilità degli adulti, spesso incapaci di educare realmente i ragazzi: non insegnano né testimoniano nemmeno il rispetto per l’opinione altrui, non sono in grado di dialogare. Mancano quindi esempi veri di cosa voglia dire una convivenza civile fra le persone, rispettosa degli altri».
Diverse le domande e le riflessioni provenienti tra le persone collegate on line per ascoltare la relazione di Spagnoletti. Un intervento non solo tecnico, ma innanzitutto umano: «nel mio lavoro – ha infatti spiegato -, c’è un forte coinvolgimento emotivo ma ho sempre cercato di tener fuori le mie convinzioni personali nel giudizio sui ragazzi». L’ultima riflessione l’ha dedicata al suo rapporto con la fede e a come questa influisce sulla propria vita: «amare il prossimo è più facile se davvero si ama Dio, e se davvero capiamo qual è il nostro modo di rispondere alla Sua chiamata. Nel mio lavoro, la mia fede, la mia appartenenza alla Chiesa e allo scoutismo hanno giocato un ruolo fondamentale: ho imparato l’importanza da dare al rispetto dell’altro e al non giudicare l’altro, ma solo il suo comportamento».
Abbiamo visitato la Scuola d’infanzia “Casa dei Bambini” della parrocchia della Sacra Famiglia a Ferrara. Metodo Montessori per un ambiente di cura e gioia, improntato al senso di responsabilità. E ora anche attento ai bisogni di diversamente abili e anziani
di Andrea Musacci
Quello che può sembrare un piccolo progetto, dice invece molto del luogo che lo accoglie e delle persone che lo hanno voluto e sostenuto.
Da quasi 70 anni in via Recchi, una traversa di via Bologna a Ferrara, dietro la chiesa (ora anche Santuario mariano) della Sacra Famiglia, c’è la Scuola d’infanzia “Casa dei Bambini”. Lo scorso 24 febbraio è stata presentata alla stampa la nuova piattaforma per disabili e anziani con difficoltà motorie, che rappresenta il primo passo di un progetto più ampio intitolato “Scuola accesso facile – Per la disabilità motoria”, per abbattere tutte le barriere architettoniche, interne ed esterne, dell’edificio. Per l’occasione, erano presenti il parroco don Marco Bezzi, il vicario don Thiago Camponogara, Alessandro Atti (Consiglio Affari economici parrocchiale), Marianna Pellegrini della Fondazione Estense (che ha dato un importante contributo per l’acquisto) e tre delle quattro insegnanti della scuola: Angela Artioli, Franca Parisotto (che ne è anche la Direttrice) e Lara Mazzetto (la quarta insegnante, da poco arrivata, è Antonella Bertolino).
«Per ora non abbiamo persone disabili» (che siano alunni, insegnanti o genitori) – ha spiegato don Bezzi -, «ma in futuro potrebbero esserci: vogliamo essere preparati». La piattaforma è stata installata (e collaudata lo scorso 13 dicembre) a fianco della scala nel cortile d’ingresso su via Recchi, quindi in funzione dal piano di calpestio al piano rialzato. «L’anno prossimo faremo montare un’altra piattaforma nella parte posteriore della struttura», prosegue il parroco, nel cortile dove i bambini giocano e dove le prime suore domenicane fecero costruire una cappella-grotta mariana. Questa ulteriore piattaforma permetterà di scendere alla mensa nel piano interrato e di salire al piano rialzato.
Come accennato, la piattaforma è stata realizzata da “Ferrara ascensori” con l’importante contributo di Fondazione Estense (13 mila euro su 18.500 totali), grazie all’Associazione tra Fondazioni di origine bancaria dell’Emilia-Romagna, per l’acquisto, la progettazione, l’installazione, il collaudo e la sicurezza. Viene aperta e attivata solo da un operatore incaricato, per impedire che i bambini, giocando nel cortile, possano essere “tentati” di manovrarla.
“CASA DEI BAMBINI”, UNA GRANDE FAMIGLIA
La Scuola Materna “Casa dei Bambini” della parrocchia della Sacra Famiglia è parte dell’Opera Nazionale Montessori ed è aggregata alla FISM (Federazione italiana Scuole materne) di Ferrara-Comacchio. Attualmente ospita 75 alunni fra i 3 e i 6 anni di età, di cui la metà straniera (originari di diversi paesi africani, profughi dall’Ucraina, provenienti da Albania, Romania, Moldavia, Iran, Pakistan e Cina) e alcuni di loro musulmani. La Casa dei Bambini è sorta nel 1952 per volontà dell’allora parroco don Adriano Benvenuti e avviata nel ’56 con l’arrivo delle Suore Domenicane della Beata Imelda. Suore che, fin da subito, hanno improntato il loro servizio educativo sulla metodologia didattica di Maria Montessori ideata da lei stessa all’inizio del secolo. Una delle prime suore domenicane alla Sacra Famiglia, suor Fernanda Bersani, fu proprio un’allieva di Maria Montessori.
Attualmente l’edificio è progettato per contenere fino a 150 bambini, e per il pranzo accoglie anche una 60ina di piccoli del doposcuola. Al piano interrato ci sono la sala mensa e la cucina attrezzata, al pian terreno il salone con altre sale e al primo piano, la palestra, il dormitorio (entrambe con le pareti disegnate nel 2017 da suor Alma) e una cappella usata dalle suore, per la Messa mattutina del sabato e per le preghiere con i bambini. Il menù è sempre appeso sulla porta d’ingresso della scuola, affinché i genitori possano sapere cosa i figli mangiano.
Quattro le sezioni – l’ultima aperta nel 2022 – e diverse le donne impegnate nel servizio di pulizia e in mensa, oltre alle tre suore domenicane tuttofare: le filippine suor Marilla, suor Cristina e suor Helen della Congregazione Domenican Daughters of the Immaculate Mother, impegnate nella portineria, nell’accoglienza, nell’insegnamento della lingua inglese, nell’aiuto per il pranzo, nell’accompagnamento dei bimbi per il riposino pomeridiano.
