Tag Archives: Filosofia

Il mito e quel «riarmo mentale» che ci porta dritti al totalitarismo

1 Ott

ERNST CASSIRER. 80 anni fa moriva il noto filosofo tedesco. Postumo, uscì nel ’46 un suo saggio sugli aspetti irrazionali e «demoniaci» insiti anche nei moderni poteri statali. Un’analisi dura che ancora oggi può farci molto riflettere 

di Andrea Musacci 

Nella primavera del 1945 moriva improvvisamente uno dei più importanti filosofi del Novecento, Ernst Cassirer. Ebreo e neokantiano, non ha mai potuto vedere la pubblicazione del suo “Il mito dello stato”, da lui scritto tra il 1944 e il ’45 e concluso e copiato dal suo manoscritto pochi giorni prima della sua morte improvvisa che lo colse il 13 aprile all’età di 71 anni. L’opera è stata pubblicata nel ’46.

EBREO IN FUGA DAL NAZISMO

Nel 1906 grazie a Wilhelm Dilthey, Casasirer conseguì l’abilitazione all’Università di Berlino, dove fu a lungo libero docente. A causa delle sue origini ebraiche ottenne solo nel 1919 una cattedra nella neofondata Università di Amburgo, di cui divenne più tardi rettore (1929-30), e dove tra l’altro fu supervisore delle tesi di dottorato di Leo Strauss e Joachim Ritter. Essendo di origini ebraiche, con l’avvento del nazismo nel 1933 dovette lasciare la Germania, insegnò a Oxford dal 1933 al 1935 e fu professore a Göteborg dal 1935 al 1941. In quegli anni fu naturalizzato svedese ma, ritenendo ormai anche la neutrale Svezia poco sicura, si recò negli Stati Uniti d’America, dove fu visiting professor nell’Università di Yale, nel New Haven, dal 1941 al 1943 e docente alla Columbia University, New York dal 1943 fino alla morte. Dopo essere uscito dalla tradizione della Scuola di Marburgo del neokantismo, ha sviluppato una filosofia della cultura come teoria fondata sulla funzione dei simboli nel mito, nella scienza, nella religione, nella tecnica. Ad Amburgo ha collaborato attivamente alla biblioteca di Aby Warburg. Scrive il filosofo statunitense Charles W. Hendelnella premessa all’edizione americana de “Il mito dello stato” (1946): «In tutto ciò che egli intraprendeva c’era una costante dimostrazione delle interdipendenze delle diverse forme della conoscenza e della cultura umane. Egli possedeva, cioè, il genio della sintesi filosofica, oltre che l’immaginazione e la dottrina dello storico».

IL RAZZISMO DI GOBINEAU

Nel libro, Cassirer dopo un’analisi del mito e della «lotta» contro di esso nelle diverse teorie politiche nel corso dei secoli, analizza prima il “culto dell’eroe” di Thomas Carlyle, filosofo scozzeze del XIX secolo e poi il noto saggio di un contemporaneo di quest’ultimo, “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane” del conte francese Joseph Arthur de Gobineau. Secondo quest’ultimo, la storia è una scienza e – scrive Cassirer -, sempre secondo Gobineau, «ora, il sigillo è violato e il mistero della vita umana e della civiltà umana ci si rivela, poiché il fatto della diversità morale e intellettuale delle razze è evidente». Prosegue Cassirer nella sua critica al francese: «Una delle sue convinzioni più salde è che la razza bianca sia la sola che abbia avuto la volontà e la forza di costruire una vita culturale (…). Le razze nere e gialle non hanno vita propria, non volontà, non energia. Non sono altro che materia morta nelle mani dei loro padroni, la massa inerte che deve  essere mossa dalle razze superiori». Prosegue poi Cassirer: «La nostra idea moderna dello stato totalitario era del tutto aliena allo spirito del Gobineau (…)». Tuttavia, egli «appartiene al novero di quegli scrittori che, in modo indiretto, più hanno fatto per preparare l’ideologia dello stato totalitario. Era il totalitarismo della razza che tracciava la strada alle posteriori concezioni dello stato totalitario». E tutto ciò, prosegue Cassirer, nonostante Gobineau fosse «un devoto cattolico»: infatti, «il più potente avversario di Gobineau, si capisce, era la concezione religiosa dell’origine e del destino dell’uomo». La sua teoria, insomma, era «in contraddizione flagrante con gli ideali etici della religione cristiana».

