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Guerra Israele-Palestina, il card. Pizzaballa: «Contro la logica dell’odio puntiamo sui “risorti”»

7 Giu

In un mare di odio e diffidenza crescenti, non mancano tra ebrei, cristiani e musulmani i “ponti di pace”. Il Patriarca di Gerusalemme in collegamento col Santuario del Poggetto ha analizzato la drammatica situazione. Tra miseria, rabbia e speranza

di Andrea Musacci

Unire e riunire le persone, le comunità, i popoli. Cuori e collettivi dilaniati dal dolore, attraversati dall’odio e dal rancore. Ed essere ponte di pace, fonte di perdono senza tralasciare la giustizia, chiamando il male e i responsabili col loro nome. È questo il complicatissimo lavoro che spetta ogni giorno ai cristiani, in particolare a quelli in Terra Santa, che hanno nel card. Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme, una loro guida salda e autorevole.

Nel pomeriggio dello scorso 27 maggio, Pizzaballa si è collegato on line col Santuario del Poggetto, invitato dal Rettore (e suo amico: si veda la “Voce” del 9 maggio 2025) don Giuseppe Cervesi a parlare proprio della situazione in Terra Santa. All’incontro ha partecipato, ed è intervenuto, anche don Vasyl Verbitskyy, guida ferrarese dei fedeli cattolici ucraini di rito bizantino (v. a pag. 9).

ISRAELE DIVISO E IN CRISI ECONOMICA

«Israele è da sempre una società molto composita, vivace a livello culturale e dinamica», ha spiegato il card. Pizzaballa. In essa risiedono «cittadini provenienti da varie parti del mondo». Oggi, però, la differenza principale al suo interno «è tra ebrei religiosi ed ebrei non religiosi, anche se non è sempre facile fare questa distinzione». Da una parte vi è «il mondo nazionalsionista, che sta dando l’impronta all’attuale Governo», dall’altra «quello più liberale e secolare. Due idee di ebraismo e di Stato diverse»: una divisione, questa, che «dopo il 7 ottobre si è accentuata». Come detto, al Governo vi è una «destra sionista con caratteri religiosi, che vuole un Paese con una chiara identità ebraico-religiosa», e che su Gaza pensa che bisogna «continuare la guerra a tutti i costi, con l’obiettivo di distruggere Hamas, liberare la Striscia dai palestinesi e fare in modo che il 7 ottobre non si ripeta più». Mentre l’altra parte, quella “liberale”, «vuole riportare a casa tutti gli ostaggi e finire la guerra. Due sfumature tra loro abbastanza diverse», e con «ulteriori sfumature ognuna al proprio interno». Venendo all’economia, il card. Pizzaballa ha spiegato come «parte della forza lavoro è stata richiamata alle armi dopo il 7 ottobre e ciò ha avuto conseguenze enormi sulle famiglie, sul mondo dell’impresa e del lavoro. Di quest’ultimo aspetto se ne parla poco», ma «edilizia e turismo sono fermi, e impatti si hanno anche sull’hi tech». Inoltre, prima del 7 ottobre «tanti palestinesi della Cisgiordania andavano a lavorare in Israele, e ora molto meno», anche perché il 7 ottobre «ha fatto perdere in tanti israeliani liberali la fiducia nei palestinesi». 

LA SITUAZIONE A GAZA

«Il sud della Striscia è stato livellato dai bombardamenti israeliani e anche il centronord è stato distrutto nelle sue infrastrutture ed edifici pubblici»: così il card. Pizzaballa ha sintetizzato la situazione a Gaza. «Gran parte della popolazione non ha cibo, luce, acqua né assistenza, oltre il 90% della popolazione è sfollata. I bombardamenti sono continui, gran parte della Striscia oggi è occupata dalle forze israeliane. Le scuole sono usate come rifugio e molte famiglie vivono nelle tende all’aperto». Venendo alla possibile efficacia della guerra, il cardinale ha spiegato che «Hamas come struttura militare è stata sì in gran parte decimata ma Hamas è di più, è un movimento e un’ideologia e quindi le linee arretrate son diventate quelle avanzate. Questa guerra ha causato un bacino di odio enorme negli abitanti di Gaza, e quindi tanti nuovi potenziali militanti per Hamas». Inoltre, «la maggior parte degli ostaggi è morta» ed «è molto difficile prevedere la fine della guerra».

I CRISTIANI A GAZA E CISGIORDANIA

«Sono 500 i cristiani rimasti a Gaza, cattolici e ortodossi, tutti asserragliati in parrocchia», con 6 religiosi della Famiglia religiosa del Verbo Incarnato (tre sacerdoti e tre suore), oltre a 4 Missionarie della Carità (l’ordine di Madre Teresa di Calcutta). La comunità comprende anche «una struttura per disabili gravi, in gran parte musulmani». 

«Per tenere occupati i bambini – ha proseguito Pizzaballa – facciamo qualche attività in oratorio a a scuola. Abbiamo riserve di cibo, ma stanno finendo: entro 2 settimane dobbiamo trovare una soluzione. Ad oggi nessuno può entrare al nord della Striscia». Inoltre, nella struttura «c’è un’unica cucina per tutti, con un forno a legna», legna che «prendiamo dalle case distrutte. Si cucina 1-2 volte alla settimana. Da mesi non vediamo frutta e verdura». Nonostante tutto, una nota positiva: delle 500 persone cristiane lì residenti, 100 sono bambini, 3 dei quali nati dopo il 7 ottobre 2023: insomma, «la vita nasce ancora».

Per quanto riguarda, invece, la Cisgiordania, «abbiamo una 30ina di parrocchie: i preti mi chiamano continuamente dicendo che alcuni coloni israeliani sono sempre più aggressivi, saccheggiando sempre più i contadini palestinesi: non sappiamo cosa fare, a chi chiedere giustizia, l’Autorità Nazionale Palestinese è debole e quella israeliana non interviene. Lì la situazione è disastrosa: non ci sono più pellegrini dall’estero e non è più possibile andare a lavorare in Israele». Come comunità cattolica – prosegue – stiamo cercando di inventarci piccoli lavoretti per aiutare la popolazione».

7 OTTOBRE 2023: EFFETTI DURATURI

Il card. Pizzaballa ha poi tenuto a ricordare come la guerra in corso sia solo l’ultima di un ben più storico conflitto israelo-palestinese. «Viviamo uno dei momenti più difficili qui», ha aggiunto. «Il 7 ottobre ha segnato in maniera profonda la vita di Israele: c’è un pre e un post 7 ottobre, non si tornerà più a come si era prima di quell’orribile strage che ha prodotto circa 1200 vittime, con 250 persone prese in ostaggio. Uno shock tremendo per Israele, nato per dare una casa agli ebrei, e una casa che fosse sicura». E, aspetto di cui si parla poco, «la maggior parte delle persone uccise o sequestrate quel 7 ottobre erano di sinistra, pacifiste, che quindi si son sentite tradite dai palestinesi». Per quanto riguarda quest’ultimi, «alcuni di loro giudicano il 7 ottobre una necessità, altri una strage causata dalle ingiustizie che vivono fin dal 1948. Prima del 7 ottobre – ha proseguito il Patriarca -, per molti di loro la questione palestinese era dimenticata, ed era iniziata una normalizzazione fra i Paesi arabi e Israele». Per Hamas e il resto dell’estremismo palestinese era quindi «fondamentale fermare questo processo di normalizzazione e riportare l’attenzione sulla questione palestinese».

Il 7 ottobre ha dunque «creato un solco profondo tra israeliani e palestinesi: l’odio e il disprezzo sono enormi, la sfiducia reciproca segna in maniera profonda, ma spero almeno non sia irreversibile, anche se sicuramente ci sarà per molto tempo». Ciò è evidente soprattutto «nel linguaggio, nelle espressioni di disumanizzazione dell’altro, anche nei media». E anche il dialogo interreligioso non va molto bene: «molti ebrei pensano che i cristiani non abbiano condannato abbastanza il 7 ottobre», mentre i palestinesi «si sentono additati come conniventi» dei terroristi di quella strage. Per il card. Pizzaballa «è anche difficile capire le conseguenze politiche» di questa situazione, com’è difficile «negoziare se non si hanno obiettivi precisi: tutto ciò crea una forte sensazione di sospensione e incertezza».