Una scuola montessoriana, quindi, con un’identità ben precisa e con un metodo – ci spiega don Bezzi, «che sempre più scuole stanno adottando, anche nel nostro territorio». Grazie al metodo Montessori, infatti, «il bambino è incentivato a scoprire affiancato dalle maestre, pensata come una sorella maggiore. Qui non esistono cattedre e tutto l’arredamento è ad altezza bambino». A 4 anni iniziano a prendere confidenza con la scrittura, i numeri pari e dispari fino al 10 e la geografia, anche attraverso strumenti come le lettere sensoriali, giochi sonori o colorati. Sono attrezzature costose, molte delle quali presenti – e ancora in perfetto stato – dal ’56. «Il gioco lo scelgono loro, non gli viene imposto», proseguono le maestre. «Questo non significa che c’è anarchia, ma silenzio e rispetto». Ed educazione alla responsabilità: è frequente vedere i bimbi più grandi aiutare i più piccoli, insegnare loro piccole cose, o alcuni di loro, bardati col grembiule bianco, servire ai tavoli durante il pranzo. “Una mano attaccata alla ringhiera e una dietro alla schiena quando si sale le scale”: anche questo viene insegnato alla Casa dei Bambini. Piccoli gesti che fanno crescere donne e uomini grandi, educati e attenti agli altri. «Il bambino non è una scatola vuota da riempire ma una mente pensante, che fa domande», ci spiega ancora don Bezzi. «Qui le maestre devono parlare sottovoce, stare con loro, non dire al bambino “hai sbagliato” ma provare assieme per far crescere la fiducia in sé stesso».
Le insegnanti della vicina scuola primaria “Mosti” su via Bologna – ci spiega il parroco – «non a caso ci dicono sempre che i bimbi provenienti dalla nostra scuola quando arrivano da loro sono già scolarizzati». Questa è la «scuola della felicità», dice spesso don Marco ai piccoli della scuola. E loro annuiscono, perché questa gioia la vivono, la sentono. Non è qualcosa che viene loro insegnato, ma semplicemente testimoniato.
Dedicazione e 60° dalla costruzione col Vescovo. Il rito in una chiesa gremita e la cerimonia nella Scuola
Grande festa il 17 settembre nella chiesa “San Giovanni evangelista” di Quacchio a Ferrara per la dedicazione e per il 60° della consacrazione. La chiesa fu distrutta dai bombardamenti bellici nella seconda guerra mondiale e ricostruita nel 1963, assieme alla canonica e alla Scuola materna, su progetto dell’arch. Orlando Veronese e grazie all’impegno dell’allora parroco mons. Antonio Abetini. Da due anni Quacchio fa parte dell’Unità pastorale “Borghi in periferia fuori le mura” assieme a S. Caterina Vegri, Malborghetto di Boara, Pontegradella e Focomorto.
I riti della dedicazione – unzione dell’altare e delle pareti della chiesa in corrispondenza delle croci della Via Crucis, l’incensazione e illuminazione dell’altare e dell’edificio – sono seguiti all’omelia del nostro Arcivescovo, nella quale – riprendendo anche il Vangelo del giorno – ha riflettuto così: «Ogni chiesa è luogo dove si vive e s’impara il perdono. Quanti in questi 60 anni hanno sperimentato in questo luogo il perdono di Dio, hanno ricominciato a vivere grazie alla misericordia di Dio? E quanti in questi 60 anni in questa chiesa, nata sulle macerie della violenza di una guerra, hanno partecipato all’Eucaristia, fonte di perdono e pace?».
A fine Messa il parroco don Luca Piccoli dopo i ringraziamenti alla comunità, ha invitato a «non dimenticarci di essere un popolo sacerdotale, che nasce e rinasce sempre grazie all’Eucarestia». Per l’occasione – ha spiegato – è stato ricostruito l’ambone e all’ingresso il confessionale e il fonte battesimale sono stati scambiati tra loro di posto, tornando alle loro posizioni originarie. «D’ora in poi – ha aggiunto – la festa comunitaria della parrocchia ricorrerà in questi giorni di settembre».
Dopo la Celebrazione, sono stati ufficialmente inaugurati i locali restaurati dell’attigua Scuola d’Infanzia “Maria Immacolata”, la cui inaugurazione, prevista per marzo 2020, fu rimandata a causa del lockdown. Oltre all’intervento antisismico, sono stati adeguati gli impianti elettrici e termoidraulici, è stato rifatto il sistema di fognature e gli allacciamenti sia idrico che gas, i pavimenti, gli intonaci, le tinteggiature e i bagni dei bambini. Sono state poi sostituite le finestre e le porte più vecchie e la scuola è stata dotata di un bagno per portatori di handicap. L’investimento complessivo è stato di circa 450mila euro.
Sulla facciata principale dell’asilo, vi è una formella rappresentante la Sacra Famiglia e una targa che ricorda due vittime dei bombardamenti del 10 marzo 1945: Gianfranco Zagni, 12 anni, e Floriano Fantoni, 8 anni. Tra le novità dell’asilo, vi sono l’allungamento dell’orario di apertura fino alle 17.30 e due nuovi laboratori di musica e inglese. Sono 55 i bimbi iscritti quest’anno, una ventina in meno rispetto all’anno scorso. Un problema sottolineato anche da mons. Perego nel suo intervento, nel quale ha ricordato come «la scuola cattolica non è una scuola esclusiva, ma inclusiva per sua natura», anche se «non è stata ancora rispettata adeguatamente la libertà educativa, più costosa per i genitori che scelgono la scuola cattolica per i loro figli, che segue in tutto i programmi delle altre scuole statali e comunali, anche se costa dieci volte di meno e ha un contributo irrisorio dallo Stato attraverso i Comuni e le Regioni. Per queste ragioni, soprattutto nelle frazioni, le nostre scuole cattoliche faticano a vivere e ad avere un futuro. Ma il valore educativo non ha prezzo, soprattutto se una scuola favorisce una cultura dell’incontro».
Ha portato il suo saluto anche l’Assessora comunale all’Istruzione Dorota Kusiak, alla presenza delle educatrici e di alcuni bambini con le loro famiglie. Bambini che hanno anche intonato una canzone prima che il Vescovo e l’Assessora fossero accompagnati a visitare i locali della Scuola. La giornata si è conclusa con il pranzo comunitario. Domenica 15 ottobre, infine, in occasione del 40° della dedicazione della chiesa di S. Caterina Vegri, si celebreranno le Cresime e vi sarà il pranzo comunitario.
