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Sari Bashi e l’amore possibile tra un’israeliana e un palestinese

16 Ott


La scrittrice il 12 ottobre ha presentato il suo romanzo al MEIS di Ferrara

Mentre scriviamo questo articolo, è da poco avvenuta la liberazione degli ostaggi israeliani da due anni nelle mani di Hamas. L’annuale rassegna letteraria “Il Libro Ebraico”, svoltasi dal 9 al 12 ottobre al MEIS di Ferrara sul tema “Un futuro da scrivere 2025” è stata quindi vissuta in un clima di speranza per la possibile fine del conflitto tra Israele e Hamas. 

Rassegna che si è conclusa domenica 12 con la presentazione del libro “Maqluba. Amore capovolto” di Sari Bashi (tradotto in italiano nel marzo 2025, e uscito per Voland ed.). Con l’autrice han dialogato Emanuele Ottolenghi (politologo e saggista), Maria Chiara Rioli (UniMoRe) e Claudio Vercelli (storico), moderati dal Direttore MEIS Amedeo Spagnoletto.

Sari Bashi è un’avvocata per i diritti umani israeliana, in passato dirigente di Human Rights Watch in Palestina e nel 2005 ha fondato Ghishà, organizzazione per i diritti umani e la libertà di movimento che fornisce assistenza legale a persone palestinesi, soprattutto di Gaza. È anche un’atleta e detiene il record israeliano femminile di ultramaratona (216 km). “Maqluba. Amore capovolto”, suo primo romanzo, ha vinto nel 2021 il premio del Ministero israeliano della Cultura come miglior esordio. Oggi Bashi vive in Cisgiordania con Osama, il suo compagno, palestinese di Gaza, e i loro due figli. Il libro – scritto prima del 7 ottobre 2023 – racconta proprio la storia d’amore di Sari e del suo compagno, professore universitario originario di Gaza.

«Nel libro c’è un gioco di identificazione ma anche di separazione, un’ambivalenza – questa – tipica delle storie d’amore ma qui ancora più forte vista la difficoltà di trovare un’identità non cristalizzata in rigidi convincimenti», è stato il commento di Vercelli al testo.

«Là fuori, oltre ciò che è giusto e sbagliato esiste un campo immenso: ci incontreremo lì»: questo, un passaggio del romanzo. Un oltre come immagine della suprema libertà, quella così agognata tanto da Sari quanto da Osama, «entrambi innamorati del mare e della corsa. Correre che è per me – ha spiegato Bashi – un modo di cimentarmi con diverse identità, oltrepassando diversi confini». Il 7 ottobre – ha proseguito l’autrice «è stato un crimine contro l’umanità e la guerra che ne è seguita qualcosa che si avvicina al genocidio». Ma «dopo due anni terribili, oggi sono animata da grandissima speranza.Spero che anche i miei suoceri palestinesi possano tornare a casa, come gli ostaggi israeliani. Per me il conflitto tra israeliani e palestinesi non è – come per alcuni commentatori – qualcosa presente da sempre, ma è causato principalmente dal sistema di oppressione (israeliano, ndr) che occupa uno spazio non suo e tratta alcune persone in maniera differente. Sistema, questo, causato dalla colonizzazione europea iniziata nel 1948».

In particolare dal 7 ottobre 2023 – sono ancora parole di Bashi a Ferrara – le parole vengono troppo spesso usate in modo polarizzante». Ma è possibile un modo diverso di approcciarsi: l’esempio che fa è innanzitutto quello di suo padre, «originario di una comunità ebraica in Iraq lì presente per secoli». O «dei miei figli che possono iniziare una frase in arabo, continuarla in inglese e finirla in ebraico». Insomma, le identità possono essere trasformate, l’incontro è possibile. «Spero che il mio libro possa permettere agli israeliani di  conoscere meglio il mondo di Osama e – se e quando sarà tradotto in arabo – di far conoscere meglio agli arabi il mondo ebraico. Vedo – ha poi concluso – una leadership dal basso sia tra i giovani israeliani sia tra i giovani palestinesi.Sono ottimista».

Meno lo è Ottolenghi: «nel libro le identità si incontrano ma nella realtà sono molto forti e antiche e davvero quasi impossibile modificarle. Nel mondo musulmano mediorientale le minoranze sono sempre state sottomesse alla maggioranza: il nazionalismo arabo non ha mai considerato, e non considera, gli ebrei come parte della loro società. È l’effetto di un antisemitismo moderno che si ispirava e si ispira a quello europeo».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 17 ottobre 2025

Abbònati qui!

