
Il nostro Arcivescovo ha nominato Alberto Natali nuovo presidente dell’AC diocesana, scegliendolo da una terna di nomi: «Eredito un’AC tenace, con forti radici e tradizioni. La voglio capace di leggere con efficacia e amore il tempo in cui vive, che sappia sempre partire dai più deboli, innanzitutto i bambini». E«in AC dobbiamo dare più fiducia ai giovani, non guidarli in eterno, ma farci guidare da loro»
Natali, partiamo dalle “basi”: qual è la formazione ecclesiale del nuovo presidente diocesano di AC?
«Sono cresciuto e mi sono formato nella Chiesa che accoglieva la nuova Azione Cattolica nata dalla riforma voluta da S. Paolo VI e affidata a Vittorio Bachelet, accompagnato dall’esempio di mia madre che fu attivista di AC negli anni del dopoguerra, ma che accolse con semplicità e rigore le novità introdotte dal nuovo Statuto. Troppo piccolo per partecipare e comprendere la forza dirompente del ’68, ma abbastanza grande a metà degli anni ’70 per iniziare a partecipare attivamente alla vita della mia comunità, allora la parrocchia della Madonnina, e vedere il fermento di un mondo giovanile cattolico che cercava di accompagnare la Chiesa locale, con tutti i limiti che i giovani possono avere, ma anche con tutto il loro entusiasmo, dentro un mondo che era e stava continuamente cambiando. Sono stato educatore ACR, ho seguito gruppi giovanissimi e giovani, l’impegno e l’esperienza educativa è stata fin da ragazzo la mia più profonda vocazione».
Quali sono i suoi punti di riferimento, i “maestri”?
«Ho un debito verso moltissime persone. Ne citerò alcune, consapevole di far torto ad altre. Non posso che partire da mons. Giulio Malacarne, il mio vecchio parroco, un innamorato della Chiesa e dell’AC che ha speso ogni briciola di energia educativa per i giovani della sua parrocchia; mons. Andrea Turazzi, allora assistente diocesano ACR, che mi ha praticamente inventato come educatore; mons. Ivano Casaroli, che è stato assistente generale di AC, e ha sempre seguito ed accompagnato con rigore ed entusiasmo i campi giovanissimi a cui ho partecipato; mons. Francesco Forini, assistente diocesano del settore giovani negli anni ’80, che ha guidato e formato in quegli anni un gruppo di scapestrati ventenni, tra cui il sottoscritto, che si erano incoscientemente assunti il compito di guidare i giovani della diocesi nel loro percorso formativo».

E personalità che non ha avuto modo di conoscere personalmente?
«Gli anni più intensi della mia formazione hanno coinciso con gli anni più violenti del terrorismo: avevo 17 anni quando fu rapito ed ucciso Aldo Moro, 19 quando venne assassinato Vittorio Bachelet: se erano state, fino ad allora, figure significative, divennero, nel momento del loro sacrificio, soggetti di un confronto ineludibile».
L’AC, anche nella nostra Arcidiocesi, viene da un periodo difficile, soprattutto legato alla pandemia: come l’ha vissuto personalmente e come AC?
«Il periodo della pandemia è stato per me un tempo molto pesante, da un punto di vista psicologico, ho sofferto terribilmente, più di quello che potevo immaginare, la mancanza di contatto con le persone. Ho sfruttato al massimo, per quello che le regole, da un certo punto in poi, permettevano, la possibilità di incontrare amici e di stare con loro. Va da sé che tutto questo ha avuto ripercussioni anche sulla mia vita associativa. Sono cresciuto in un’associazione che aveva fatto del detto “meno carta e più chilometri” il suo modo di operare. Mi è mancato il contatto con la gente, guardare le smorfie dei loro volti, sentire il loro fiato mentre pronunciavano le parole, il tocco delle loro mani. Abbiamo scoperto l’online, che ci è stato molto utile per mantenere i contatti con i nostri associati, ma l’online non è relazione e non la crea e l’AC o è relazione o non è».
Venendo al presente, che AC eredita in Diocesi?