Cassirer prosegue poi la propria analisi, arrivando a parlare del presunto legame tra razzismo e nazionalismo: «A noi sembra naturale stabilire un legame fra razzismo e nazionalismo. Siamo persino portati a identificarli. Ma questo non è corretto, né dal punto di vista storico né da quello sistematico (…). Questa distinzione diventa chiarissima» nell’opera di Gobineau, aristocratico e nostalgico del feudalesimo, che «non era affatto un nazionalista, e non era nemmeno un patriota francese». Rimane il fatto che il suo «mito della razza ha lavorato come un potente corrosivo, ed è riuscito a dissolvere e disintegrare tutti gli altri valori».

LO STATO TOTALITARIO TRA MITO, MAGIA E CULTO DEL CAPO

Venendo al Novecento, Cassirer arriva quindi a spiegare come «nelle situazioni disperate l’uomo farà sempre ricorso a mezzi disperati, e i miti politici dei nostri giorni sono stati altrettanti mezzi disperati di questo genere». Nelle crisi della vita sociale, quindi, «è ritornata l’ora del mito», contro ogni forma di «organizzazione razionale» stabilita. Il mito, quindi – con le sue «potenze demoniache» – «non è stato realmente vinto e soggiogato». Riprendendo la definizione dello studioso francese Edmond Doutté (1867-1926) – il mito è «il desiderio collettivo personificato» – Cassirer scrive a proposito del culto del capo e della dittatura del suo tempo: «L’esigenza di un capo appare soltanto quando un desiderio collettivo ha raggiunto una forza travolgente, e quando, d’altro lato, tutte le speranze di soddisfare questo desiderio in una maniera ordinata e normale sono fallite». In questi momenti, «l’intensità del desiderio collettivo si incarna nel capo»; legge, giustizia e Costituzione non valgono più niente. «Ciò che soltanto rimane è il potere mistico e l’autorità del capo, e la volontà del capo è la legge suprema».

Razionalità e mito si confondono nella moderna politica totalitaria: è la «nuova tecnica del mito»: «L’uomo politico moderno ha dovuto combinare in sé stesso» due funzioni tra loro diverse: «egli è il sacerdote di una nuova religione, del tutto irrazionale e misteriosa», appunto perché fondata sul mito. «Ma – prosegue Cassirer – quando deve difendere e diffondere questa religione, egli procede in modo estremamente metodico. Nulla è lasciato al caso». Così il «vero riarmo», il primo in ordine temporale, della Germania nazista non fu quello militare ma «cominciò coll’inizio e con lo sviluppo dei miti politici» che portarono a un «riarmo mentale». Inoltre, questi miti politici moderni portano anche a una «trasformazione del linguaggio umano. La parola magica prende la precedenza sulla parola semplice».E portano anche alla creazione di «nuovi riti»: «poiché, nello stato totalitario, non c’è nessuna sfera privata indipendente dalla vita politica, tutta la vita dell’uomo viene improvvisamente inondata da un’alta marea di nuovi riti». L’analisi di Cassirer è lucida e impietosa: «non c’è niente che abbia maggiore probabilità di addormentare tutte le nostre forze attive, la nostra capacità di giudizio e di discernimento critico, e di sopprimere il nostro sentimento della personalità e della responsabilità individuale, quanto il compimento costante, uniforme e monotono degli stessi riti». Adifferenza dei pur terribili poteri del passato, i miti politici moderni «non hanno cominciato con l’esigere o proibire certi atti. Si sono invece proposti di cambiare gli uomini, per poter regolare e controllare i loro atti»: hanno agito quindi come «un serpente che cerca di paralizzare la propria vittima prima di attaccarla». Così,  la «sfera di libertà personale» viene annichilita.