QUALI POSSIBILI VIE D’USCITA?

Un’analisi realistica, dunque, quella di Pizzaballa. Di quel realismo che un cristiano non può non avere, unita alla Speranza nelle persone: «oggi parlare di fiducia, di futuro sembra – a molti – parlare di aria fritta. Dare concretezza a questa verità di fede e di vita non è per nulla semplice». Com’è difficile «essere una voce libera, capace di dire la verità senza diventare parte del conflitto: non posso e non voglio essere né la voce dei palestinesi né degli israeliani, ma solo della Chiesa». Chiesa che «deve diventare la voce dell’intera comunità e del suo dolore», affinché «non cada nella facile tentazione dell’odio e della violenza», ma «impari ad ascoltare il dolore dell’altro». Dire la verità vuol dire sia essere «voce di condanna» sia «aprire orizzonti: nessuno ha il monopolio del dolore». 

A una domanda precisa di don Cervesi sul Santo Padre, il card. Pizzaballa ha poi risposto spiegando come «ora non ci sono le condizioni perché venga in Terra Santa», ma «prima o poi verrà». Diplomazia e dialogo sono ciò che serve, ma «i Paesi arabi mi sembrano più impegnati a pensare a cosa ci sarà dopo la guerra piuttosto che a pensare a come farla finire». Insomma, per ora «non si vede una via d’uscita: ci vorrebbe una leadership religiosa e una politica, ora assenti», e ci vorrebbe «un perdono che non dimentichi la giustizia, che quindi a livello collettivo chiami il male e le responsabilità coi loro nomi».

Per Pizzaballa è dunque necessario «costruire una solida narrazione alternativa, basata sulle Scritture e sulla storia, e che considera l’altro» e le sue ragioni. In questo, i cristiani «possono rivestire un ruolo molto importante, proprio perché sono “deboli”, cioè non sono una potenza. Ci sono tanti esempi, anche in questo contesto, di persone che sanno amare, che rifiutano la logica dell’odio; e non vi sono solo tra i cristiani, ma anche tra gli ebrei e i musulmani. Io li chiamo i “risorti”».

***


Ebrei, musulmani, cristiani: i numeri

In Israele sono ca. 7,5 milioni gli ebrei, 1,5 milioni gli arabi musulmani e 130mila gli arabi cristiani. E 100mila i lavoratori stranieri: tra le vittime del 7 ottobre, vi erano, infatti, anche indonesiani e filippini. Sono invece ca. 5 milioni i palestinesi, di cui 2 milioni a Gaza. Infine, a Gerusalemme vi sono 6-700mila ebrei, 300mila musulmani e 10mila cristiani.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 giugno 2025

Abbònati qui!

«Guardare con gli occhi di Dio»: padre Puccini dal Libano a Ferrara

6 Nov

Scuola, mensa e centro sanitario per aiutare i poveri a 15 km dalle bombe: il racconto del missionario nella nostra città

L’indimenticato Fabrizio De Andrè nella sua canzone “Khorakhanè (A forza di essere vento)”, dedicato al popolo Rom, parlava dell’importanza di «raccogliere in bocca il punto di vista di Dio». La necessità, dunque, di uno sguardo altro, alto, difficilissimo da assumere ma decisivo per non soccombere al male.Ed è questo che ha provato anche a trasmettere padre Damiano Puccini, missionario a Damour in Libano, dove ha fondato e dirige l’Associazione “Oui Pour La Vie – OPV “. Padre Puccini è intervenuto la sera del 30 ottobre scorso – alla fine quindi, del Mese missionario – nella chiesa diS. Maria della Consolazione, invitato da don Francesco Viali, parroco di Santo Spirito (la Consolazione fa parte della stessa Zona pastorale) e in collaborazione con la vicina parrocchia del Perpetuo Soccorso, guidata da don Roberto Solera e dal vicario don Nicola Gottardi.

CONVIVERE OLTRE I CONFLITTI

Giovanni Paolo II nel 1989 nel suo Messaggio al Libano, lo definì «un esempio di coesistenza pacifica dei suoi cittadini, sia cristiani che musulmani, sul fondamento dell’eguaglianza dei diritti e del rispetto dei principi di una convivenza democratica». E ancora, riguardo invece allo specifico della posizione di grave conflitto come quello che continua a perpetuarsi in Medio Oriente, padre Puccini ha più volte citato il Patriarca di Gerusalemme, card. Pizzaballa, e la sua premura nel sottolineare più volte come «il cristiano non si schiera con l’una o l’altra parte», non per pavidità o indifferenza ma perché «se lo facesse si metterebbe automaticamente contro qualcun altro».

«Dobbiamo imparare ad ascoltare la sofferenza», ha proseguito padre Puccini sempr56e citando il card.Pizzaballa. «Un bambino che muore è sempre una cosa ingiusta, al di là della sua nazionalità. Questo è il primo grande insegnamento, da non dimenticare mai», concetto espresso dal Patriarca anche nell’intervento in diretta dalle Clarisse di Ferrara lo scorso 1° marzo. 

Come cristiani, quindi, «dobbiamo stare nel mezzo e comprendere che per Israele il pogrom del 7 ottobre 2023 è il loro 11 settembre negli USA; dall’altra parte, quella palestinese, la nakba, il grande esodo è una ferita sempre aperta. Purtroppo, israeliani e palestinesi non riescono a intendersi nemmeno sul dolore». Per padre Puccini è dunque compito non solo dei cristiani ma «dell’Occidente non schierarsi con una parte o l’altra: l’Occidente, anzi, dovrebbe reinsegnarci a stare assieme». 

Il Libano, come detto in apertura citando San Giovanni Paolo II, può essere «un modello positivo: basti pensare al suo Parlamento, alle sue alte cariche dello Stato e ruoli nella pubblica amministrazione, assegnati equamente a cristiani, sciiti e sunniti».

FRATELLI E SORELLE NELLA SOFFERENZA E NELLA GIOIA

La missione di padre Damiano – come accennato – si trova a Damour, a metà strada tra Beirut e Sidone; una città a maggioranza cristiana e tristemente famosa per una strage nel ’76 causata dal  Movimento Nazionale Libanese con la collaborazione dell’OLP. «Qui – a 15 km dai bombardamenti – siamo l’ultima comunità cristiana rimasta», ha proseguito il missionario.«Ma la maggior parte dei media parla solo dei conflitti in corso, mentre vi sono anche tante relazioni positive, un equilibrio, una convivenza tra cristiani maroniti (che sono cattolici, ndr), ortodossi, drusi, musulmani sciiti e sunniti. Ogni morto ammazzato, fosse anche un capo di Hezbollah, è una ferita nel cuore di ogni libanese». Bisogna dunque «guardare sempre le cose col cuore, cioè con gli occhi di Dio. Noi cristiani, quindi, preghiamo il Signore che ci aiuti a non rispondere mai alla violenza con la violenza». Si tratta, quindi, per padre Damiano, oltre che di stare in mezzo, anche «di stare al di sopra» delle faide. «La nostra missione di “Oui Pour La Vie” ha realizzato a Damour una scuola, una cucina, un centro sanitario e una casa per malati di AIDS nella periferia di Beirut».Servizi più che mai necessari, soprattutto dall’inizio – 5 anni fa – della gravissima crisi economica nel Paese.

«Scopo ultimo della nostra missione – che continua ancora ora, nonostante tutto – è di far sentire che Dio c’è. Oltre a bimbi libanesi, ne ospitiamo anche di siriani e palestinesi e cerchiamo di usare con loro – e di insegnare loro – parole di amore, non di aggressione: così, cerchiamo di mostrare che Dio non li abbandona. Non è scontato – ha proseguito padre Damiano – che palestinesi e siriani, ora siano accomunati a noi come vittime, che soffrano assieme a noi: a volte, infatti, in alcuni libanesi vi è ancora la tentazione di vendicarsi dei torti passati». Ma in un mondo di forti contrapposizioni, «dobbiamo cercare di guardare come Gesù guarda ognuno dei suoi figli dalla Croce». La fede è questo, «vivere i rapporti col cuore, senza rabbia, col cuore di Gesù, quindi col sorriso.Siamo un’unica famiglia, tutti figli Suoi, fratelli e sorelle.Solo Gesù può farci sentire davvero così».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” dell’8 novembre 2024

Abbònati qui!