Famiglia Cortesi in parrocchia: la novità in Diocesi
Per la prima volta nella storia della nostra Arcidiocesi, una famiglia vive in una casa canonica parrocchiale. Si tratta del diacono permanente Marco Cortesi assieme alla moglie Alessia Pritoni e ai loro cinque figli, che da agosto vivono negli ambienti della parrocchia dell’Addolorata a Ferrara. Cortesi assieme alla famiglia è stato richiamato in Diocesi dopo cinque anni trascorsi in missione a Toledo, in Spagna. Appartenente alla Papa Giovanni XXII, la coppia aiuterà il parroco don Paolo Semenza. Lo scorso 3 settembre il Vicario Generale mons. Massimo Manservigi ha celebrato la Messa in ricordo di don Valenti e per l’occasione è stata anche accolta la famiglia Cortesi. Cresciuti a Mizzana, i Cortesi hanno vissuto anche a Pescara di Francolino e a Pontelagoscuro.
Don Lorenzo Milani con alcuni dei suoi ragazzi di Barbiana
Sono gli incontri che cambiano la vita, che ci riaprono allo Spirito. Marina Salamon ci racconta della fede giovanile, e di quella ritrovata da adulta. Una fede più che mai incarnata
di Andrea Musacci
Per chi nutre ancora dubbi sulla possibilità, in una sola anima, di unire un forte senso del sacro con una mentalità imprenditoriale, uno slancio all’Assoluto con le ultime statistiche demografiche, si ricreda.
Marina Salamon, nella sua personale esperienza incarna questa aspirazione. O almeno ci prova, data l’umiltà che dimostra pur avendo alle spalle una vita di successo nel mondo dell’impresa: nata nel 1958 a Tradate (Varese), è diventata imprenditrice quand’era ancora universitaria, fondando “Altana”, azienda leader nel settore di abbigliamento per bambini. Nei primi anni ’90 assume il controllo della società di ricerche di mercato “Doxa” mentre nel 2014 diventa azionista di maggioranza di “Save the Duck”, azienda che produce piumini senza fare uso di penne d’oca. Oggi tutte le sue attività fanno parte della holding “Alchimia”, impresa che opera nel settore della compravendita immobiliare. Nel ’94, per qualche mese, ha fatto anche parte della Giunta di Venezia guidata da Massimo Cacciari. Salamon ha quattro figli (da due padri diversi), una figlia in affido e attualmente assieme al marito Paolo Gradnik (col quale vive a Verona) ospita due famiglie ucraine.
Giovedì 30 marzo alle ore 20.30 interverrà a Casa Cini a Ferrara (via Boccacanale di Santo Stefano, 24) per il terzo e ultimo incontro della “Cattedra dei credenti” coordinata da Piero Stefani con la Scuola di teologia per laici “Laura Vincenzi”. Tema dell’incontro, “Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”.
L’abbiamo contattata per rivolgerle alcune domande.
Marina, com’è nata la sua fede cristiana, dove ha attinto?
«Vengo da una famiglia non credente, ma grazie a mia nonna, che amavo molto, feci comunque i sacramenti. Quel che però ha fatto la differenza, è stata la mia esperienza negli scout, a partire dai 10 anni. Mio padre Ennio teneva ai valori dello scoutismo, perché anche lui era stato uno scout cattolico, anche se poi è diventato agnostico. È stata un’esperienza meravigliosa, fondante sia per la mia fede che per i miei valori: mi ha insegnato a riconoscere Dio nella creazione, mi ha tenuta attaccata a Dio attraverso San Francesco d’Assisi, anche negli anni in cui sono stata lontana dalla Chiesa. Poi, tra i 14 e i 16 anni, ho frequentato Gioventù Studentesca (movimento interno a CL, ndr), un’altra esperienza per me importante, grazie anche a molti amici di CL che mi sono rimasti amici dopo la mia uscita dal movimento. Le loro testimonianze di vita, legate alla missionarietà, mi hanno aiutato molto».
Da adulta, invece, quali testimoni l’hanno accompagnata nella fede?
«Ne ho incontrati diversi, ma ne cito tre su tutti, in ordine cronologico: mons. Gianfranco Ravasi, che ho conosciuto grazie a mio padre, il quale non sempre ha condiviso le mie scelte di vita come imprenditrice. Parlò di me a mons. Ravasi, che iniziò a invitarmi a presentare i suoi libri. Un giorno mi disse: “penso che tu non sia così male…”».
Il secondo testimone?
«A un incontro del Forum Ambrosetti, nei primi anni del 2000, fu invitato l’allora card. Joseph Ratzinger. Ci arrivai carica di pregiudizi, ma con dentro una forte domanda sulla fede. Sono rimasta assolutamente affascinata dalla sua intelligenza – proprio nel senso di saper leggere oltre l’apparenza – e dalla sua umiltà. In vita mia non avevo mai visto una combinazione così dei due aspetti: da lui, il carisma usciva prepotentemente, smontando tutto quel che avevo dentro».
Per quale motivo in particolare?
«Nel mio mondo imprenditoriale, spesso ciò che conta è esibirsi ed esibire. Ratzinger, invece, era come un monaco eremita del Medioevo…».
L’ultimo testimone che voleva citare?
«Salvatore Martinez (Presidente di Rinnovamento nello Spirito Santo, ndr), a capo di un movimento a cui non appartengo e non ho appartenuto, ma che in periodi di crisi della mia vita, ad esempio per la separazione col mio ex marito, mi ha preso per mano, invitandomi ad alcuni pellegrinaggi: io, “irregolare” in quanto divorziata, partii quindi con loro a Gerusalemme, poi a Lourdes. Insomma, nell’epoca delle beauty farm e della new age, tutti abbiamo bisogno di qualcuno che ci prenda per mano e ci accompagni. Senza rigide appartenenze ecclesiali».