Infine, ma non meno importante, Cassirer analizza come la «vita politica moderna» abbia “attualizzato” forme antiche di divinazione: «L’uomo politico diventa una specie di pubblico negromante. La profezia è un elemento essenziale della nuova tecnica di governo (…); l’età dell’oro viene annunciata di continuo».

L’insegnamento finale di Cassirer è da meditare profondamente anche oggi, nelle “secolarizzate” e postmoderne società avanzate del XXI secolo: «Tutti noi abbiamo avuto tendenza a sottovalutare questa forza» dei miti politici moderni: all’inizio «li trovammo così assurdi ed incongrui, così fantastici e ridicoli, che quasi non potevamo indurci a prenderli sul serio. Ormai è diventato chiaro a noi tutti che questo era un grande errore. Non dovremmo commettere l’errore una seconda volta».

***

Marco Bertozzi e il ruolo della filosofia contro il mito

“Ernst Cassirer e il mito dello stato” è stato il tema al centro della conferenza di Marco Bertozzi svoltasi lo scorso 26 settembre nella Sala Agnelli della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara. Introdotto da Filippo Domenicali (Istituto Gramsci di Ferrara, che assieme all’Isco ha organizzato l’iniziativa), Bertozzi ha svolto un’ottima introduzione de “Il mito dello stato” del filosofo tedesco.Ricordiamo che Bertozzi è docente di “Storia della filosofia politica” a UniFe, Direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara e Presidente del Comitato scientifico del Centro internazionale di cultura “Giovanni Pico” di Mirandola.

Cassirer – ha spiegato Bertozzi – nel ’44-’45 ha la percezione che il potere mitico abbia avuto un «potere schiacciante». Questa «specie di stregoneria, di incantamento» è stato dal potere moderno «sfruttato e tecnicizzato» per manipolare le masse convincendole che la vera libertà stia nell’essere sudditi – più che cittadini – di un potere totalitario. Per il tedesco, in politica viviamo sempre su un terreno «vulcanico», dominato cioè da «forti caratteri emozionali e irrazionali». Bertozzi ha quindi citato una novella di Thomas Mann, “Mario e il mago” (1930), per sottolineare in Cassirer l’insistenza del forte potere di suggestione, «magico» appunto, che il potere può avere. Il relatore ha poi citato il noto testo “Il tramonto dell’Occidente” (1918) di Spengler, dove quest’ultimo spiega come la nascita di una cultura sia sempre un «atto mistico», qualcosa di legato al «destino», cioè a qualcosa di «inevitabile». L’analisi di Cassirer è stata poi da Bertozzi confrontata con alcuni passaggi di Heidegger in “Essere e tempo” (1927) è l’idea di «destino comune». In conclusione, anche la riflessione di Cassirer – pur esponente del cosiddetto “neoilluminismo” – è connotata da una rilevante negatività:il mito – per lui – è qualcosa di «invulnerabile», che «la filosofia, la razionalità può solo aiutare a conoscere, a riconoscere e quindi a combattere». Forse non è poco, ma di sicuro c’è bisogno di altro per salvarci dal rischio del totalitarismo.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 ottobre 2025

Abbònati qui!