«Una forma di preghiera, una vita di carità»: Giulio Zambon poeta social

11 Set


Dialogo sull’essenza della poesia col giovane catechista dell’Unità Pastorale Borgovado e insegnante all’Einaudi di Ferrara: «su Instagram e Tik Tok non cerco visibilità ma continuo la mia ricerca attraverso la parola, questo trovare misterioso mettendo una parola dopo l’altra»

di Andrea Musacci

«Se ci si ricorda del linguaggio, se non si dimentica che possiamo parlare, allora siamo più liberi, non siamo costretti alle cose e alle regole. Il linguaggio non è uno strumento, è il nostro volto, l’aperto in cui siamo». 

(G. Agamben, Quando la casa brucia, 2020)

«Ciò che ti dà la poesia è parole per capire la tua vita e quella che ti è attorno. Parole per prenderle entrambe per mano». Così Giulio Zambon, 27 anni, ci spiega la sua vocazione di poeta. E di poesia ha scelto di parlare attraverso alcuni social: i suoi reels su Instagram raccolgono da “appena” qualche decina di migliaia di visualizzazioni ad alcuni milioni. Lo stesso su Tik Tok. Ma a incontrarlo, Giulio, non pare avere nessuna voglia di atteggiarsi da VIP.

Cresciuto a Schio, nel vicentino, insegna italiano e storia all’Einaudi di Ferrara e nel proprio curriculum ha gli studi di pianoforte al Conservatorio e una laurea in Lettere all’università. «Fatico – spiega a “La Voce” – a definire il leggere e lo scrivere come passioni perché non occupano una fetta del mio tempo, ma la mia vita». Suoi versi sono apparsi nella rivista Poesia, edita da Crocetti, e suoi testi sono apparsi anche in riviste online (Minima Poesia, Medium Poesia, Vallecchi Poesia).

Prossimamente uscirà una sua pubblicazione. «Poi c’è la musica, ci sono le passeggiate, le lunghe conversazioni con gli amici». E una fidanzata, con la quale condivide – ogni domenica prima della Messa delle 11 – il catechismo nell’Unità Pastorale di Borgovado a Ferrara. Proprio da qui inizia il nostro dialogo.

Giulio, parlaci della tua appartenenza alla Chiesa: dove nasce, come cresce, come si concretizza…

«Nasce da una diffidenza, come da piccoli si guarda di nascosto qualcosa che non si capisce. E si mantiene fisso lo sguardo, consapevoli del mistero. La Chiesa, o più specificamente la fede, era per me questo: un mistero commestibile, che provavo ad addentare ma che non comprendevo. A un certo punto le parole e la Parola le ho sentite dirette a me, mi hanno dato del “tu”. Penso che si sia figli da quando un padre ti chiama per nome. Ora sono in un momento di silenzio, che non è altro di uno dei normali momenti di un dialogo che continua. Sento che questo rapporto si esplica concretamente mentre scrivo, che non è altro che una forma di preghiera. Continua nel mondo attraverso i bambini del catechismo».

Leggi l’intero articolo qui!

(Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 settembre 2025)

Misericordia e vita giusta nel Manzoni

28 Feb

Antonia Arslan e Davide Rondoni il 20 febbraio sono intervenuti a Ferrara su “I promessi sposi”

Cos’è che rende una vita davvero giusta? Su questo tema centrale per le donne e gli uomini di ogni tempo si è riflettuto lo scorso 20 febbraio interrogandosi su un capolavoro della letteratura di ogni tempo, “I promessi sposi”.

Nella sede dell’Università di Ferrara in via Adelardi si sono confrontati Antonia Arslan, scrittrice e saggista italiana di origine armena, e Davide Rondoni, poeta, scrittore e direttore artistico del Festival Della Fantasia. L’incontro “Che cosa c’è di allegro in questo maledetto paese?” – primo evento del Festival 2023 che si svolgerà l’11, 12 e 13 maggio in Castello e contributo in preparazione al concorso con lo stesso titolo – è stato organizzato da Accademia e Fondazione Enrico di Zanotti, in collaborazione con altre associazioni e istituzioni.

Arslan: «in un atto di amore, Manzoni si è inchinato agli umili»

Arslan nel suo intervento è partita innanzitutto dalla biografia di Alessandro Manzoni, «romantico non nichilista, personaggio complesso, nevrotico folle, con profonde ferite interiori». Un vero «genio», autore di «un romanzo che non fu per nulla, fin dall’inizio, un santino della nuova Italia, ma un grande romanzo d’avventura».

Nel libro, Manzoni «riesce ad accettare il mondo degli umili con unità personale, lui aristocratico, riesce a capire la realtà dei semplici e, ammirando la loro fede, a raccontarlo». Un mondo, quello degli umili, per nulla «mitizzato ma raccontato» da chi è stato capace di comprenderne il nucleo essenziale: «una semplice dirittura e onestà». Con «un continuo atto di volontà – ha proseguito la scrittrice -, Manzoni ha piegato sé stesso e si è inchinato, in un atto di amore, con ironia e chiarezza di linguaggio, a questo mondo» così diverso dal suo.