Marina Salamon
In una recente intervista, parla dei momenti di studio e preghiera che si ritaglia nella sua pur intensissima vita, per affrontare quelle «ardue domande che si fanno strada in ognuno di noi ed esigono risposta»: a cosa si riferiva?
«Le ardue domande non riguardano l’esistenza di Dio, su cui non ho dubbi, ma il come riuscire a tenere insieme l’insegnamento del Vangelo con le scelte di lavoro, con la famiglia e la vita in genere. Appena riesco, quindi, mi “prenoto situazioni” per poter meditare e studiare: pellegrinaggi, ritiri spirituali o periodi in conventi dove vado senza pc, solo con libri, quaderno e penna. Sono stata, ad esempio, a Bose e a Camaldoli. E sono iscritta, assieme a mio marito, all’Istituto di Scienze Religiose di Verona – dove sto lavorando a una tesi su don Milani -, oltre a frequentare un Master in dialogo interreligioso a Venezia».
Riguardo a don Lorenzo Milani, che cosa della sua testimonianza l’ha colpita e ancora considera importante?
«Avevo 10 anni quando trovai in casa la prima edizione di “Lettera a una professoressa”: già da giovane mi provocava in ciò che mi era più scomodo, è questo era per me commovente, sapeva davvero muovermi il cuore. Capii che non potevo accontentarmi dei miei privilegi, che erano stati soprattutto culturali, venendo da una famiglia colta e aperta al mondo. Don Milani sa invece essere duro come il Vangelo del giovane ricco».
Come iniziò a concretizzarsi questo suo bisogno di cambiamento?
«Facendo caritativa con CL: andavamo a casa degli immigrati meridionali, case senza pavimento e coi bagni in bugigattoli esterni. Anni dopo conobbi Pietro Ichino (noto giuslavorista, ndr), citato da don Milani come “pierino”, perché i due si conobbero quando Pietro era piccolo. Anche lui mi raccontò come il sacerdote gli cambiò la vita».
“Un’imprenditrice alla scuola di don Milani”: che cos’ha imparato, e che cosa, ancora, impara da lui?
«L’amore per la vita e la valorizzazione di ogni persona. Nel mio caso, soprattutto nelle mie aziende. L’economia, però, si è pesantemente finanziarizzata, e questo ha avuto un impatto su tante scelte delle mie aziende, che a volte ho vissuto con grande angoscia, come una ferita».
Non è possibile trovare un punto di equilibrio tra persona e finanza?
«Lo sto cercando in ogni mia scelta. Mi son sempre sentita un genitore nei confronti di tutte le persone che lavorano con me: genitore nei termini di responsabilità nei loro confronti. Ma nei prossimi anni – ne sono convinta, basta leggere le statistiche – l’Italia andrà in crisi, con forti ripercussioni sociali. Il calo demografico è troppo forte, non c’è possibilità di invertire questa tendenza, se non in futuro».
A livello educativo, di trasmissione della fede e dei valori, qualcosa però si può sempre fare. Su questo, cosa può dirci don Milani oggi?
«Don Milani era ed è un profeta e quindi va ascoltato: da giovanissima pensavo fosse troppo “di sinistra”, ma dopo capii che mi sbagliavo. Quando, ad esempio, ai sindacalisti diceva che, una volta conclusa la lotta al fianco dei lavoratori, sarebbe tornato nella sua chiesa, intendeva dire che i valori della fede vanno ben oltre quelli secolari, politici. Dovremmo quindi ripartire da valori forti e chiari, scomodi ma profetici: la Chiesa innanzitutto ha questo compito, questa grande responsabilità educativa».
La Chiesa, però, è sempre più minoranza…
«Non è un problema, anzi può essere positivo: il mondo viene cambiato dalle idee e dai testimoni che le incarnano».
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 marzo 2023
Incontro a Ferrara sugli adolescenti: le sofferenze post pandemia, le testimonianze da Sambe e WebRadio Giardino, proposte di educazione condivisa
Insicuri, annoiati, rabbiosi. Ma anche desiderosi di bene, di una comunità educante. Nel parlare dei giovani – in particolare degli adolescenti – si rischia sempre di essere troppo paternalistici o “sociologici”. Da quest’approccio ha provato a uscire l’associazione “Ferrara Bene Comune” (FBC), proponendo, nella serata del 10 marzo, un incontro organizzato con CSV Terre Estensi, in Sala della Musica, moderato da Patrizio Fergnani (vice Presidente FBC), e con una 70ina di presenti. “Essere giovani in una città che invecchia”, il titolo scelto, a dire di un futuro che tanto roseo non sembra, e di un presente fatto di contraddizioni e difficoltà.
NUMERI CHE PARLANO CHIARO
Dai dati è partito Guglielmo Bernabei, Presidente di FBC (e nostro collaboratore), con la presentazione della ricerca “Tra Presente e futuro. Essere adolescenti in Emilia Romagna nel 2022” realizzata dall’Osservatorio Adolescenti del Comune di Ferrara con la collaborazione del Servizio Politiche sociali e socio-educative della Regione Emilia-Romagna. Dai 15mila ragazzi coinvolti (di età compresa fra gli 11 e i 19 anni), è emerso la loro ricerca di «una comunità educante, attiva, cooperativa». Il periodo pandemico, in particolare, è stato percepito da tanti come «spazio vuoto, sospeso». Da qui, la loro fame di relazioni nuove, diverse.
Dall’indagine risulta che siano due i luoghi di maggior disagio per gli adolescenti: la scuola e l’on line (la metà di loro passa almeno 4 ore davanti al pc). Qui, maggiormente, emergono ansia, noia, insicurezza, rabbia e solitudine. La gioia e la fiducia, al contrario, vengono dagli amici e dalla famiglia (pur con alcuni dati negativi da non sottovalutare). Insomma, la situazione è complessa ma non tragica: «i giovani vogliono esprimere la propria creatività, hanno voglia di conoscere, sono curiosi», ha concluso Bernabei: «hanno voglia di futuro».