«Come detto, veniamo da un periodo difficile e l’AC ne è uscita, direi, un po’ sfiancata, appesantita, ha imparato ed assunto, forse in modo un po’ acritico, nuove modalità comunicative. Dobbiamo tener presente che il modo in cui comunichiamo esprime il nostro essere e non è del tutto indifferente rispetto alle relazioni che creiamo. Soffriamo, inoltre, come tutto il mondo associativo, di una crisi nell’assunzione di ruoli di responsabilità. Ma eredito anche un’AC tenace, che non si dà per vinta, che è consapevole della bontà e del valore del proprio mandato nella Chiesa e nel mondo. Un’AC che pur in mezzo a tante difficoltà e fatiche è pronta a rinnovarsi per essere utile ed efficace strumento di testimonianza della presenza del Signore in mezzo a noi».
E invece che AC intende costruire nei prossimi anni? Quali proposte avanzerete?
«Viviamo in quello che molti hanno definito un mondo “liquido”, la pandemia ci ha instillato la paura dell’altro, i nuovi mezzi di comunicazione ci fanno essere in contatto con tutti, ma non ci fanno conoscere nessuno, abbiamo perso molti punti di riferimento senza averne trovati di nuovi altrettanto efficaci. Il mio desiderio è quello di un’AC che, forte delle proprie radici e tradizioni, sappia leggere con efficacia e amore il tempo in cui è chiamata a vivere, che sappia sempre partire dai più deboli, innanzitutto i bambini e tutte quelle persone a cui, per qualsiasi motivo, vengono negati i diritti fondamentali. Desidero un AC che sappia donare, ancora, ai giovani la speranza che il futuro si può scrivere e che anche loro hanno una penna in mano. Spero che sappiamo guidare la nostra gente a riappropriarsi del proprio tempo, perché troppo spesso siamo presi “dall’affanno” e non sempre scegliamo la parte migliore. Desidero e spero che si riesca a fare tutto questo lavorando insieme a tutte le altre realtà ecclesiali con le quali l’AC già collabora da anni e che nel rispetto dei carismi di ognuno si crei quel poliedro che rappresenta la realtà vitale della Chiesa».
Quali sono le grandi sfide che l’AC diocesana dovrà affrontare nei prossimi anni?
«Qui si potrebbero dire molte cose, ma ne indicherò una, che a mio avviso se non le racchiude tutte, ne comprende però molte. Sappiamo bene che la realtà della nostra Diocesi è costituita, a parte poche eccezioni, da piccole comunità, i paesi della nostra campagna tendono a spopolarsi ed inoltre soffriamo della carenza di sacerdoti. Ora di fronte a questo scenario il nostro Vescovo ci ha indicato la strada delle Unità Pastorali. Ritengo che le Unità Pastorali debbano diventare il metro per un profondo ripensamento del modo di essere dell’associazione. Attenzione, però, questa non è una mera questione organizzativa, ma è un modo nuovo di incarnarsi nel territorio, un modo di leggere le esigenze del popolo da una prospettiva diversa. Ancora, è un modo nuovo di collaborare con i nostri pastori, ci è chiesto di assumerci delle responsabilità in una prospettiva più ampia, di essere, insomma, corresponsabili nella vita della Chiesa».
Infine, i giovani: diversi di loro sono stati eletti nell’Assemblea dell’11 febbraio scorso. Soffrite anche voi il ricambio generazionale? E chi sono i giovani della nostra AC diocesana? Come vivono l’appartenenza all’AC e alla Chiesa?
«Difficile parlare della realtà giovanile in poche parole, esprimerò un mio parere generale consapevole della sua assoluta opinabilità. Innanzitutto, è vero, anche noi soffriamo del ricambio generazionale e i giovani che passano in AC sono i giovani che noi vediamo per le strade della nostra città e dei nostri paesi. Dobbiamo, però, dire che in AC si fa un’incredibile esperienza di intergenerazionalità che ha pochi eguali. Ritengo che non esista una questione giovanile in sé, come spesso si dice, ma esiste una questione giovanile perché legata ad una questione del mondo adulto. Molti giovani si sono disaffezionati all’impegno in associazione e nel mondo civile perché noi adulti continuiamo a non dare loro fiducia, perché continuiamo a credere che debbano essere eternamente guidati, perché li trattiamo da bambini, e si comportano, quindi, come tali anche se hanno vent’anni. Se noi adulti avessimo il coraggio, almeno una volta, di lasciarci guidare dai giovani, penso resteremmo piacevolmente sorpresi della loro fantasia, della loro forza ed anche della loro lungimiranza. A noi adulti è chiesto di camminare al loro fianco e, se dovessero inciampare, di allungare una mano ed aiutarli a rialzarsi e, senza troppe paternali, riprendere gioiosamente il cammino insieme».