“I promessi sposi” sono «una pietra di inciampo, perché lì si frantuma un modo di scrivere precedente, pesante». Manzoni riesce, invece, a realizzare «un’avvolgente spirale di avventure, vissute da personaggi che ama, che descrive vivamente, con dialoghi della più alta qualità letteraria».

Rondoni: legame tra sapienza del popolo e Provvidenza

Manzoni nel romanzo «racconta una storia che non è consolatoria come tanti vogliono far credere», il popolo da lui narrato «è una questione tutt’altro che tranquilla e pacifica», ha spiegato invece Rondoni. 

Quel «sugo di tutta la storia» che Renzo e Lucia colgono nel finale, è «il loro tempo, è comprendere loro stessi. Non c’è bisogno di intellettuali, di un’élite per coglierlo, per avere questa sapienza: il “sugo della storia” è il senso di avere giustizia nella vita». Insomma, non evitare i guai, «dividendo la storia in fortunati e sfortunati», ma avere fede, «la fede del popolo, un’esperienza di un popolo più grande di sé». Popolo la cui vita «è determinata da cose non create dal popolo stesso, ma che lo generano». 

Da qui, il tema della Provvidenza, «parola descrittiva della Misericordia» – a sua volta «bomba che fa esplodere tutto, che non ha confini»: Provvidenza  che fa «leggere il valore dell’esistenza a un altro livello, cercando di capire cos’è che rende una vita giusta». Compito supremo per l’uomo, questo: significa comprendere «come la libertà dell’individuo entra nel tempo, come il singolo sta nel tempo con più libertà e profondità, senza dividere la storia in fortunati e sfortunati». È, infatti, il cuore stesso a «non poter accettare che la vita si divisa solo in fortuna e sfortuna».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

L’amore inquieto nei versi di Filippo Reggiani

6 Giu
Filippo Reggiani

“De culpabili amore” è il libro di esordio del giovane poeta mirandolese. I tormenti di un cuore che anela a Dio

di Andrea Musacci

A volte, forse, la giovane età può far vedere ben poco sfumati i confini dei sentimenti, e dunque percepirne solo l’incandescenza o la cupezza. E così è bene che sia, e di questa istintività spirituale va conservata memoria in età adulta.

A ricordarcelo è Filippo Reggiani, giovane poeta classe 2000, che in questi mesi sta presentando il suo libro d’esordio, “De culpabili amore” (edizioni Kimerik, marzo 2022, pp. 84).

Un bagno negli abissi e negli splendori della classicità, che rivive nei versi di questo giovane nato a Mirandola, dove ha frequentato il Liceo Classico “Giovanni Pico”, lui originario di San Martino Spino ma che da alcuni anni vive a Ferrara dove a breve si laureerà in Lettere, arti e archeologia. Catechista e animatore della sua parrocchia, da ottobre a febbraio scorso ha svolto il tirocinio nell’Archivio storico della nostra Arcidiocesi.

Nonostante non abbia conosciuto il “secolo breve”, Reggiani ha già partecipato a diversi concorsi letterari, fra cui il “Premio Dante” indetto dall’Accademia dei Bronzi nel 2021, ricevendo la targa di merito, e il Premio “Habere artem” della Casa editrice Aletti. “De culpabili amore” l’ha presentato al recente Salone del Libro di Torino e il 10 giugno ne parlerà a Mirandola, nel Giardino ex Cassa di Risparmio, con inizio alle ore 21. Il libro è acquistabile sui principali store on line e su ordinazione nelle librerie di Ferrara.

Non male, insomma, per questo ragazzo che scrive poesie da circa 6 anni ma che fino a pochi mesi fa non aveva reso partecipe quasi nessuno della sua creatività. Un animo coraggioso, insomma, che non teme di mettersi a nudo, a maggior ragione in un’epoca come la nostra dove “poesia” – ahimè – è sempre più sinonimo di sdolcinatezza, di vuote e banali parole. Fa bene all’anima, invece, leggere “De culpabili amore”, dove fin da subito è chiara non solo la profondità dell’animo di chi scrive ma anche la sua conoscenza dello stile. 

Una poesia, la sua, che è catarsi, liberazione e purificazione dal male. Una poesia essenziale perché inebriata della sostanza dei sentimenti, degli aneliti fondamentali dell’umano, ma per nulla scarna, anzi ricca nelle immagini e nella musicalità. Sonetti, ottave, quartine libere per esprimere l’ambivalenza dell’amore, croce e delizia, via che conduce al bene e strapiombo per la perdizione. Sentimento fratello del tormento, che scatena emozioni ma anche affanni, l’amore è fatto anche di gioie ben poco durature, di ebbrezze e dolorose rinunce. Versi, quelli di Reggiani, battezzati dunque nelle acque agitate dell’esistenza, nel dolore e nelle mancanze, nella sete di vita vera.