Terra d’Israele, terra nostra, stuprata da chi vuole distruggerla

10 Ott

700 morti, 2500 feriti, 150 rapiti: sono i terribili dati dell’attacco senza precedenti del fondamentalismo islamico a Israele. Lo scenario, le storie delle vittime, alcune riflessioni

di Andrea Musacci

Lo scorso 1° settembre in Israele si sono riaperte le scuole. In totale, circa 2,5 milioni gli studenti rientrati in classe. Cosa c’entra, direte voi, con quello che sta succedendo?  C’entra perché ad essere stata violentata e rapita dai terroristi di Hamas e della Jihad Islamica è la realtà quotidiana di uno Stato che dal 1948 cerca di vivere in pace, di progredire e di tutelare ogni libertà e diritto personale e collettivo, come avviene in qualsiasi comunità democratica e costituzionale.

E invece l’inferno si è scatenato nella terra di Davide e Salomone: le vittime dei raid di Hamas, comprese le 260 del terribile massacro del rave party israeliano (il Nova Music Festival) alla frontiera con Gaza per celebrare la festa di Sukkot, mentre scriviamo (lunedì 9) sono arrivate ad oltre 700. Dei circa 2.500 feriti, molti sono gravi. E all’appello mancano ancora in centinaia, molti dei quali rapiti (si pensa 750) e portati nel gorgo di Gaza e spartiti, come merce, tra Hamas, Jihad islamica e Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Tel Aviv e Gerusalemme appaiano città fantasma, con la popolazione barricata in casa. Sull’altro versante, quello di Gaza, i morti sotto gli attacchi necessari dell’aviazione israeliana sono arrivati ad oltre 436 tra civili e miliziani, con 2.270 feriti. Prima di qualsiasi azione di terra, l’esercito israeliano deve infatti liquidare le sacche di resistenza al confine con la Striscia, dove sono ancora in corso scontri tra miliziani di Hamas e soldati. A inizio settimana una colonna di tank israeliani è diretta verso Gaza: secondo il Washington Post gli USA si attendono un’ampia operazione via terra contro Hamas a Gaza entro questo mercoledì. E ancora sei località nel sud di Israele vicino alla frontiera sono teatro di combattimenti con i miliziani di Hamas, ha dichiarato Daniel Hagari, portavoce delle Forze di difesa israeliane, nominando le località di Beeri, Kfar Aza, Nirim e Alumim. «I miliziani – ha aggiunto – hanno varcato la linea di confine non solo la sera dell’attacco ma anche negli ultimi due giorni». 

STORIE DI VITE RAPITE

«Una voce si ode da Rama,

lamento e pianto amaro:

Rachele piange i suoi figli,

rifiuta d’essere consolata perché non sono più».

Dice il Signore:

«Trattieni la voce dal pianto,

i tuoi occhi dal versare lacrime,

perché c’è un compenso per le tue pene;

essi torneranno dal paese nemico» 

(Geremia 31, 15)

Tanti i video, le foto, i racconti di giovani, bambini, anziani, famiglie intere sterminate dalla furia islamista di tagliagole senza scrupoli, sostenuti in ogni modo (non solo economicamente) dall’Iran e dalla libanese Hezbollah, oltre che da parte dell’universo islamico a livello globale e da una fetta dell’opinione pubblica occidentale.

C’è la storia di Yoni Asher che ha denunciato l’irruzione di Hamas sabato sera mentre sua moglie, insieme alle due figlie Aviv e Raz, di 3 e 5 anni, erano in casa della suocera, nel Kibbutz Nir Oz. Grazie al servizio di geolocalizzazione del telefono della donna, Yoni è riuscito a rintracciare lo smartphone a Khan Younis, città a sud di Gaza, avendo così conferma della condizione della donna. Tra le denunce relative ai tanti rapiti dal rave sopracitato, tenutosi al Kibbutz Reim, vicino al confine con Gaza, c’è quella relativa a Noa Argamani, 25enne apparsa in un filmato in cui viene portata via su una moto dai miliziani di Hamas durante l’evento. La si vede mentre implora per la sua vita: «Non uccidermi! No, no, no», grida spaventata; a due passi il suo fidanzato tenuto stretto da due terroristi. Dalla medesima festa risulta disperso anche un cittadino britannico di 26 anni, Jake Marlowe, mentre il suo connazionale, il londinese Nathanel Young, 20 anni, è stato ucciso mentre, militare, era addetto alla sicurezza del rave. 

C’è poi una giovane israelo-tedesca, Shani Louk, la cui madre ha chiesto la liberazione in un disperato video apparso sui social. E proprio un orribile video ha fatto conoscere la sua vicenda: un gruppo di sudici criminali di Hamas tengono il suo corpo sotto le gambe nel retro di un pick up. La giovane è distesa a faccia in giù, incosciente, seminuda, le gambe orribilmente spezzate. Un uomo la tiene per i capelli, come una bestia appena cacciata, un giovane le sputa addosso. Tutti urlano “Allah Akbar”.

Poi c’è la storia di un’intera famiglia, le cui sorti sono apparse in un video condiviso dalla giornalista di Ynetnews Emily Schrader, composta da marito, moglie e due bambini che si vede seduta a terra in casa, tenuta in ostaggio dai miliziani palestinesi. La figlia più grande è stata uccisa nell’irruzione di Hamas. «Volevo che vivesse, c’è la possibilità che torni?», ha domandato il fratellino piccolo alla mamma. E c’è Yaffa Adar, 85 anni, fondatrice di un kibbutz, ribattezzata la “nonna della coperta rosa” perché in un video la vediamo così mentre palestinesi la portano via su un veicolo dopo averla rapita. Ma il suo sguardo è quello del suo popolo: fermo, fiero, dignitoso.

In un altro video, un bimbo israeliano rapito (di nemmeno 10 anni) viene messo in mezzo a tre suoi coetanei palestinesi che lo bullizzano, spingendolo, prendendolo in giro, agitandogli un bastone vicino al viso. Un bullismo infantile frutto di una cultura radicalmente antisemita: secondo un rapporto commissionato dall’Unione Europea nel 2019, i libri di testo dell’Autorità Palestinese incoraggiano la violenza contro gli israeliani, il popolo ebraico e includono messaggi antisemiti.

NAZISTI ISLAMICI, NON “VITTIME DEL SIONISMO”

«Le violenze degli islamisti si sono esercitate essenzialmente contro i civili», scrive lo storico Claudio Vercelli su http://www.mosaico-cem.it, sito della Comunità ebraica milanese. «Non i militari (…) e neanche i “sionisti” o gli “israeliani” (…), bensì contro gli “ebrei”. Nella dottrina di Hamas, e nelle liturgie di comportamento che ne derivano, sono infatti questi ultimi ad essere odiati. Pochi giri di parole, al riguardo. Israele, di per sé, è inteso solo come un recente prodotto “ebraico” e non in quanto altro», prosegue. «Pertanto, quel che conta, è estirpare la “cattiva pianta” dell’ebraismo come tale. Soprattutto da Dar-al-Islam, la terra benedetta in quanto integralmente musulmana. Poiché da tutto ciò non potrà quindi derivare altro che non sia un’armonia universale, altrimenti inquinata – ed interrotta – dalla persistente presenza dei “giudei”. In tutta sincerità, è assai difficile non pensare che una tale impostazione mentale, prima ancora che ideologica, sia molto lontana da quella terrificante esperienza che, in Europa, e non solo, abbiamo conosciuto con il nome di “nazismo” (…). Non di meno, tuttavia, non esimiamoci dal bisogno di trovare un qualche precedente. Pertanto, il terrorismo islamista, in quanto movimento anche di massa, trova parte delle sue ispirazioni nel lascito, al medesimo tempo catacombale, demoniaco nonché messianico, del nazionalsocialismo. (…) Se le premesse sono queste – sono ancora parole di Vercelli -, Hamas non esercita una “resistenza palestinese all’occupante sionista” (così come altrimenti recita ad uso e consumo del pubblico non musulmano) bensì un Jihad, apertamente dichiarato nei confronti del resto del mondo: ovvero, un atto di purificazione, non troppo diverso, nella logica degli attuali protagonisti, da quello che animava coloro che intendevano, tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta, mettere mano definitiva alla «soluzione della questione ebraica».