Mitezza e profondità: ricordo di Giuliano Sansonetti

1 Mar

Oltre 80 i presenti lo scorso 24 febbraio a Casa Cini per il pomeriggio in memoria del prof. Giuliano Sansonetti: diversi gli interventi di colleghi, amici, allievi: «traduttore e “introduttore”, figura fondamentale»

Circa 80 i presenti lo scorso 24 febbraio a Casa Cini, Ferrara, per il pomeriggio dedicato a Giuliano Sansonetti, docente, saggista, traduttore e sindacalista venuto a mancare il 6 febbraio 2023. L’evento è stato organizzato innanzitutto dalla vedova Anna Lodi e dalla figlia Silvia, assieme all’Istituto di Cultura “Casa Cini” e all’Istituto Gramsci di Ferrara. Nel suo intervento introduttivo, Piero Stefani ha ragionato proprio sui vari ambiti di impegno di Sansonetti e dell’importanza, nella sua vita, «della parola da ricercare, sempre da scegliere». Un’arte sopraffina, dedicata in particolare a quattro autori: Gadamer, Levinas, Henry e infine Tilliette, di cui era anche amico.

Come amico gli era anche Silvano Zucal, docente di Filosofia Teoretica e di Filosofia della Religione all’Università di  Trento, che lo ha ricordato anche come intellettuale «attento e raffinato» e ha parlato degli studi di Sansonetti sulla cosiddetta “Cristologia filosofica”, ad esempio sulla diatriba fra Tilliette e Fabro del ’76. Risale, invece, al 1988 l’inizio della collaborazione di Sansonetti con l’editrice Morcelliana, rappresentata a Casa Cini dal Direttore Editoriale Ilario Bertoletti che – oltre a sottolineare il suo «tratto garbato dell’amicizia» – si è concentrato sulla sua ricerca teoretica fra ermeneutica, fenomenologia ed etica. «Sansonetti – ha proseguito – ha tradotto testi filosofici importanti del dibattito contemporaneo». E proprio tra «filosofia dell’interpretazione» e «filosofia della traduzione» si è mosso l’ultimo relatore, Francesco Ghia, professore di Filosofia morale all’Università di Trento (assente Piergiorgio Grassi per un grave lutto familiare). Ghia ha riflettuto sull’arte della traduzione come arte ermeneutica simile alla scultura, nella quale fondamentale è l’aspetto del «togliere», per far emergere il più possibile l’essenza del testo originario.

L’essenza e l’essenziale rappresentati nella vita di Sansonetti, dunque. Cuore e semplicità emersi anche dagli interventi successivi, come quello di Roberto Formisano, docente di UniFe, che definito Sansonetti non solo, non tanto un traduttore ma un «introduttore» per aver portato in Italia filosofi del Novecento prima sconosciuti o poco conosciuti. Del suo carattere «solo apparentemente burbero ma in realtà pacato ed equilibrato» ha parlato poi Mirella Tuffanelli, ricordando anche il loro comune impegno nella CISL, mentre il collega di UniFe e conterraneo (marchigiano) Marco Bertozzi ha ricordato il loro percorso simile e il comune maestro Italo Mancini.

Spazio poi ad alcuni suoi ex allievi: Caterina  Simoncello, che lo ha definito come «presenza potente ma sempre delicata e discreta» e capace di «fare filosofia gettando sempre un ponte sulla vita»; Antonio Moschi, che lo ha definito una figura «distinta e accogliente», e Giovanni Albani: «ci chiedeva di interrogare alla pari gli autori e di rendere la filosofia sempre viva, contemporanea», ha detto quest’ultimo.

Sempre viva è rimasta, in Sansonetti, anche la fede in Cristo. Per questo, al convegno è seguita una S. Messa in sua memoria nella vicina chiesa di S.Stefano, presieduta da mons.Massimo Manservigi e accompagnata dall’Accademia Corale “Vittore Veneziani” (di cui era Presidente), che ha eseguito la Messa di Roveredo dello stesso maestro Veneziani.

«Mite nei modi, profondo nel pensiero e fermo nella parola» lo ha definito mons. Manservigi nell’omelia, ricordando il suo intervento a Casa Cini nel marzo 2022 sul tema della “giustizia”, per la “Cattedra dei credenti”. Per Sansonetti, ha detto, «giusto è colui che fa dono di sé, agendo per il bene degli altri. Ora Giuliano può godere del “faccia a faccia” con il Giusto, con l’Altro, cioè Dio».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 1° marzo 2024

La Voce di Ferrara-Comacchio

La filosofia nel Santo Rosario: padre Giuseppe Barzaghi a Ferrara

24 Apr

I Misteri e la dialettica, un rapporto originale. Incontro il 4 maggio a Casa Cini

di Andrea Musacci

Cosa c’entra la filosofia con il Santo Rosario? Come questi due mondi possono incontrarsi? 