È dunque l’amore il protagonista, tanto quello piccolo e meschino, quanto  quello immenso che libera. Il «disio è volubile come il vento, / d’ogni passion si riempie e mai sei grato», scrive Reggiani, «continua voglia e insaziabile brama». Il peccato «è adornar stanza che sempre resta vuota». «Eppur quel viso non riesco a dimenticare», perché in ogni volto vi è un segno dell’Eterno, una promessa di Bene. «Non la beltade, ma l’alma miro, / e mente affligge come il legno il tarlo. / Se quest’è il voler di Dio, allor, sol sospiro», sono ancora versi del mirandolese, e la preghiera è continua, non viene mai meno quel filo che lega il corpo al Cielo, la terra all’Infinito: Padre, «cura la lascivia, dà al cor nobiltà», «il peccar m’ancora qui, alla vita, / Vivo per lei che del viver è la ferita».

Ma la memoria della vera Promessa non viene meno, rimane fiamma viva senza dolore. «Vacilla mente ma salda è la Fede», è un altro verso del libro. «Cura Padre il mio cor, fallo ancor vivace, / stanco son di soffrir, il Tuo aiuto bramo», l’invocazione spontanea. «La mia lascivia porto al Tuo altare, / sì che le membra tornino leggiadre», sazie di quel Pane celeste che è nutrimento e riposo. 

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 giugno 2022

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A Ferrara il primo Festival della Fantasia: «Fa conoscere e amare davvero la realtà»

7 Giu


Intervista al poeta Davide Rondoni, ideatore e Direttore Artistico della rassegna in programma il 10 e l’11 giugno tra il Castello Estense e il Giardino delle Duchesse. La prima sera verrà consegnata la cittadinanza onoraria ad Antonia Arslan

di Andrea Musacci

Davide Rondoni (foto Musacci)

«La fantasia va coltivata, aiuta a far crescere il senso critico e a meglio conoscere e amare la realtà nella sua essenza».

L’idea di organizzare un Festival della Fantasia a Ferrara a Davide Rondoni è venuta un paio di anni fa. Poeta e scrittore forlivese classe ’64, Rondoni è di casa nella nostra città, dove viene invitato spesso per incontri culturali. Nel 2019 del progetto – pensato per tutte le fasce d’età – ha parlato al Sindaco Alan Fabbri e alla Fondazione Zanotti (diretta da Riccardo Benetti), con la quale collabora da diversi anni in quanto amico personale di Enrico Zanotti. Il Festival rappresenta, infatti, la prima di diverse iniziative in occasione dei 20 anni dalla scomparsa di Zanotti, avvocato e consigliere comunale di Ferrara deceduto a 36 anni nel gennaio 2001 a seguito di una rara malattia.

La prima edizione della rassegna è in programma giovedì 10 e venerdì 11 giugno tra il Castello Estense e il vicino Giardino delle Duchesse, e vedrà tra gli ospiti più noti l’attore Gioele Dix, lo scrittore e docente dell’Università IULM di Milano Luca Doninelli, il musicista Ambrogio Sparagna e Antonia Arslan, scrittrice e saggista armena (nota soprattutto per il romanzo “La masseria delle alloddole”), protagonista lo scorso 4 novembre dell’incontro “Siamo tutti armeni” in streaming proprio con Rondoni e organizzato dalla stessa Fondazione Zanotti.

La sera del 10 giugno in Castello la Arslan riceverà dal Sindaco Fabbri la cittadinanza onoraria di Ferrara. Una decisione maturata dal primo cittadino lo scorso aprile in seguito alle forti critiche rivolte dall’ambasciatore turco in Italia, Murat Salim Esenli, allo stesso Fabbri per aver ospitato il 23 aprile al Teatro Comunale lo spettacolo “Metz Yeghern. Il genocidio degli armeni tra memoria, negazioni e silenzi” con la stessa Arslan. Uno spettacolo che fece luce sulle deportazioni e le eliminazioni degli armeni perpetrate dall’Impero ottomano tra il 1915 e il 1916, che causarono circa 1,5 milioni di morti (nella stima degli storici, i due terzi degli armeni dell’Impero).

Tornando al tema del Festival, Rondoni nei giorni scorsi ha accettato di rispondere ad alcune domande de “La Voce” sul significato profondo del termine “fantasia”.


Il termine “fantasia” richiama il “mostrare”. Di solito si mostra ciò che è. La fantasia, quindi, permette di svelare il reale, oppure creando, va oltre la realtà già data? 