«DIFENDERE ISRAELE È DIFENDERE OGNI DEMOCRAZIA»

«Ribadiamo con forza il diritto dello Stato di Israele di difendere il proprio territorio – definito sulla base di storici accordi internazionali e di pace – e la legittimazione ad attivarsi a tutti i livelli per sradicare questa minaccia che riguarda tutta la regione mediorientale e le democrazie di tutto il mondo». Così Noemi Di Segni, presidente UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) in un comunicato uscito l’8 ottobre. «I palestinesi hanno ricevuto tutta la Striscia di Gaza, così come altri territori, nella speranza che possano divenire luoghi di crescita e sviluppo per vivere a fianco al popolo di Israele ma a quanto vediamo accade esattamente il contrario: i leader palestinesi invece di coltivare frutti di pace per le future generazioni seminano odio e generano terrore con il sostegno di molti Paesi non solo arabi», prosegue Di Segni. «Questo è il risultato di chi mette fin dalla nascita un fucile in mano ai propri neonati anziché nutrirli di valori e amore per la vita propria e altrui. Di chi trasforma moschee, scuole, e aree residenziali in arsenali e centro di comando dell’odio. L’Ucei – sono ancora parole di Di Segni – chiede con forza che si sostenga il diritto di Israele ad esistere e a difendersi, arginando ogni tentativo di distorsione così tante volte subito anche nelle sedi europee e internazionali più rappresentative e dinanzi a qualsiasi foro internazionale. Non si tratta solo di un attacco terroristico, non è solo guerra sferrata contro inermi civili sotto migliaia di missili e fatti anche ostaggio, è un attacco alla civiltà».

Dalla Germania alla Francia e dagli Stati Uniti all’Italia, intanto, la polizia intensifica la protezione delle istituzioni ebraiche e israeliane. Il timore, oltre alla possibilità che il conflitto possa trasferirsi oltre i confini israeliani, è che possa scatenare una nuova ondata di antisemitismo a livello globale. Nel frattempo, gruppi filo-palestinesi negli Stati Uniti esultano e applaudono l’attacco terroristico di Hamas, pianificando manifestazioni di sostegno. In Germania, a Berlino-Neukölln, simpatizzanti di Hamas hanno distribuito baklava sulla Sonnenallee per festeggiare l’attacco a Israele. Sostegno, sui social, anche da simpatizzanti italiani.

«L’attacco contro Israele e la reazione che ne sta seguendo, con un’escalation inimmaginabile, destano dolore e grande preoccupazione. Esprimiamo vicinanza e solidarietà a tutti coloro che, ancora una volta, soffrono a causa della violenza e vivono nel terrore e nell’angoscia». Lo scrive in una nota la Presidenza della CEI, che chiede «il pronto rilascio degli ostaggi» e si appella «alla comunità internazionale perché compia ogni sforzo per placare gli animi e avviare finalmente un percorso di stabilità per l’intera regione, nel rispetto dei diritti umani fondamentali».

La Comunità Ebraica di Ferrara ha aperto il Tempio di via Mazzini la sera del 9 ottobre ai cittadini ebrei e ferraresi per pregare insieme per la pace, per la solidarietà al popolo di Israele e per la salvezza degli ostaggi.

Pubblicato sulla “Voce” del 13 ottobre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Guerra, pace e dignità: riflessioni a margine di un incontro sulla Pacem in terris

27 Set

Conferenza del Gramsci nel 60° dell’enciclica: ecco alcune criticità

Un importante momento di dialogo fra credenti e non credenti è stato rappresentato dalla conferenza “L’enciclica Pacem in terris e il laboratorio fiorentino” svoltasi lo scorso 22 settembre in Biblioteca Ariostea a Ferrara. Organizzata dall’Istituto Gramsci Ferrara all’interno del ciclo “Anatomia della pace”, è stata pensata in collaborazione con Isco Ferrara, CGIL Ferrara, Biblioteca Ariostea, Runipace e con il patrocinio di UniFe e Comune di Ferrara.

Ricorre quest’anno il 60° anniversario della pubblicazione dell’enciclica di San Giovanni XXIII, ultimo suo testo prima del ritorno alla Casa del Padre.

Nella relazione introduttiva, Alessandra Mambelli ha ripercorso brevemente le vicende di Pax Christi a Ferrara e i 30 anni di Convegni di “Teologia della pace” organizzati dallo stesso movimento, interrottisi nel 2019 (nella speranza che possano riprendere quanto prima). L’intervento principale è stato quello di Fiorenzo Baratelli (Istituto Gramsci Ferrara), il quale ha anche ricordato alcune figure del cattolicesimo fiorentino di quegli anni – Giorgio La Pira, padre Ernesto Balducci, Mario Gozzini e Gian Paolo Meucci.

TERRA E CIELO

«La Pacem in terris – ha riflettuto Baratelli – parla di un mondo da costruire, cercando di leggere i segni dei tempi e guardando lontano, con una sconvolgente attualità profetica». Cinque, secondo il relatore, gli ambiti “rivoluzionari” del testo. Il primo: il trattare «della terra, della carne, della storia», e non dell’aldilà. Concetto opinabile, questo, se riguarda una fede, come quella cristiana, nella quale da una parte l’Incarnazione è centrale – con tutto ciò che ne consegue – e, dall’altra parte, altrettanto imprescindibile è la consapevolezza che la pace che dobbiamo costruire qui e ora è sì una necessaria preparazione del Regno ma non sarà mai la Pace piena della Comunione con Dio. La stessa Pacem in Terris inizia così: «La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio». E nella parte finale (n. 90), Giovanni XXIII spiega come la costruzione della pace sulla terra è «impresa tanto nobile e alta, che le forze umane (…) non possono da sole portare a effetto», ma «è necessario l’aiuto dall’alto».

QUALE DIGNITÀ?

Secondo: il concetto di “dignità” che «lega tra loro pace e giustizia, pace e libertà».Concetto, per la Pacem in Terris centrale, ma che andrebbe letto in questi termini (n. 5): se «si considera la dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa apparirà incomparabilmente più grande» (corsivo nostro). Terzo: l’indicare nei «rapporti di dominio l’ostacolo principale alla realizzazione della pace e alla valorizzazione della dignità».E ancora: i cosiddetti «segni dei tempi», e l’importanza di «abbattere i muri distinguendo tra ideologie e movimenti reali». 

GUERRA GIUSTA/LEGITTIMA DIFESA

Da qui, le parole chiare dell’enciclica sul disarmo e sul «superamento – secondo Baratelli – del concetto di guerra giusta». Ma nella Gaudium et spes (n. 79), Costituzione fondamentaledel Concilio Vaticano II, è scritto: «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa». Ed è utile anche ricordare come nello stesso Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2309 si parli delle «strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente: che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare».

Venendo all’attualità, lo stesso Papa Francesco nel Messaggio in occasione del Convegno sulla Pacem in terris organizzato dall’Accademia delle Scienze Sociali, scrive: «La preoccupazione per le implicazioni morali della guerra nucleare non deve far passare in secondo piano i problemi etici sempre più urgenti sollevati dall’uso nella guerra contemporanea delle cosiddette “armi convenzionali”, che dovrebbero essere utilizzate soltanto a scopo difensivo e non dirette ad obiettivi civili».

Spunti utili per proseguire anche la riflessione sulla guerra d’invasione russa in Ucraina, cercando di non dimenticare chi è l’invasore e chi l’invaso, e come il primo rifiuti da oltre un anno e mezzo ogni accordo che non leda ulteriormente la dignità e la libertà del secondo.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 29 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

A Kiev insieme a Gandhi per progetti di pace

28 Nov

Mao Valpiana è intervenuto il 22 novembre a Casa Cini per raccontare le Carovane della pace

Al centro di Kiev, nel giardino botanico “Oasi della pace” svetta una statua del Mahatma Gandhi. Due mesi fa ai suoi piedi si sono ritrovati i pacifisti ucraini e quelli italiani per la Giornata mondiale della nonviolenza. È, questa, l’immagine simbolo di quello che i Movimenti nonviolenti stanno cercando di costruire al di là degli attori del conflitto russo-ucraino.