TESTIMONIANZE DEI GIOVANI
Una «voglia di futuro» espressa da Tania e Anna (foto a sx) dell’Oratorio di San Benedetto: la prima, 22 anni, educatrice con la Lingua dei Segni, è partita da tre verità: «il bene genera il bene, l’educazione è cosa di cuore, in ogni ragazzo c’è un punto accessibile al bene. A me – ha proseguito – la vita dell’Oratorio ha salvato nella dimensione della relazione. Ma anche noi ci interroghiamo sulla nostra insufficienza, su dove sbagliamo se tanti giovani non sono attratti da noi. Una cosa è certa: se non agiamo nel bene, questa città muore».
Per Maria Vittoria Govoni(foto a dx), 25 anni, vice presidentessa di Web Radio Giardino (aps e spazio culturale nato nel 2017 per raccontare la città e i mondi giovanili), la domanda è aperta: «come Radio stiamo vivendo una crisi. Come fare – ci chiediamo anche noi – per trovare forze nuove e non abbatterci?».
La risposta, per Micol Guerrini, Assessora alle politiche giovanili del Comune di Ferrara, sta soprattutto nella comunicazione: «in città non mancano iniziative e proposte, ma dovremmo cercare di raggiungere più i giovani, soprattutto attraverso le scuole». Sarà. Fatto sta che le persone si avvicinano – si attraggono – sempre una a una, sempre chiedendo loro “tu come stai?” (come ha detto Tania). Sempre incontrandole sul loro cammino.
PROPOSTE DI EDUCAZIONE CONDIVISA
Su queste basi è nato anche il progetto Family StAR (Student At Risk), che parte dal modello delle Family Group Conference. Ne ha parlato Francesca Maci, Docente all’Università Cattolica di Milano. Il progetto è rivolto a studenti e studentesse con difficoltà scolastiche: il disagio personale viene affrontato non solo dalla famiglia o dagli insegnanti, ma anche – se lo studente lo vuole – da chiunque possa aiutarlo (amico, compagno di classe, vicino di casa, parente ecc.), e da professionisti, in maniera partecipata e condivisa. Insomma, «sapere esperto e sapere dell’esperienza» si alleano tra loro per trovare soluzioni pratiche attraverso un percorso personalizzato. StAR, per ora, è stato sperimentato a Milano, Lodi, Sondrio e Salerno su un totale di 540 studenti. Si è accennato alla possibilità (tutta ancora da valutare) di portarlo anche a Ferrara.
E sull’idea di rete solidale si fonda anche il progetto dei Patti Digitali di Comunità (PDC), nati nel 2018 grazie al MEC (Media Educazione Comunità), rappresentati da Matteo Maria Giordano(con Maci e Bernabei in foto), il quale con amara ironia ha illustrato la realtà: lo schermo di un tablet o smartphone sta sostituendo, per molti bambini, anche piccolissimi, il volto della madre (o del padre). Chi non ha mai visto, al tavolo di un ristorante, un bimbo non far altro se non fissare uno smartphone? «È una scelta – ha detto Giordano – fatta non per il bambino, ma dai genitori per loro stessi, perché vogliono essere al centro, non disturbati dal figlio». Da una recente indagine, il 72% delle famiglie con bimbi 0-2 anni ha ammesso di usare dispositivi digitali durante i pasti. Ma gli effetti, in particolare sui bambini, sono gravi, perché provocano dipendenza, quindi mancanza di sonno, di memoria, di concentrazione. Oltre a inibire la creatività e appunto a impoverire le relazioni. «Se continuiamo così, fra 20 anni avremo tanti giovani con disturbi di questo tipo: sono i bambini di oggi», ha ammonito Giordano. Bambini che perdono la relazione coi genitori, inghiottiti dallo schermo che loro stessi li mettono davanti agli occhi.
I PDC sono, quindi, un tentativo per far incontrare fra loro i genitori e decidere, insieme, alcune regole/principi da applicare ognuno coi propri figli. A partire da 5 basi: sì alla tecnologia, ma nei tempi giusti; preparare i bambini all’autonomia digitale (ma graduale e attenta); regole chiare e dialogo; adulti informati e responsabili; alleanza tra genitori. Altre informazioni su https://pattidigitali.it/
Andrea Musacci
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 marzo 2023
Presentato a Ferrara l’11 ottobre: inclusione scolastica e sociale per centinaia di bambine e bambini con disabilità, da sempre considerati “scarti”. I sei tanzaniani a Ferrara e la storia di riscatto di Mage, Vicky e Ageni
di Andrea Musacci
Abbandonati lungo il ciglio di una strada polverosa o reclusi a vita in casa, quando non uccisi. È questo il tragico destino di tante bambine e bambini con disabilità in Tanzania, dove la povertà e disumane credenze popolari hanno ridotto a un inferno la vita di queste persone considerate “scarti”.
È di loro che si occupa il progetto “No One Left Behind” realizzato da IBO Italia, e presentato nella sede di via Boschetto a Ferrara nel pomeriggio dello scorso 11 ottobre, alla presenza di una delegazione di sei tanzaniani coinvolti nel progetto. Progetto (finanziato anche grazie all’8×1000 alla Chiesa Cattolica) che ha come obiettivo il rispetto dei loro diritti e la loro accessibilità ai servizi delle scuole primarie (6-13 anni) e riabilitativi nel distretto di Iringa, nel Paese dell’Africa orientale celebre, soprattutto, per il Kilimangiaro e l’isola di Zanzibar. Area con oltre 400mila abitanti (più della metà sotto i 19 anni) che comprende una zona urbana e una rurale (dove vive il 78% della popolazione), a dieci ore di macchina dalla costa e dalla capitale Dar es Salaam. Ben il 7,8% dell’intera popolazione ha una disabilità, il 3% della popolazione in età scolare, di cui la maggior parte è esclusa dai servizi scolastici.
Dopo i saluti dell’Assessora del Comune di Ferrara Dorota Kusiak, Federica Gruppioni e Paola Ghezzi hanno presentato il progetto coordinato da quest’ultima, scritto e presentato all’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo nel 2018 e approvato e avviato l’anno successivo. La pandemia, naturalmente, lo ha rallentato, ma non fermato. La conclusione è prevista ad aprile 2023.