«La fantasia, innanzitutto, è diversa dalla creatività, termine che non amo molto usare. La fantasia è il motore della creazione, mette in questione ciò che la realtà è, nella sua essenza più vera. Perché la realtà non è ciò che si vede, ma qualcosa di più profondo. Nella nostra epoca, domina, invece, una visione empiristica e materialistica: per questo è importante valorizzare la fantasia, che non è per nulla da intendere come fuga dalla realtà, anzi».


Recentemente ho letto una frase di Marco Pannella del ’73: “Non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo”. Lei cosa ne pensa? Meglio la fantasia al potere o il potere della fantasia?

«Concordo con Pannella…La fantasia al potere è stato uno slogan del ’68 purtroppo rivelatosi vuoto. Il potere della fantasia, al contrario, permette di vedere e amare meglio le cose, la realtà».


È possibile “educare” alla fantasia?

«La fantasia può essere educata come tutte le qualità, o meglio, può essere coltivata. Il metodo educativo più adeguato, come per la pazienza o la tenacia, è quello dell’esempio, dell’osmosi. Un giovane non si innamora della poesia, della letteratura, o di qualsiasi altra disciplina, perché glielo dice, se non impone, l’insegnante, ma perché è attratto dalla passione e dall’amore che l’educatore ha per ciò che insegna, per ciò che vuole trasmettergli. Oggi, invece, spesso, anche nella scuola, l’educazione viene intesa come mero passaggio di nozioni, ma di vera educazione ce n’è poca».


Venendo al Festival, perché è stata scelta Ferrara come luogo dove organizzarlo?

«Un festival così si può fare solo a Ferrara, città magica e che tanto ha stimolato la fantasia di poeti, letterati e registi. Qui non si corre il rischio, come per altre città, che la città venga usata solo come scenario. Ferrara è la capitale della fantasia».


Questo Festival cos’ha di diverso dagli altri?

«Non è una scatola vuota, una “scatola di intrattenimento”, come a volte rischiano di essere i festiva, ma una provocazione editoriale per far crescere il senso critico. La cultura, in generale, ci tengo a sottolinearlo, non deve servire al turismo, non ha come fine quello di richiamare turisti. Semmai al contrario, il turismo deve far da volano per far meglio conoscere e comprendere la cultura di un territorio».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 giugno 2021

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Con lo sguardo proteso oltre Ferrara e il Po

7 Giu

“Antonioni, Bassani, Vancini, Visconti e, affettuosamente, gli altri – Ferrara, il Po e l’Altrove” è il nome del volume di Maria Cristina Nascosi Sandri. Un dono alla nostra terra e all’arte che l’ha omaggiata

Ci sono corpi e sguardi di artisti e letterati talmente e profondamente legati alla terra ferrarese, da non riuscire, quando si parla dei primi, a non parlare anche della seconda.

Questo sa bene Maria Cristina Nascosi Sandri, giornalista, scrittrice, studiosa e ricercatrice di lingue anche dialettali, che l’anno scorso ha scelto di realizzare una piccola antologia dei suoi scritti dal titolo “Antonioni, Bassani, Vancini, Visconti e, affettuosamente, gli altri – Ferrara, il Po e l’Altrove” (Edizioni Cartografica, 2020, ora distribuita da “La Carmelina” di Federico Felloni).

Per chi, come l’autrice, da tanti anni è abituata alla cadenza quotidiana o settimanale dei propri articoli, a volte è necessario mettere dei punti fermi, e consegnare alla comunità tasselli di un lavoro durato anni, di una memoria personale e collettiva insieme.

Così la Nascosi Sandri in questo volume raccoglie testi scritti in circa quattro decenni tra carta e web, con l’aggiunta di alcune sue poesie dedicate al Po e a Ferrara. Sullo sfondo e nel midollo, quell’atmosfera trasognata e antica della città e del Delta, che emerge costantemente nelle pagine del libro. Radici di terra e di acqua da cui non può non nascere, e mai morire, un legame viscerale, materno. Un legame invincibile che accomunava oltre ai quattro citati nel titolo, anche gli altri protagonisti del volume (ma non meno importanti per l’autrice): Fabio Pittorru, scrittore, sceneggiatore, cineasta; Alfredo Pittèri, drammaturgo (non solo dialettale); Lyda Borelli Cini, attrice del Muto, moglie di Vittorio Cini; “Cici” Rossana Spadoni Faggioli, attrice teatrale della “Straferrara”, ed Elisabetta Sgarbi.