Andrea Musacci
Pubblicato sulla “Voce” del 5 aprile 2024











L’Europa non come fredda e distante burocrazia, ma come fusione a caldo di progetti, forze vive, corpi intermedi. E’ questo che emerso in modo forte la sera di venerdì 3 maggio nel salone di Casa Cini a Ferrara, durante l’incontro “L’Europa che vogliamo” organizzato da Ferrara Bene Comune, Movimento Federalista Europeo, Cooperatori salesiani, ACLI, Agesci, Movimento Rinascita Cristiana, Azione Cattolica, Masci e Confcooperative Ferrara. Dopo la presentazione di Chiara Ferraresi, presidente diocesana di AC, è intervenuto Guglielmo Bernabei, presidente di Ferrara Bene Comune, che ha moderato l’incontro. Fra le domande e le suggestioni proposte da Bernabei ai relatori, il tema della sovranità, che “oggi ha senso solo se declinato a livello europeo”, e quello del “baratto” – spesso purtroppo imposto – tra lavoro e diritti. Il primo a prendere la parola è stato Giorgio Anselmi, presidente nazionale del Movimento Federalista Europeo: “oggi l’Europa può dare una risposta all’altezza delle sfide globali solo in quanto tale”, se unita e forte. Centrale per Anselmi dev’essere il principio di sussidiarietà, che permette “l’autonomia e l’interdipendenza di tutti i corpi sociali”, dalla famiglia allo Stato, passando per quelli intermedi. “La federazione europea – ha proseguito – è l’unico modo per dare risposte ai problemi dei cittadini”, in un mondo interdipendente e complesso come quello di oggi. “I singoli Stati non sono più in grado di assicurare a pieno la sovranità, basti pensare alle multinazionali che delocalizzano”, promettendo lavoro e investimenti in cambio di una riduzione dei diritti dei lavoratori, della tassazione e dei vincoli ambientali. L’obiettivo, dunque, è a livello continentale quello di riuscire a “unire diritto e forza”, che hanno senso e legittimità solo se insieme. “L’Europa non può più essere raccontata solo con la sua storia, ma attualizzandola, in quanto per la stragrande maggioranza delle persone, giovani compresi, significa poco o nulla”. Così ha esordito Matteo Bracciali, responsabile Affari Internazionali Acli Nazionali, che ha ripreso e sviluppato il tema della tassazione delle grandi imprese, denunciando i “ricatti” da parte delle multinazionali, e affrontando il tema dei grandi colossi del web (Amazon, Google, Facebook), che riescono a evadere tasse per centinaia di milioni di euro. Un nuovo “Welfare Europe”, dunque, fatto di tante “protezioni” per i lavoratori, di “incentivi alla formazione” e molto altro, è più che mai necessario, e potrebbe legarsi “all’introduzione di una Web Tax e della TTF (Tassa su Transazioni Finanziarie)”. Web Tax e TTF che, per Bracciali, “potrebbero andare a finanziare il welfare aziendale”. L’ultimo intervento è spettato a Niccolò Pranzini del Comitato europeo Scautismo, che, nel ribadire come “l’Europa non sia solo composta da ‘grigi burocrati’ ”, ha citato la propria esperienza di alcuni anni a Bruxelles, per raccontare ad esempio come lavora la Commissione Europea, e come, “assieme a tante cose negative, ho visto persone da tutto il continente incontrarsi e portare avanti progetti” negli ambiti più svariati: “così, non a freddo, si forma una vera cittadinanza europea, e si costruisce una casa comune europea, sogno vivo anche per tanti giovani inglesi, impauriti dai possibili effetti della Brexit”.