Ne ha parlato lo scorso 22 novembre a Casa Cini a Ferrara Mao Valpiana, Presidente del Movimento Nonviolento in Italia, invitato dal Collettivo 25 settembre e dal Movimento Nonviolento ferrarese in collaborazione con la Rete Pace di Ferrara, per l’incontro moderato da Elena Buccoliero (foto).

La tappa di Kiev è stata una delle due tappe della quarta, e finora ultima, Carovana della Pace (organizzate dalla rete “Stop the war now”) nel Paese vittima dell’invasione russa, Carovana partita il 26 settembre e ritornata il 3 ottobre scorso, con sei mezzi tra camper e pulmini dello stesso Movimento Nonviolento e di “Un ponte per”.

All’inizio le prime Carovane della pace avevano soprattutto uno scopo umanitario oltre a quello di portare in salvo persone fragili, donne e bambini in Italia (oltre 1000 grazie alle Carovane stesse). L’ultima “missione”, invece, «ne aveva anche uno più strettamente politico: quello, cioè, di rafforzare relazioni e organizzare progetti comuni assieme agli obiettori russi e a quelli ucraini, facendo anche da cerniera fra i due gruppi», ha spiegato Valpiana. Fra i progetti, quello di aprire un corso di studi sulla pace a Cernivci assieme a 200 universitari ucraini e a RuniPace, la rete italiana degli Atenei per la pace. Dopo Cernivci, la Carovana si è spostata a Kiev in treno, passando per Leopoli. Qui i nostri connazionali hanno incontrato l’Ambasciata italiana, la Nunziatura Apostolica di Kiev e altre realtà associative, fra cui appunto il Movimento degli obiettori. E a proposito di obiettori, Valpiana ha raccontato la storia di Ruslan Kotsaba, giornalista e presidente del Movimento pacifista ucraino, obiettore denunciato per “alto tradimento”, che per questo rischia 15 anni di carcere. Ma la sua lotta, almeno per ora, ha deciso di proseguirla fuori dall’Ucraina. Molto attivi, seppur minoritari, anche gli obiettori russi che aiutano chi vuole rinunciare alle armi a non cadere nelle trappole o a non essere vittime dei soprusi di chi dovrebbe garantire il minimo diritto all’obiezione di coscienza. E da Ghandi, dal quale è partito, Valpiana è arrivato al maestro italiano della nonviolenza, Aldo Capitini, la cui “Teoria della nonviolenza” è stata tradotta e distribuita in Ucraina proprio grazie al Movimento Nonviolento italiano.

Il Vescovo: legame fra guerra e migrazioni

«Costruire relazioni di pace, porre al centro il dialogo: questo è il tema centrale. Da questo è partito il nostro Arcivescovo nel suo intervento, nel quale ha anche ricordato, nei suoi viaggi, in passato, in Ucraina, «quei 20enni arruolati che andavano a morire nel Donbass, alcuni anche il primo giorno sul fronte».

Mons. Perego ha affrontato il tema della protezione umanitaria per chi fugge dalla guerra, dalla miseria, dalla non vivibilità del proprio ambiente. Protezione, ha denunciato, «spesso non utilizzata, nonostante i 34 conflitti nel mondo ufficialmente riconosciuti, altrettanti non riconosciuti, e i 50 milioni di migranti nel mondo nel 2021 per crisi ambientali». Anche riguardo ai rifugiati ucraini in questi primi 9 mesi di conflitto (1600 solo a Ferrara e provincia), mons. Perego ha fatto notare come l’accoglienza sia stata resa possibile «grazie alle Caritas, alle parrocchie, all’associazionismo, alle famiglie, ma non grazie allo Stato e ai Comuni, che non hanno messo a disposizione nemmeno un appartamento». Un tema importante, che intreccia guerra, migrazioni e accoglienza, mostrando così ancora una volta, come la pace si costruisca sempre dal basso, sempre negli intrecci quotidiani, ogni volta dai gesti concreti intessuti nel dialogo e nell’ospitalità.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 2 dicembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Pino Cosentino)

Pace è dignità: male minore e legittima difesa nel dibattito sull’Ucraina

14 Nov

A quasi 9 mesi dall’invasione russa in Ucraina, anche in Italia non si placa il dibattito su una risoluzione giusta del conflitto: cosa dice il Catechismo, la nostra Costituzione, le vicende dei partigiani cattolici e il confronto su resa e resistenza

di Andrea Musacci

La guerra è ancora, nel XXI secolo, una drammatica costante dell’umanità. Secondo Caritas italiana vi sono almeno 22 guerre ad alta intensità, 6 in più rispetto al 2020, quando erano 15, a cui si è aggiunta quest’anno quella in Ucraina. Se si considerano anche le crisi croniche e le escalation violente, si arriva a 359 conflitti.

La feroce guerra scatenata dalla Russia di Putin in seguito all’invasione dell’Ucraina, ha finora causato la morte di quasi 8mila civili ucraini (ma potrebbero essere di più, se venissero scoperte altre fosse comuni), di cui 430 bambini, e 11mila feriti, come reso noto alcuni giorni fa dal Difensore civico ucraino, Dmytro Lubinets. Oltre 64mila i soldati russi uccisi, secondo il governo di Zelensky. I bimbi deportati in Russa sono invece 10.570, 14 milioni di persone sono rimaste senza casa, 6,2 milioni di cittadini sono diventati sfollati interni, 11,7 milioni sono rifugiati o hanno ricevuto protezione temporanea al di fuori dell’Ucraina. 

In questo orribile conflitto l’opinione pubblica italiana, come quella europea e mondiale, si trova, fin da febbraio, drammaticamente divisa. Il desiderio di pace si confronta con le ragioni della legittima difesa della dignità, della libertà e dei confini di un popolo martoriato come quello ucraino. Ma vediamo cosa dice la Chiesa al riguardo.

Legittima difesa e vera pace

Nel Catechismo della Chiesa cattolica si legge al n. 2263: «L’amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. È quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale: “Se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita […]”» (San Tommaso d’Aquino, Summa theologiae) (n. 2264). Ma la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un dovere: «La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità» (n. 2265). Parole chiare, per quanto vadano interpretate a seconda dei casi concreti.

Costituzione e Resistenza

Sul delicato tema della liceità morale e giuridica dell’uso della violenza come risposta a un’aggressione, è utile anche andare a vedere alcuni testi su cui poggia una sana convivenza. Innanzitutto a livello globale. Lo Statuto delle Nazioni Unite (giugno 1945), all’articolo 51 recita così: «Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». Si parla, quindi, in modo netto, di «diritto naturale di autotutela» collettiva. Lo stesso articolo 11 della Costituzione italiana sottolinea come il nostro Paese «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Ciò che ha fatto la Russia ai danni dell’Ucraina. E, prosegue, «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Fondamentale è anche questo passaggio dove «pace» e «giustizia» vanno di pari passo. Come a ribadire che non vi può essere l’una senza l’altra.

Mi lego alla nostra Costituzione nata dalla Resistenza al nazifascismo per citare alcune riflessioni dello storico Daniele Menozzi riguardanti la difficilissima scelta, da parte dei partigiani cattolici, di usare violenza contro l’invasore. «Il partigiano cattolico – scrive – (…) può uccidere come il soldato, in quanto lo fa senza odio», soprattutto perché, «per amore di Cristo, giunge a rigettare quell’estetica della violenza e del sangue purificatore che caratterizza i nazisti ed è stata pienamente introiettata dai fascisti». Le varie formazioni cattoliche, continua, erano poi convinte che ciò servisse per «difendere la patria, la Chiesa, la comunità di provenienza», e per «preservare le condizioni per la prossima ricostruzione di una società cristiana». (Nonviolenza e legittima difesa, “Il Regno”, settembre 2021).