Un libro per Ferrara, dunque, un libro-omaggio alla nostra città e al suo territorio attraverso lo sguardo mai banale delle sue figlie e dei suoi figli dediti alla ricerca della bellezza e di quell’altrove citato anche nel titolo, oltre il fiume, la nebbia e i ricordi di una vita.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 giugno 2021

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Trasfigurare cose e luoghi: le poesie inedite di Lucia Boni

31 Mag

Uscita la nuova edizione di “Imbuti di cristallo” con i versi scritti durante il lockdown

Henri Matisse, Donna che legge, 1894


La sostanza del tempo nel quotidiano, nella vita animata da oggetti semplici che la poesia sa trasfigurare. E, insieme, il vuoto e l’attesa nel tempo del “confinamento” domestico obbligato.

Verso la fine del mese di marzo 2020, la poetessa ferrarese Lucia Boni ha composto alcuni versi ispirati proprio a quel lockdown di due mesi. Ora, vista l’assonanza con alcune sue poesie del 2009, ha deciso di pubblicarle insieme nella nuova edizione di “Imbuti di cristallo” (La Carmelina ed., 2021), con prefazione di Anna Paola Mambriani, postfazione di Monica Pavani e un commento di Gianni Cerioli del 2009.

Mai come in una rottura così netta e radicale, com’è stata la “segregazione” necessaria del 2020, ci siamo resi conto di come il tempo non possa avere oggettività. E così, nelle nuove poesie di Boni è protagonista il tempo del soggetto, fatto della stessa materia della vita di chi lo percepisce, degli oggetti che lo scandiscono, che affollano il quotidiano di chi scrive. Tempo inscindibile dallo spazio: «esploro», «colmiamo» sono alcuni termini usati dalla poetessa che dicono di un movimento.

Ma il tempo è anche legato al suono: le parole, la loro carne, è così diversa – nel loro mistero – da quella degli oggetti. Quest’ultimi sembrano guardiani, torri e mura della distanza, mentre le prime, vento, ciò che riempie senza confini, indefinibile. Riempiono. Sì, perché diverse volte le poesie di “Imbuti di cristallo” – nella prima edizione del 2009 – si chiudono con la parola «vuoto». Ma, come scriveva Bachelard nel suo “La poetica dello spazio”, «per i grandi sognatori di angoli, di buchi, niente è vuoto, la dialettica del pieno e del vuoto non corrisponde che a due irrealtà geometriche». «Le immagini abitano», prosegue il francese. «Lo spazio dell’attesa / non è vuoto», scrive Lucia Boni.

Nelle sue poesie, tanto quelle del 2009 quanto quelle del marzo 2020, questo «spazio dell’attesa» (di cosa, in realtà?) è un piccolo mondo vivo, raccolto e non fortificato. Gli oggetti evocati, nelle credenze e nei “fine pasto”, nel desco di stoviglie e terraglie, dicono dell’anima di chi li ha creati, di chi dona loro presenza, di chi li interpreta dandogli così vita. La poetessa li informa di sé e al tempo stesso ne è avvinta, ne dona e ne riceve senso.

Il luogo intimo dei suoi versi ha, dunque, l’atmosfera trasognata che solo una vera casa può avere, una dimora, un guscio dove riposare e riconoscersi. Dove gli spazi e i volti hanno una storia, le affezioni ritrovano sempre un proprio filo che li lega tra loro e nel tempo. Dove la memoria assume sostanza. Un luogo di verità.

Ma la verità è sempre nelle parole, come nel caso di Lucia Boni. Dar vita e verità alle cose significa trasfigurarle nelle parole. E così i movimenti, i piccoli rumori, i bagliori di luce nelle sue poesie hanno la consistenza del sogno. Come saremmo, viene da chiedersi, senza questa luce avvolgente, onirica, questa luce che inonda, “senza tempo”, spesso all’improvviso, i nostri ricordi, come lampi inattesi?

Forse davvero la nostra vita quotidiana si invera in pienezza grazie all’immagine che la poesia ci dona, immagine che non descrive e non annulla, che coglie e non adultera. È ciò che Lucia Boni sa fare. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 giugno 2021

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Se l’imprevisto innesca di nuovo la vita

24 Mag

“Le luci avare dell’alba” è il nome del nuovo romanzo dello scrittore ferrarese Giuseppe Muscardini

A Rovigo la vita di un 60enne insegnante di Liceo, scapolo e stimato conferenziere ormai prossimo alla pensione, sembra scorrere tranquillamente. Ma alcune lettere ritrovate, spedite tra il ’46 e il ’47 da una giovane donna tedesca al padre, dopo avergli regalato spunti per le sue sedute accademiche, sconvolgeranno positivamente la sua esistenza. Un’esistenza non più vissuta in una solitudine divenuta pesante, e nemmeno in un passato ingombrante, ma riannodando i fili tra il primo e il secondo, ricercando una radice e un «affetto sincero» che ridoni senso alla vita.È da poco uscito il romanzo “Le luci avare dell’alba” (Edizioni Amande, 2021) scritto da Giuseppe Muscardini, saggista e romanziere classe ’53, fino al 2015 in servizio nei Musei Civici d’Arte Antica di Ferrara in qualità di Responsabile della Biblioteca.