Su questo il prossimo 4 maggio rifletterà padre Giuseppe Barzaghi (foto), Direttore dello Studio Filosofico Domenicano di Bologna, sacerdote domenicano, saggista e docente di Teologia. L’appuntamento è per le ore 18.30 a Casa Cini, Ferrara. Si tratta dell’ultimo dei tre incontri del ciclo “Il cuore non basta. Filosofia e fede oggi: un legame da riscoprire”, organizzato dalla Scuola di Teologia per laici “Laura Vincenzi” e coordinato dal prof. Maurizio Villani. I primi due incontri si sono svolti il 23 febbraio con Anna Bianchi (Università Cattolica di Milano) su “Fides et ratio” e il 16 marzo con lo stesso Villani su “Percorsi fenomenologici sulle religioni”. 

Il titolo dell’incontro di p. Barzaghi riprende, invece, quello di un suo noto libro, “Il riflesso. La filosofia dove non te l’aspetti o il rosario filosofico” (ESD Edizioni Studio Domenicano, collana Anagogia, ottobre 2018.)

La dialettica porta alla Gloria

Per un approccio integrale al sapere, occorre trovare una visione sintetica – scrive padre Barzaghi nel suo libro – nel senso di «tecnicità dell’operazione teoretica» e di «visione che raccoglie tutto, anche i rimasugli. I rimasugli sarebbero lo scarto», ciò che per l’uomo di scienza è opinabile.

La struttura più conforme è quella dialettica: tesi, antitesi e sintesi (che non è mera somma, ma oltrepassamento degli elementi, loro superamento nella relazione). Anzi: Positio, Oppositio, Compositio. Ma questo metodo, questa struttura si può applicare anche per i Misteri della nostra fede: la positio è rappresentata dai cinque misteri gaudiosi, l’oppositio dai cinque misteri dolorosi, la compositio dai cinque misteri gloriosi. Così, ognuna delle tre parti si divide in cinque tappe, proprio come le cinque decine del Rosario. Questa l’originale intuizione del domenicano.

Misteri gaudiosi (Positio)

Praepositio: lo stupore, la meraviglia da cui nasce la filosofia. Ovvero, la meraviglia di Maria durante l’Annunciazione. Dispositio: la Visitazione di Maria ad Elisabetta, «l’abbandono di qualsiasi presupposto», «l’umiltà di chi non sa». Propositio: proporre una nuova idea: la Nascita di Gesù. Suppositio: la Presentazione di Gesù al Tempio. Ovvero, proporre la nuova idea ma in modo riflesso. Expositio: Ritrovamento di Gesù tra i dottori nel Tempio: l’interrogare di Gesù.

Misteri dolorosi (Oppositio)

Depositio: l’agonia, la lotta, l’agone: Gesù nel Getsemani. Contrappositio: il primo atto della lotta: la Flagellazione di Gesù. Interpositio: la Derisione di Gesù. Impositio: la salita di Gesù al Calvario. Decompositio: «l’addormentarsi in Dio, nella nebbia della non conoscenza».