Il contesto di povertà
I volontari di IBO si trovano ad operare in un contesto in cui, soprattutto nei villaggi, le persone non accettano la disabilità. In passato, ma ancora in parte oggi, in Tanzania una famiglia è rispettata solo se ricca e con tanti figli, quest’ultimi sinonimo, secondo questa mentalità, di ulteriori guadagni, braccia in più per lavorare. Se queste “braccia” non sono abili a svolgere determinate mansioni, vengono considerate “maledette”: la persona disabile è considerata inutile, e quindi va emarginata. A ciò si sovrappongono elementi di superstizione, come la credenza che il malocchio di vicini o famigliari fosse la causa della disabilità. I bambini, quindi, fino a non molti anni fa erano nascosti dalle famiglie. Erano come invisibili, quando non venivano soppressi, com’era in uso nella tribù Masai, dove le famiglie, dopo aver ucciso il bambino, cambiavano anche casa. In altri casi, i bambini venivano abbandonati nei boschi, facili prede di bestie feroci.
C’è voluto tempo, quindi, perché molte famiglie non considerassero inutile portare i propri bambini con disabilità a scuola. Ora, per legge, tutte le scuole devono accettare questi piccoli. Ma, come sempre, la legge è necessaria ma non sufficiente: tocca alle persone e alle comunità renderla concreta.
Le fasi del progetto
Questo contesto, com’è normale, portava a una totale impreparazione di insegnanti, presidi e personale scolastico sul tema dell’inclusione di queste bambine e bambini, oltre ad ambienti di studio non accessibili.
Il progetto “No One Left Behind” si svolge in tre fasi. Innanzitutto, quella della formazione dello staff scolastico, già conclusa: ad oggi, sono stati formati circa 150 insegnanti, con corsi settimanali di base e successivamente un periodo di formazione nelle scuole. Secondo, l’abbattimento delle barriere architettoniche e la costruzione di ambienti per questi ragazzi, come il dormitorio per bambine e ragazze nella scuola primaria di Kipera, prima costrette a dormire in letti a castello montati nelle classi. Infine, la campagna di sensibilizzazione per genitori con bimbi con disabilità e per l’intera collettività.
Gli attori: i sei tanzaniani in visita a Ferrara
Presenti in Italia per la visita-studio dall’8 al 21 ottobre, sei protagonisti (tre donne e tre uomini) di questo progetto, tutti provenienti dal Distretto rurale o da quello urbano di Iringa: Peter Edmond Fussi, Responsabile dell’istruzione del Consiglio distrettuale di Iringa, che comprende 158 scuole primarie, di cui 5 private, per un totale di 74064 studenti; Wilfred Makaranga Mattu, Responsabile dell’istruzione per studenti con bisogni speciali, con 441 bimbi disabili delle primarie coinvolti, e 53 nelle secondarie; Faines Seti Mteleka, Dirigente scolastica della scuola primaria di Kipera, che accoglie 683 studenti, di cui 97 con disabilità fisica, cognitiva o di altro tipo; Esther Charles Mtendeule, insegnante per studenti con bisogni speciali nella primaria di Tanangozi, con 856 ragazzi, di cui 25 con disabilità; Mary Aidano Semaganga, insegnante per studenti con bisogni speciali nella primaria di Sabasaba, con 500 studenti, di cui 80 disabili, seguiti da appena 4 insegnanti; Adam John Duma, Direttore dell’Associazione Nyumba ALI a Iringa: «dal 2006 – ha spiegato – abbiamo aperto tre centri diurni per la riabilitazione fisica di bambini con disabilità e per bimbi con disabilità gravi, che quindi non possono essere accolti nelle scuole pubbliche. Uno dei ragazzi che abbiamo seguito, tetraplegico, ora è iscritto a Giurisprudenza».
Fra le altre tappe della visita-studio in Italia, una mattina all’Istituto Vergani Navarra, alla scuola Neruda, alla primaria di San Martino, per poi gli ultimi giorni trascorrerli a Roma, con anche una visita in Vaticano.
I partner
Assieme a Nyumba ALI ha collaborato anche l’Università di Ferrara, uno dei partner del progetto. Alfredo Alietti, docente di UniFe e Direttore del Centro di Cooperazione Internazionale dell’Ateneo estense (nato lo scorso luglio), ha spiegato la ricerca svolta nel contesto urbano, dal titolo “Welfare educativo, disabilità e rapporto scuola-famiglia nei distretti urbani di Iringa”, che verrà pubblicata a breve: «abbiamo costruito un questionario poi sottoposto a genitori con figli disabili nelle scuole di Sabasaba e Ipogolo, per sapere quali difficoltà vivono e anche gli aspetti positivi. Successivamente, abbiamo svolto incontri con genitori di bimbi disabili». Questa ricerca sarà una parte di una più ampia che comprenderà anche le zone rurali e altri capitoli.
Caterina Arciprete del Laboratorio ARCO dell’Università di Prato e di quella di Firenze, altro partner, ha spiegato il loro impegno per svolgere una cosiddetta ricerca emancipatoria, svolta cioè da alcuni ragazzi disabili recatisi da 120 famiglie con bimbi disabili, in zone rurali, per capire i loro bisogni. Assieme a questo, ARCO ha promosso un’importante campagna di sensibilizzazione con manifesti, messaggi in radio e spettacoli teatrali.
A seguire, è intervenuto Luigi Rosso, Responsabile di un altro partner, la Cooperativa “La Città Verde” di Pieve di Cento.
Mage, Vicky e Ageni: tre ragazze-speranza
Bruna Fergnani, Presidente di Nyumba ALI, fondata col marito Lucio e altre persone, ha preso la parola per raccontare il loro impegno in Tanzania e la situazione nel Paese. Sono 230 i bambini con paralisi cerebrali negli anni accolti nei centri di Nyumba ALI ad Iringa, senza contare tutti gli altri.
La storia della loro famiglia è grande fonte di speranza. Bruna e Lucio hanno tre figlie adottive: nel 2003 sul ciglio di una strada in periferia, lei e il marito incontrano Mage, bambina orfana affetta da un ritardo mentale e da qualche problema di deambulazione. Tre anni dopo nasce l’associazione e la casa famiglia costruita per accogliere la ragazza. A lei, nel 2007 si aggiunge Vicky che, svegliatasi dal coma, «vive ora in un mondo tutto suo, troppo bello per essere visto e ancor più per essere capito», scrive Bruna. Poco dopo arriva Ageni, costretta su una sedia a rotelle dagli effetti devastanti della tubercolosi ossea. Ageni, laureata all’Università di Bologna in Tecniche di laboratorio biomedico, nel 2021 è stata assunta dall’ASL di Ferrara per le analisi Covid nell’Ospedale del Delta.