Nel romanzo, una sorta di archeologia dell’amore e della passione, il passato viene scavato, rievocato con forza. Un passato che è tale perché, in realtà, si annida ancora nel presente, essendone lo spirito, l’origine. Un presente che, però, è vissuto dal protagonista come angusto spazio solitario – sembra dirci lo scrittore -, dunque assoluto, di cui si illude di essere padrone. Il libro ha la tensione investigativa del romanzo giallo e la lentezza e l’accuratezza tipiche di chi è abituato alla ricerca storica e filologica. L’abbrivio della narrazione, in parte autobiografica, è una vicenda per alcuni tratti comune, per altri rara: poco prima della Liberazione, il padre del protagonista viene abbandonato dalla moglie Illa che fugge con un soldato tedesco. Nel cercarla, avrà un rapporto epistolare – e che tale rimarrà – con una dattilografa tedesca, Elke, prima di sposarsi con un’italiana, madre del protagonista. Elke è in un certo senso la proiezione di Illa, il filo pericoloso che lo lega alla moglie fuggita. Un rapporto a distanza, dunque, quello con Elke, la cui reciproca sincerità e mancanza di pudore è forse facilitata proprio dalla lontananza che sembra insormontabile e grazie alla quale si può coltivare l’illusione, alimentare la fantasia e il desiderio.

Fosse finito qui, il romanzo sarebbe stato uno di quelli in cui protagonisti sono gli amori impossibili, irrimediabili, quelli mai goduti. Quelli malinconicamente perduti ma che rimangono sempre tali: potenti affermazioni nelle esistenze di chi li vive, che mai si disperdono del tutto. E invece il protagonista si rifiuta di pagare “le colpe” del padre (e forse di quella generazione), di rassegnarsi. E di quel mucchietto di lettere non ne fa un reliquiario ma una fonte viva d’ispirazione. In questo sta il primo salto da lui compiuto: l’attingere dalla vita, pur trascorsa. Ma compirà anche un secondo, più importante salto, quello dalle parole all’azione, dopo aver trasformato parole morte in parole vive. Un passaggio, questo, per nulla scontato, ma che gli permetterà di meglio mettere a fuoco la propria vita, dopo aver messo a fuoco, nella propria completezza, gli avvenimenti passati riguardanti il padre. «Ormai tutto è inarrestabile», dice all’inizio il protagonista, ancora ignaro che l’imprevisto appare indipendentemente dal nostro evocarlo, dal nostro desiderarlo.

L’innesco, o meglio la voce profetica, anticipatrice, nella vita del protagonista – ancor prima della donna che, come Altro, come volto nel suo apparire gli permetterà di meglio guardarsi – sarà un suo giovane allievo e il suo racconto puro e carnale, non il rimpianto di «quelle felicità intraviste / dei baci che non si è osato dare», citando Brassens/De Andrè. Un amore non pensato, non lontano, ma vissuto dal ragazzo, bruciato e che fa bruciare, un amore clandestino ma senza vittime né tradimenti, come invece nel caso del padre della protagonista.

Un amore concreto, quello del giovane allievo, ma ancora racconto, scintilla dell’amore che sarà, dell’imprevisto incarnato, invece, nella donna (Rosemarie) che, finalmente, comparirà in corpo, verbo e storia, nella totalità quindi del suo essere persona, senza infingimenti poetici, né nostalgici, diretta, fuori dalla narrazione altrui, porta dell’avvenire dentro la vita del protagonista. Una variabile non calcolata che lo rende fragile, dischiudendolo, portandolo, di nuovo, fuori di sé. Come per ogni apertura, egli si sentirà dunque esposto, provocato nel profondo da questa donna mossa dalla volontà di cercarlo in Italia proprio in relazione al padre, ma ignara delle conseguenze di tutto ciò sulle loro vite. Non più investigatori, dunque, saranno, né tantomeno spettatori, ma attori di un’altra storia. È, questo, in fondo, e fuori di ogni retorica, un altro modo di costruire l’avvenire: lasciando tracce di vita piena a chi verrà.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 maggio 2021

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Il distacco profondo dell’arte e della poesia per vivere il tempo dell’inquietudine

9 Nov

Riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy al Festival Mimesis: “nello sconvolgimento contemporaneo è necessario scoprire la possibilità di vedere nell’oscurità”