Ucraina: il dibattito su male minore e male necessario

Né cinici né ingenui: viene da pensare, quindi, che il giusto atteggiamento da avere sia questo. La vita, propria e degli altri, va difesa e tutelata, ma è necessario, sempre, in una situazione critica di conflitto, come ogni giorno, essere “artigiani di pace”. Coltivare la pace, amare i propri nemici, e, facendo questo, già non considerarli più come tali. Al tempo stesso, far crescere dentro di sé quella forza interiore, quell’equilibrio, quella profondità spirituale che ci permetta di riconoscere il male, di non ignorarlo né sottovalutarlo, ma di saperlo combattere con le armi di volta in volta più consone, urgenti e necessarie. 

Non si tratta di non credere nel bene e nella pace, ma di non coprire con finta ingenuità o buona fede, una mancanza di senso della realtà, di capacità di comprenderla, pur nella sua radicale complessità. Complessità che ha scatenato, forse come non mai, anche nel nostro Paese, un dibattito acceso con posizioni differenti anche all’interno delle stesse Chiese o aree politiche.

«È essenziale schierarci per la pace», scrive Marco Tarquinio su “Avvenire” del 5 novembre scorso. E «farlo con tutta la possibile capacità di resistenza al fascino dello scontro armato e senza quartiere, condotto sino in fondo con l’orgoglio delle proprie ragioni. Lo dico ancora una volta: le guerre hanno sempre ragioni, ma non hanno ragione. E, come dice il Papa, sono ormai pura atrocità e pura follia. L’unica vittoria possibile è solo far finire il massacro».

Una posizione, questa di Tarquinio, in parte differente rispetto a quella di altri opinionisti, sia laici che cattolici. «Dichiarare che ci si deve arrendere all’aggressore, al male, perché così fa meno male, non corrisponde né alla teoria del “male minore”, né a quella della “nonviolenza”», scrive Gianfranco Brunelli. «Oggi il male minore è aiutare gli ucraini a difendersi; e la nonviolenza è essere presenti come resistenza attiva, ancorché non armata, per aiutarli a sopravvivere. Sono queste le scelte possibili. Il pacifismo che chiede la resa agli aggrediti, che cerca di dare ragioni a Putin per una trattativa indifferente a ogni valore in gioco è un pacifismo finto» (Un’altra “inutile strage”, “Il Regno”, aprile 2022). Sulla stessa lunghezza d’onda, Furio Colombo: «Siamo rapidamente discesi, lungo una scala bene organizzata, dal livello dell’invasione armata di un Paese indifeso a quello della difesa deliberatamente messa in atto perché ci sia più guerra. Ovvio che questa incredibile situazione non è un progetto del pacifismo come valore e come speranza», ma «un trappolone» di chi è rimasto legato al vecchio antiamericanismo (Ucraina-Russia, chi dimentica le vittime, “Repubblica”, 4 giugno 2022).

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 novembre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

«La prima cosa che ho capito, tessendo le risposte che ho ricevuto da nord a sud, da est a ovest, da soldati e civili, da attivisti e bambini è che pace, lì [in Ucraina], sia una parola imperfetta (…). Perché, in una guerra di invasione, val la pena ricordarlo a chi scende in piazza, funziona così. Sono gli invasi che vivono nei bunker, scendono in metropolitana con i sacchi a pelo per paura di morire schiacciati dal tetto di casa, solo da un lato del confine si vive con le sirene antiaeree nelle orecchie dal 24 febbraio, è per questo che da un lato del confine non può esserci pace senza giustizia».

(Cari pacifisti, vi scrivo: venite in Ucraina e capirete, Francesca Mannocchi – inviata in Ucraina – “La Stampa”, 5 novembre 2022)

E all’improvviso l’inferno: lo spezzonamento di San Martino

13 Giu
Tre aerei Sterling in azione

È il 19 aprile 1945, la piccola frazione alle porte di Ferrara viene invasa da una pioggia di bombe alleate. Saranno 71 le vittime e molti i feriti. La ricerca di Gianna Andrian e le testimonianze di alcuni superstiti

di Andrea Musacci 

In un tranquillo pomeriggio del 1945 anche a San Martino, alle porte di Ferrara, le persone aspettano di poter riassaporare la bellezza di una vita in pace. È il 19 aprile, un giovedì di primavera, l’aria è leggera. 

All’improvviso, intorno alle 16, in lontananza si ode il rumore di aerei, sembrano provenire da nord. La paura attraversa la mente delle persone impegnate nelle normali attività quotidiane, e dei bambini distratti nei loro giochi. Ma più forte della paura è la curiosità per quegli aerei che, si pensa, siano di passaggio, diretti chissà dove. In molti escono dalle case. È un attimo, e lo stupore si trasforma in terrore. Diciotto aerei facenti parte di tre formazioni alleate, sganciano 2364 bombe in pochi secondi. Bombe a frammentazione, che esplodendo in aria liberano “spezzoni”, schegge metalliche, da qui il termine “spezzonamento” per indicare questo tipo particolare, e ancor più micidiale, di bombardamento. Un sistema a quei tempi sperimentale. 

Gli Alleati probabilmente sospettavano che nella piccola frazione poco fuori Ferrara, tra via Chiesa, via Buttifredo e via Penavara, si fosse installato un comando tedesco. Si conteranno 71 vittime, tutte o quasi civili, e un numero indefinito di feriti e mutilati, persone che attendevano quella Liberazione che avrebbe attraversato la nostra città appena 5 giorni dopo, il 24 aprile. 

A raccontare a “La Voce” questa orribile e ben poco indagata vicenda della guerra nel nostro territorio, è Gianna Andrian, appassionata di storia e cultura locale del ferrarese e del rodigino, lei stessa originaria della provincia di Rovigo ma da diversi anni residente a San Martino, nonché membro dei “Caschi blu della cultura”.

«Mi sono sempre chiesta perché questa terribile vicenda non fosse mai stata approfondita a livello storico, allora due anni fa ho iniziato alcune ricerche». Chi entra nella chiesa del piccolo paese, vi può trovare due lapidi con i nomi delle 71 vittime (lapidi messe dopo richiesta di Fratta e Vezzani, due superstiti ancora viventi), alcune delle quali seppellite nel locale cimitero (insieme ad altri caduti nello spezzonamento del 10 giugno 1944, che provocò 191 morti fra il paese e la zona sud / sud-est della città), e i cui nomi sono impressi su una lapide comune. «Questo fa supporre, ma non possiamo per ora esserne certi, che parte dei morti non fossero di qua, e magari alcuni di loro erano soldati tedeschi». Una piccola via del paese è stata intitolata al ricordo di quella tragedia, via XIX aprile 1945, e in quella data viene celebrata una Messa in ricordo delle vittime.

La ricerca storica iniziata da Andrian dà ben pochi frutti: oltre alle lapidi e alla tomba, alcune informazioni in un libro trovato in Biblioteca Ariostea. Nessun documento nemmeno nell’archivio parrocchiale o in quello diocesano. Nulla nemmeno sul “Corriere padano” – fondato da Italo Balbo, poi diretto da Nello Quilici -, che cessa le pubblicazioni proprio in quei giorni, con l’arrivo a Ferrara delle truppe anglo-americane.

Gianna Andrian

Allora Andrian decide di cercare alcuni superstiti ancora viventi e rimasti a vivere a San Martino. Il primo è Bruno Fratta, che all’epoca aveva 4 anni, e da dieci anni è presidente dell’Associazione mutilati e invalidi di guerra, sezione di Ferrara. Grazie a lui, successivamente, riuscirà a trovare altri quattro testimoni di quel terribile pomeriggio. In seguito si confronterà con diverse associazioni, fra cui “Aerei perduti del Polesine”, fondata da Luca Milan, Enzo Lanconelli, Andrea Raccagni ed Elena Zauli delle Pietre. Proprio quest’ultima, storica di professione, è riuscita a recuperare, in un archivio militare degli Alleati, il rapporto del comando alleato con i dettagli sullo spezzonamento di San Martino. 

Ma il lavoro di Andrian non si ferma: in programma c’è anche una pubblicazione. Un atto dovuto, per far conoscere a quante più persone possibili ciò che è accaduto quel maledetto 19 aprile di 77 anni fa, e ricordare quelle persone che, senza sapere nemmeno perché, trovarono una morte ingiusta.