Una delle tante storie di riscatto, rese possibili grazie a chi non ha considerato “scarti” queste persone.
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 ottobre 2022
Si chiama “La Scuola come scelta” il docu-film di Alejandro Ventura girato all’Arginone grazie al CPIA di Ferrara
di Andrea Musacci
Il desiderio di riscatto attraverso una nuova comprensione di sé e del mondo. È questa la molla che spinge ogni anno tante persone detenute nella Casa Circondariale “C. Satta” di Ferrara a partecipare alla scuola dentro il carcere gestita dal CPIA (Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti) di Ferrara.
Questa appassionante esperienza è stata raccontata nel docu-film “La Scuola come scelta” – diretto da Alejandro Ventura – e a cura di Marzia Marchi, docente in carcere – in occasione dei dieci anni del CPIA. La pellicola è stata presentata in anteprima a Bologna, in occasione della 6^ edizione di Fierida (13-15 ottobre), la più importante manifestazione sull’Istruzione degli Adulti del nostro Paese, nella quale è intervenuto il dirigente del CPIA ferrarese Fabio Muzi. Il docu-film sarà proiettato in carcere e a disposizione delle scuole e di iniziative di promozione culturali. Dal 13 al 15 ottobre si è celebrato il decennale dell’emanazione del Regolamento che riorganizza il sistema di Istruzione degli Adulti (DPR 263/2012), la legge 92/2012 che istituisce il sistema nazionale dell’apprendimento permanente e la nascita della rete nazionale dei CPIA, la RIDAP.
La scuola in carcere
La scuola all’interno del carcere esiste da molto tempo: la Legge n. 503 del 1958 ha istituito le Scuole carcerarie elementari, ma anche durante il fascismo, un Regolamento del 1931 prevedeva l’obbligatorietà di corsi d’istruzione elementare per i detenuti.
I CPIA, istituiti appunto dieci anni fa, nel 2012, a Ferrara esistono dall’a. s. 2015-2016. Prima si chiamava CTP ed era la Sezione adulti di un Istituto comprensivo. Ogni anno il CPIA di Ferrara certifica in lingua italiana al livello A2 circa 5 persone che poi proseguono il percorso scolastico, per un numero di 10-15 detenuti-studenti ogni anno.
Essere docenti all’Arginone
Abbiamo avuto la possibilità di vedere in anteprima il bel docu-film realizzato da Ventura nel carcere di via Arginone. Un’emozionante testimonianza dell’importanza dell’incontro come possibilità di crescita per tutti, docenti e studenti. Partiamo dai docenti.
Marzia Marchi, dopo 20 anni di insegnamento nella scuola primaria, 7 anni fa ha iniziato a insegnare alfabetizzazione in lingua italiana agli stranieri in carcere e nella scuola serale. «Sfida importante», dice, perché la persona che viene a scuola in carcere «si mette in una condizione di evidenza del proprio fallimento, delle proprie difficoltà. Cerco sempre di entrare in carcere col sorriso per portare una leggerezza e aumentare l’efficacia dell’insegnamento: devo motivarli perché desiderino scendere in classe anche la mattina successiva». Oltre al raggiungimento del titolo di studio, la scuola anche qui serve per «possedere le parole per interpretare la società in cui hanno vissuto in maniera sbagliata», «quindi cerco di dare loro una chiave di accesso per comprendere il mondo».
«La scuola in carcere è occasione di dialogo», spiega Irene Fioresi, un’altra insegnante. «La classe è uno spazio sociale ma anche di silenzio per gli studenti per riflettere su sé stessi. Anche per me ogni giorno è una sfida e mi permette di interrogarmi sulla mia stessa posizione nella società».
Carlo Tassinari, invece, è docente di cucina dall’IIS Vergani-Navarra. «La scuola in carcere – spiega – è occasione di riscatto dopo una sconfitta, un rimettersi in discussione, per vedere davanti a sé nuove possibilità». Dal Vergani viene anche Alessandra Gunalachi: «per un’insegnante quella nella Casa Circondariale è un’esperienza molto gratificante. I miei studenti-detenuti li ho sempre trattati come i miei studenti fuori, e quindi vi è un rapporto di reciproco rispetto e fiducia».
Le voci dei detenuti
Kelmen è un detenuto-studente: «ho una pena lunga, e frequentare la scuola mi ha ricordato la mia infanzia, le mie radici. Da piccolo non ho avuto la possibilità di frequentarla ma mi sono reso conto che la scuola ci insegna valori veri, e di poter migliorare la nostra vita e quella della società».
Dopo Stephen, fra i detenuti interviene anche Asiruwa, nigeriano: «studiando, puoi conoscere i tuoi diritti. Ora sono felice. Voglio essere un bravo ragazzo quando uscirò da qui, vorrei diventare un politico nel mio Paese».
Per Gianni la scuola in carcere, invece, è «uno scambio culturale. Più studi più hai voglia di imparare. Consiglio a tutti di frequentare la scuola qui in carcere. Non è mai troppo tardi».
Infine, nel video, oltre a due testimonianze di stranieri che frequentano i corsi serali del CPIA – Joelle e Amadou -, vi è anche il racconto personale di un ex detenuto: «la scuola in carcere è stata una grande opportunità per essere, una volta uscito, inserito nella società. Fra noi detenuti facevamo a gara a chi imparava di più».
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 21 ottobre 2022
È da poco uscito il nuovo volume di Lucia Vantini, presidente del Coordinamento Teologhe Italiane, con un contributo introduttivo della biblista ferrarese Silvia Zanconato
È possibile educare al desiderio, per sua natura libero e soggettivo? E qual è il “giusto equilibrio” tra spregiudicatezza e imprevisto e, dall’altra, bisogno di una stella polare che orienti?