«Assistiamo a un completo sconvolgimento della civiltà: l’arte e la poesia, più che la filosofia, oggi possono illuminarci».
Si può sintetizzare così l’importante seppur breve riflessione del noto filosofo francese Jean-Luc Nancy (foto) lo scorso 4 novembre in occasione del Festival Mimesis.
La rassegna, organizzata dall’Associazione “Territori Delle Idee” della Casa editrice Mimesis, normalmente in programma a Udine, si svolge fino al 14 novembre on line dal canale You Tube e dalla pagina Facebook del Festival. La settima edizione, centrata sul tema “Immagine e storia”, ha visto lo scorso 4 novembre Nancy dialogare con il giornalista de “L’Espresso” Wlodek Goldkorn e con il filosofo e critico Federico Ferrari a proposito del tema “Il tempo dell’inquietudine”.
«Inquietudine è assenza di quiete, di riposo, di tranquillità ma al tempo stesso qualcosa che ci mette in movimento, che ci spinge a cercare», ha esordito il filosofo francese. Un’inquietudine oggi, perlopiù negativa, che rischia di travolgerci: «è fallito lo sforzo moderno di concepire una comunità diversa dal modello fascista e da quello del socialismo reale. Oggi non si è più insieme, non c’è più comunità – ha proseguito Nancy -, e la società francese in particolare è molto divisa, anzi straziata». Il discorso sul multiculturalismo sta lì a dimostrarlo come esempio drammatico. L’alternativa ai modelli storici si era pensato di trovarla «in una sorta di universalismo possibile anche attraverso la laicità» e in un ottimismo in nome del progresso. Ma non ha funzionato.
«Oggi – secondo Nancy – non c’è più racconto, non possiamo più proiettare un futuro positivo per l’umanità: ciò è intrinseco al progresso tecnico, che tante catastrofi ha prodotto, dalla crisi ecologica alla pandemia di Covid», tragica prova del fatto che il progresso e la scienza «non possono risolvere tutto».
«Lo sconvolgimento» avvenuto nell’impero romano del IV-V secolo aveva comunque i cristiani come soggetto capace di «immaginare altro. Ma per noi oggi non è così», ha riflettuto con pessimismo. «Forse ci sarà una grande trasformazione della società verso il modello cinese o un’implosione di questo modello tecno-scientifico. Non è forse la fine del mondo ma di sicuro viviamo un periodo di enorme difficoltà: siamo in una sorta di oscurità».
Per questo, secondo Nancy, «è necessario conservare le luci», cioè la speranza, «ma anche scoprire la possibilità di vedere nell’oscurità: oggi bisogna cercare nell’arte e nella poesia, non nella filosofia, qualcosa che illumini». Riprendendo Bataille e il suo concetto di non-sapere, il filosofo ha evocato l’importanza dell’arte e della poesia come di «qualcosa che non è un sapere, una pretesa di sapere ma una sorta di distacco» positivo e profondo.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 novembre 2020

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Quando l’anelito della fede si fa parola poetica

9 Nov

Il libro di Giovanna Massari edito da Faust edizioni

“I canti dell’esistenza” è il titolo del libro di esordio di Giovanna Massari, bondenese d’origine, classe ’57 residente a Ferrara. Edito per Faust Edizioni (Collana Arbolè, 58 p., prefazione dello storico Paolo Sturla Avogadri), il volume di brevi testi poetici uscito a giugno è espressione della forte sensibilità per la dimensione spirituale di questa ex dirigente d’esercizio alle Poste Centrali di Ferrara.
Senza infingimenti Massari lascia spazio al dolore, spesso usando la ricorrente immagine delle lacrime. La sua è una lucida disamina del vivere umano, a tratti anche cruda: «non siamo altro che poveri pezzi di carne», scrive. L’orrore del «mai più», «lo stillicidio inesorabile del tempo» pervadono le pagine, il senso della corruzione di ogni cosa creata le innerva, ma senza dominarle. L’ultima parola è ben altra, la vita – l’autrice sembra esserne pienamente cosciente – può conoscere l’«amore misericordioso di Dio», «la luce della vita eterna». Per questo l’invito a se stessa e a ogni lettore è «risplendi alla luce di Cristo!».
A luglio l’autrice ha inviato una copia del libro al Santo Padre. La risposta è arrivata il 10 settembre: «Sua Santità desidera manifestarLe cordiale gratitudine per il dono e per i sentimenti di filiale venerazione che hanno suggerito il premuroso gesto e, mentre assicura il Suo ricordo nella preghiera, invoca la materna intercessione della Beata Vergine Maria e di cuore imparte la Benedizione Apostolica».
Una grande emozione che suggella la soddisfazione di veder pubblicati brani che dicono di una vita dedita alla fede, di un’interiorità capace tanto di profondo raccoglimento quanto di viva espressione delle più intime meditazioni.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 novembre 2020

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