Cinque racconti inediti di alcuni superstiti dell’attacco alleato

Bruno Fratta, classe ’41, una benda nera ancora gli copre l’occhio sinistro. Quel giorno ha perso il papà Giuseppe, 35 anni, lo zio materno Amedeo Castaldini, 36 anni, e il cugino Alfonso, 20 anni.

Bruno vide cadere davanti ai suoi occhi l’amico Gino Vitali ferito mortalmente. «La mia mano era stretta in quella di mia mamma e in quell’intreccio di dita, il suo pollice destro verrà colpito da una scheggia e amputato. Un’altra scheggia le entrò in un occhio togliendole la vista». Anche Bruno venne colpito e ferito gravemente all’occhio sinistro. Sia lui sia sua madre, negli anni, dovettero subire interventi per rimuovere schegge rimaste nei loro corpi.

Gianfranco Pasquali, classe 1931, racconta: «mi trovavo con gli amici nel cortile in prossimità dell’imbocco del rifugio, quando ho visto arrivare gli aerei che si sono divisi in cielo. Poi ricordo gli impressionanti fischi degli “spezzoni” che cadevano. Mi tuffai letteralmente all’interno del rifugio dove già erano entrate due ragazze. Un amico uscì dal rifugio sotto lo spezzonamento. Voleva correre in casa per vedere se i suoi familiari erano in salvo, ma rimase ferito. La mamma del mio amico, sulla porta d’ingresso, era riversa a terra, colpita mortalmente dalle schegge. Mia madre, alle sue spalle, dritta in piedi, viva per miracolo. Il corpo di quell’altra madre aveva fatto da scudo alla mia salvandole la vita». Ricorda che nella casa d’angolo tra via Penavara e via Chiesa c’era un “Comando di Tedeschi”. «Quattro o cinque di loro erano morti subito, altri ruzzolavano ancora giù dalla scala esterna perché feriti dalle schegge».

Grandilia Vezzani e suo fratello Edgardo “Marco” raccontano: «nel cortile di Venturoli, dove in quel momento si trovava nostro padre Nino, si scatenò una visione infernale: una tempesta di schegge metalliche che non lasciava scampo, e atterrava ogni essere vivente. I due amici vennero colpiti contemporaneamente. Venturoli morì all’istante mentre nostro padre venne ferito gravemente. Morì poche ore dopo». 

Sergio Govoni all’epoca aveva 8 anni. Quel giorno, all’arrivo degli aerei, scappa, insieme ad altri, nel rifugio costruito dalle famiglie del suo stesso cortile. Con lui, nel rifugio, riuscì ad entrare anche la sorella Graziella di 7 anni. La sorella Triestina, 17 annui, e il padre Giuseppe si affacciarono sulla soglia di casa per la curiosità. Fu un attimo, questione di qualche secondo, neanche il tempo per capire e padre e figlia erano già riversi a terra falciati dalle schegge delle bombe. A poche centinaia di metri fu ferito mortalmente anche il fratello Benito.

Tazio Lambertini, classe ’36, abitava in una casa colonica nella grande Azienda Agricola detta “Cuniola”, proprietà del famoso Casato dei Canossa, forse base di un comando tedesco in ritirata, o di un ospedale da campo, e quindi probabile obiettivo di quell’incursione aerea. Ma quella villa e le case coloniche non furono nemmeno sfiorate dal bombardamento. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 giugno 2022

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Da Kicman in Ucraina a Ferrara: Agnese è sempre in prima fila

12 Mag
Agnese Di Giusto

Casco bianco IBO, ha dovuto lasciare per la guerra. Ma qui prosegue il suo servizio

Da alcune settimane Agnese Di Giusto nei locali della parrocchia di S. Maria deiServi a Ferrara tiene corsi di lingua italiana a un gruppo di bambini ucraini dai 5 agli 11 anni d’età, mentre quando la incontriamo sta tenendo la sua prima lezione settimanale ad alcuni adulti (Qui le loro storie: Fra le lacrime si cerca di rinascere: i racconti di tre donne ucraine).

«I bambini hanno tanta voglia di imparare, sono molto curiosi, fanno molte domande», ci spiega Agnese. E non hanno perso la voglia di giocare. «Con gli adulti, invece, all’inizio ero un po’ preoccupata, perché non volevo, durante la lezione, toccare tasti dolenti che potessero intristirle, come ad esempio nell’insegnar loro a dire se sono sposate, o vedove… Ma sono informazioni importanti, che verranno loro chieste quando dovranno fare i documenti».

Pochi ma intensi mesi a Cernivci

Agnese è volontaria come Casco bianco per IBO e fino a febbraio era inserita come volontaria nel Centro riabilitativo per minori disabili “Campanellino” a Kicman, un paesino vicino a Cernivci, nel sud ovest dell’Ucraina, a poca distanza dal confine rumeno. In quella zona del Paese, IBO collabora anche con l’Associazione “Gente buona di Bukovina”.

Ventotto anni, laureata in educazione professionale, Agnese è originaria di Buja, provincia di Udine, dove, oltre a insegnare yoga, prima di iniziare il Servizio civile ha lavorato come educatrice in un Centro per minori stranieri non accompagnati.

A Ferrara, dove prosegue il suo anno di Servizio civile, si occupa principalmente di aiutare lo staff di IBO a organizzare e coordinare la raccolta di beni di prima necessità da inviare a Cernivci per sostenere la comunità locale nel far fronte al grosso numero di sfollati che stanno arrivando dalle zone più colpite del Paese. E a Cernivici, come ci spiega, mancano molti farmaci comuni ed è quasi introvabile l’insulina, in quanto le farmacie non vengono rifornite.

Inoltre, insieme ad Amos, l’altro volontario rimasto appena poche settimane in Ucraina, fa testimonianza nelle scuole, corsi di lingua italiana ad adulti e ragazzi nella sede dell’ADO, mantiene i contatti con “Campanellino” e con Ivan Sandulovich a Cernivci (Qui il suo racconto: Ivan a Cernivci guida la macchina della solidarietà), e regolarmente si coordinano col CSV di Ferrara.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 maggio 2022

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Fra le lacrime si cerca di rinascere: i racconti di tre donne ucraine

12 Mag
Oxana, Alina e Vasylyna

Oxana, Alina e Vasylyna sono arrivate a Ferrara negli ultimi mesi. Scappano da Kherson o hanno parenti in Donbass. Persone che non vogliono soccombere all’invasore russo

Quando le incontriamo nella sacrestia della parrocchia dei cattolici ucraini in via Cosmè Tura, Agnese insegna loro a leggere l’orologio in italiano.

Oxana, Alina e Vasylyna ascoltano con attenzione, fanno domande, si impegnano. Ma dai loro volti traspare tristezza. Agnese, volontaria di IBO Italia, ha trascorso oltre due mesi in Ucraina, ma è dovuta rientrare in Italia a causa della guerra, insieme a un altro volontario, Amos Basile.

Conclusa la lezione, chiediamo alle tre donne di raccontarci le loro storie.

«Vogliamo vivere da persone libere»

Da Cherkasy, nella parte centrale del Paese, arriva Oxana, qua da un mese. In realtà lei vive in Bulgaria e in Ucraina ci è andata per prendere i suoi due nipoti e portarli al sicuro, prima in Bulgaria, poi qui a Ferrara dove vive il suo compagno. «Durante il viaggio, grazie a una comunità protestante ho lasciato il Paese, ho dormito due giorni in una chiesa a Budapest, poi ho trascorso un mese a Sofia. Nel Donbass vivono le mie zie e mio zio», prosegue. «I loro figli non vogliono vivere sotto il giogo russo e quindi sono scappati in Belgio, Polonia e nei Paesi baltici. I russi propongono agli abitanti di andare a vivere in Russia, ma le persone si rifiutano. I miei cugini, come tanti altri nel Donbass, vogliono essere liberi, vivere da persone libere».