Sono alcune domande sorte spontaneamente in chi scrive leggendo l’ultimo interessante testo di Lucia Vantini, “Educazione” (In Dialogo, 2022, collana “Agape”). L’autrice, presidente del Coordinamento Teologhe Italiane (CTI), nonché docente di teologia e antropologia, affronta in maniera empatica e non superficiale il delicato tema dell’educazione, non riducendolo a facili, o freddi, suggerimenti manualistici.
Nel fare ciò, si fa “aiutare” dalla collega Silvia Zanconato, biblista e docente ferrarese (insegna religione al Liceo Ariosto e alla Scuola di teologia diocesana “Laura Vincenzi”).
Quella donna che educò il Maestro
Quest’ultima, infatti, nel contributo introduttivo presente nel volume, analizza una vicenda particolare di “educazione”, quella dell’incontro di Gesù con la donna greca, di origine siro-fenicia, nella regione di Tiro e di Sidone (Mc 7,24-31). Dalla supplica di lei di scacciare il demonio dalla figlia, inizia un breve ma spiazzante botta e risposta fra i due: «”Lascia prima che si sfamino i figli; non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini”. Ma essa replicò: “Sì, Signore, ma anche i cagnolini sotto la tavola mangiano delle briciole dei figli”. Allora le disse: “Per questa tua parola va’, il demonio è uscito da tua figlia”».
Parole dure, incomprensibili e apparentemente senza giustificazione, quelle di Gesù, nemmeno ipotizzando, come prova a fare Zanconato, che la donna, per le sue origini, fosse una “privilegiata”, abitante in una zona di potere e di forti ingiustizie. Anche considerando questo aspetto, scrive la stessa biblista, «il disagio per la veemenza di una tale reazione non si dissolve completamente». In ogni caso, è innegabile come siano «le abilità retoriche della donna e la sua prontezza di linguaggio al centro, non l’autorità di Gesù. Ed è lei, la siro-fenicia, l’unica persona ad avere la meglio su Gesù in una disputa, l’unica in tutta la tradizione sinottica». Una donna capace di trasformare il “gettare il pane” che sembra riferito a cani famelici, in un’immagine domestica di «cagnolini sotto la tavola».
Sembra, insomma, prosegue Zanconato, «che sia il Maestro a imparare una lezione», a cambiare idea, da questa «insospettabile maestra». «Abituato ad avere la meglio, diversamente da altre occasioni, Gesù esce sconfitto da uno confronto verbale, colpito dalla logica della donna a tal punto da modificare la sua posizione».
Gesù, quindi, viene “educato” dall’imprevisto, da questa visita inattesa che «lo porta altrove, lo estrae imprimendo alla sua strategia missionaria una nuova missione». «Dopo questo incontro Gesù – scrive ancora Zanconato – sembra ritrovare nuova sicurezza, come se questa donna, che “da fuori” lo ha raggiunto forzando la sua chiusura, gli abbia fatto dono di un orizzonte ampio, cogliendo forse più acutamente il potenziale del regno che Gesù proclamava».
Quel desiderio che spalanca la vita
Quell’altrove mai del tutto definibile, quei nuovi orizzonti che l’altro ci spalanca, sono ciò che rende possibile una vera “educazione”. Non si tratta, per Vantini, tanto di un atteggiamento maieutico, che dovrebbe “tirar fuori” (come suggerirebbe l’etimologia) una vocazione, un’identità, qualcosa di prestabilito, di già deciso. Al centro, invece, vi sono sempre la libertà e l’imprevisto, la creatività generatrice. Educare, scrive l’autrice, «non sopporta alcuna rigidità ma esige comunque fermezza», e questa si gioca «soprattutto nell’accettazione di involontari sconfinamenti in territori sconosciuti e incerti, senza tuttavia mai smarrire l’ostinazione per la fioritura della vita».
Gli «sconfinamenti liberi» di cui parla Vantini sembrano ancora più “incoscienti” nell’epoca del crollo di tante certezze e di tante sicurezze. Ma l’ansia e il disorientamento che possono nascere, pur non dovendo mai mancare una bussola, possono essere affrontati con la solidarietà, cioè col riconoscimento, «l’interpretazione» e la «narrazione» delle fragilità di ognuno, a partire dalle proprie. Lavoro di consapevolezza, questo, che passa inevitabilmente dal corpo, luogo dove «si incontrano la necessità e la libertà del soggetto, in una tensione che domanda di riconoscere e obbedire al dato biologico e alla sua espressività. Ma anche di interpretarlo e di personalizzarlo. L’attuale rimozione dei corpi non aiuta a fare questo lavoro simbolico».
Ma ciò che spalanca il soggetto è il desiderio dell’Altro, «quel varco che mantiene gli esseri umani aperti e ancorati al mondo, e che consente loro di coinvolgersi personalmente in ciò che accade». Desiderio che, per Vantini, «è sempre epifanico: rivela chi siamo perché rivela ciò che ci sta a cuore». Ma perché il desiderio non si riduca a piccole e misere soddisfazioni, non sia «degradato» ma profondo e complesso, bisogna che l’educazione «punti alla dimensione spirituale», cercando una tensione positiva fra il bisogno di radicamento e quello di fecondità. Solo da questi due elementi può nascere una speranza fondata. Speranza che – com’è inevitabile – recherà quei tratti “assurdi” di chi pretende di creare disordine rispetto al già noto, al già detto. Un’impudenza da non reprimere, generatrice, come nel caso della donna greca che incontra Gesù, di sviluppi inattesi.
Andrea Musacci
Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 giugno 2022
Mi chiamo Andrea Musacci.
Da aprile 2014 sono Giornalista Pubblicista, iscritto all’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia-Romagna.
Sono redattore e inviato del settimanale "la Voce di Ferrara-Comacchio" (con cui collaboro dal 2014: http://lavoce.e-dicola.net/it/news - www.lavocediferrara.it), e collaboro con Filo Magazine, Periscopio e Avvenire.
In passato ho collaborato con La Nuova Ferrara, Listone mag e Caritas Ferrara-Comacchio.
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"L'unica cosa che conta è l'inquietudine divina delle anime inappagate."
(Emmanuel Mounier)