«A Kherson protestano contro l’occupazione russa»

Alina è scappata da Kherson, e da un mese è a Ferrara con i figli Artem e Costantin di 6 e 8 anni, con la cognata e i suoi figli di 3 e 10 anni. Nella nostra città, infatti, la madre Ludmila lavora come badante. «Siamo usciti da Kherson quando già era stata occupata dai russi, e non c’era nessun corridoio umanitario: abbiamo rischiato davvero la vita, di essere colpiti dai russi», ci spiega. «Mio marito ci ha portati a Odessa, dov’è rimasto, mentre noi da lì siamo partiti per l’Italia. A Kherson i militari si sentono i padroni, le bandiere russe sventolano, è orribile», ci dice tra le lacrime. «Non vogliamo far parte della Russia! Anche se non se ne parla, però, a Kherson ci sono proteste contro gli occupanti, la gente scende per strada con le bandiere ucraine». 

Quel viaggio a piedi di notte

A Ferrara è arrivata anche Vasylyna, venuta due mesi fa da Leopoli con i figli Anastasia e Roman di 11 e 13 anni, per raggiungere la sorella Alina. Un ricordo che le segna ancora il viso: «passata la dogana, abbiamo dovuto camminare per 8 ore, di notte. Poi per una settimana in Polonia siamo stati ospitati da una famiglia». Prima di arrivare in questa città che ora li accoglie, cercando di offrire loro un po’ di speranza.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 maggio 2022

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Marta e i suoi figli a Ferrara, ma la guerra resta vicina

12 Mag
Marta col marito e i figli in un momento sereno in Ucraina prima della guerra

Marta è sposata con Pietro, sacerdote. Da Drohobyc è scappata coi figli Ivan (8 anni) e Teresa (5). Qui a Ferrara cercano un po’ di serenità, tra la scuola e la parrocchia in via Cosmè Tura

di Andrea Musacci

Raccontare attraverso i giochi e i disegni la guerra e quella vita nuova non voluta, inaspettata.

Sono alcuni dei particolari toccanti che emergono ascoltando le storie delle donne giunte a Ferrara negli ultimi mesi, molte di loro giovani madri. Come Marta, cognata di padre Vasyl Verbitskyy, guida dei cattolici ucraini nella nostra Diocesi. Marta è arrivata nella nostra città lo scorso 5 marzo da Verkhniy Luzhok, un piccolo paese vicino Drohobyc, a 30 km dal confine polacco. Con lei, i suoi due figli, Ivan di 8 anni e Teresa di 5.

A Verkhniy Luzhok hanno lasciato il marito Pietro, sacerdote cattolico di rito bizantino. «Prima della guerra vivevamo una vita normale – ci racconta Marta -, Ivan andava a scuola, Teresa avrebbe dovuto iniziare l’asilo. E sognava tanto di andare a vedere uno spettacolo di canti, con i soldi che aveva ricevuto in dono per Natale…».

Ma alle 5 del mattino del 24 febbraio l’allarme delle sirene ha rotto ogni pace. «Abbiamo visto gli aerei militari sfrecciare sulla città e poco dopo abbiamo saputo dell’inizio dell’invasione russa. Anche noi come genitori non eravamo pronti. Non pensavamo potesse accadere una cosa del genere ai giorni nostri». La decisione di lasciare il Paese l’hanno presa dopo la notizia degli attacchi alla vicina centrale di Chernobyl, la notte fra il 3 e il 4 marzo.

«Era difficile spiegare ai bambini perché dovevamo partire, e perché con sé non potevano portare i propri giochi, ma solo l’essenziale. Prima di partire, i miei figli hanno creato loro stessi alcuni giochi: Ivan, coi Lego, ha creato tank, aerei da guerra e l’Antonov An-225 Mriya». Myria significa “sogno” in ucraino. Si tratta del più grande aereo del Paese utilizzato per i rifornimenti, costruito in un unico esemplare. I russi l’hanno distrutto a Hostomel’, vicino Kiev, nei primissimi giorni di guerra. Ivan l’ha voluto ricostruire dopo aver sentito in tv la notizia della distruzione.  

Poi la partenza verso la Polonia, direzione Italia. Alla dogana file di giovani mamme come lei, «con tutta la loro vita in uno zaino», prosegue Marta. «Nelle nostre valigie, oltre ai vestiti e all’essenziale, Ivan ha voluto mettere i suoi pennarelli, dato che ama molto disegnare, Teresa invece il suo unicorno, io un rosario. A mio marito, prima di partire abbiamo detto: “ti amiamo”…».

«Noi qua, i nostri cari sotto le bombe: non è giusto…»

Quotidianamente, più volte al giorno, Marta e i bambini si sentono via WhatsApp e Viber con Pietro. 

«Nella nostra parrocchia a Verkhniy Luzhok, soprattutto dopo gli eccidi di Bucha e Irpin, in molti hanno compreso ancora di più cosa fosse questa guerra, sono rimasti scioccati, considerano quel che sta accadendo incomprensibile. Si chiedono: “dov’è Dio? Perché permette tutto questo?”. Ci sembra di non vedere la fine di quest’incubo».

Il marito aiuta come può per organizzare l’ospitalità di tante famiglie che scappano dalla zona est del Paese: dà loro sostegno spirituale, anche psicologico, e insieme ai suoi parrocchiani li aiuta per i beni essenziali, raccogliendo beni anche per i militari della parrocchia impegnati a difendere la propria patria. 

«Poco tempo fa – ci racconta Marta – è morto un uomo del nostro paese che si era arruolato volontario in un battaglione per combattere in Donbass». Sono riusciti a far tornare il suo corpo a casa, per celebrare i funerali e lì farlo riposare. «Alle esequie era presente l’intero paese: quando è passato il feretro, tutti si sono inginocchiati, i bambini con le candele e i fiori in mano». E Marta poi ci racconta di Leopoli, dove ha molti amici impegnati come volontari nell’accoglienza dei profughi, e dove vivono suo fratello e i suoi genitori: «due giorni fa hanno visto quattro missili sorvolare la città a bassa quota». Era uno dei periodici attacchi sulla città.

«Noi siamo qui protetti e i nostri cari invece là sotto le bombe», dice commossa. «Questo mi fa stare molto male, quasi sentire in colpa. Per questo, anche se siamo scappati, la guerra la sentiamo ancora molto vicina a noi». 

Ricominciare a vivere

Appena arrivati a Ferrara, suo figlio Ivan ha voluto comprare la mappa d’Italia: su un grande foglio ha disegnato i luoghi e i monumenti caratteristici di alcune città italiane, Ferrara compresa, di cui ha realizzato il Castello. Ad aiutarlo in questa sua passione, una ferrarese amica di famiglia. E Ivan è rimasto molto colpito anche dallo splendore della Basilica di S. Maria in Vado, e ogni tanto aiuta padre Vasyl come chierichetto. Piccoli sprazzi di serenità per due bambini, come lui e Teresa, che in Ucraina hanno lasciato quasi tutto. Mentre la piccola non comincerà subito ad andare all’asilo, Ivan ha iniziato a frequentare la Scuola internazionale Smiling. «Il primo giorno – ci spiega Marta – si è commosso perché i suoi nuovi compagni lo hanno accolto con alcuni disegni di cuori con sia la bandiera ucraina sia quella italiana, realizzati apposta per lui. E fuori dall’orario delle lezioni, prosegue tramite Zoom la didattica a distanza con la sua insegnante in Ucraina, anche se a volte quando là suona l’allarme, si interrompe il collegamento». 

Anche Marta un po’ alla volta cerca di ritrovare un po’ di serenità: prima di Pasqua, ad esempio,  seguendo i bambini che si preparano per la Prima Comunione e aiutandoli a dipingere le uova pasquali e a preparare i rami d’ulivo. «Mi sono sentita utile, come se avessi di nuovo una vita normale. E in ogni chiesa che visitiamo qui in città prendiamo santini come souvenir che poi porteremo a Pietro». 

«Prima della guerra – dice con tristezza Marta – noi ucraini avevamo tanti sogni: di studiare, viaggiare fuori dal nostro Paese, aprire attività commerciali. Ora invece ogni giorno non sappiamo se avremo il cibo, l’acqua potabile, un letto e una casa. Si vive alla giornata. Anzi, le persone che vivono nelle zone occupate dai russi, vivono ora per ora. E i miei figli mi fanno tante domande sulla situazione in Ucraina, se ritroveranno i loro giocattoli. Speriamo che tutto questo finisca presto».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 maggio 2022

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