Misteri gloriosi (Compositio)

Superpositio: «il risvegliarsi in Dio, la Resurrezione di Gesù», cioè «considerare da un punto di vista assoluto». Transpositio: avere quindi uno sguardo più ampio e pieno: l’Ascensione di Gesù Cristo. Circumpositio: lo sguardo pieno porta a un pieno coinvolgimento: lo Spirito agisce dall’interno. Appositio: coinvolgimento anche sensibile: l’Assunzione di Maria Vergine in cielo in anima e corpo. Infine, Diapositio: «In Paradiso c’è la perfetta compositio», scrive p. Barzaghi. La diapositio è «la Gioia, filtrata dal Dolore, e che si consu(m)ma, cioè arriva a perfezione, nella Gloria». «Che cos’è il meraviglioso della Gloria? È l’atto nel quale gioia e dolore sono la stessa cosa. E questa è la commozione, la compassione e la consolazione», sono ancora sue parole. È il «meraviglioso senza perché»: «si tratta di una identificazione, come se l’addormentarsi in Dio nel risvegliarsi in Dio implicasse una fusione».

Dallo stupore iniziale, “crudo”, naturale si arriva dunque alla mistica, passando per la speculazione.

***

Si chiede ai partecipanti iscritti in presenza di comunicarlo alla Segreteria dell’Istituto. Gli incontri saranno anche disponibili (in diretta e come registrazioni) sulla piattaforma YouTube dell’Ufficio Comunicazioni diocesano.

Per informazioni e iscrizioni contattare la Segreteria: Tel. 0532 242278 

segreteria@stlferraracomacchio.ithttp://www.stlferraracomacchio.it

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Cristo condizione dell’umano: Enzo Cicero a Ferrara

24 Apr

Dal dio astratto a una nuova cristologia: l’intervento di Enzo Cicero a Ferrara. Arrivare a Cristo tramite l’analogia, suprema struttura trascendentale di tutto ciò che riguarda l’umano

È ancora possibile oggi un discorso su Cristo partendo da basi filosofiche? È possibile, dunque, una cristologia filosofica? Una grande sfida a cui cerca di dare una prima risposta Vincenzo Cicero col suo libro “Sapienza muta. Dio e l’ontologia” (Morcelliana, 2023), presentato lo scorso 21 aprile nella sede dell’ISCO di Ferrara (vicolo S. Spirito, 11). L’incontro, organizzato da Istituto Gramsci e ISCO, ha visto l’autore dialogare con Piero Stefani. 

«Io sono colui che sono!», dice Dio a Mosè (Esodo 3, 14). Da qui è partito Stefani nella sua riflessione introduttiva:«come suggerisce anche Cicero nel suo libro, si è esaurita la possibilità di fare un’ontologia filosofica che abbia come primato questa “autopresentazione” di Dio. Ma non si è esaurito, invece, il versetto di Giovanni “E il Verbo si fece carne” (Gv 1, 14), che sarebbe più corretto tradurre con “La Parola [Logos] si fece carne”. Da questo versetto di Giovanni – ha proseguito Stefani – si può fare non un discorso su Dio ma su Cristo, è cristologia, da cui può partire quindi una cristologia filosofica».

«Filosoficamente parlando – è intervenuto dunque Cicero -, è Cristo la chiave ermeneutica dell’intera Bibbia. Ad essersi esaurito – ha proseguito – non è quel passo di Esodo ma la sua traduzione filosofica: hanno fallito le interpretazioni filosofiche di Dio, tutte o troppo astratte, astruse o troppo antropomorfe. È questo dio a essere morto». Da qui il tacere, il silenzio necessario della filosofia sulla deità. Ma andando oltre l’appercezione trascendentale kantiana, e mettendo in guardia dall’interpretazione errata di Esodo 3,14 («non si può usare l’io per Dio»), Cicero ha proposto l’uso dell’es tedesco, che non è né personale né impersonale, per dire Dio. L’autore suggerisce dunque la nozione di “inquanto” inteso nella sua struttura analogica, il medio analogico trascendentale, l’analogo, l’”in quanto tale”. «Ciò che non può essere posto in relazione ad altro, l’innominabile, la condizione stessa di ogni nominazione. Condizione che, dunque, si sottrae ad ogni nominazione». Appunto, ciò che non è né personale né impersonale. L’analogo, quindi, è «la suprema struttura trascendentale, la condizione trascendentale di ogni sentire, pensare, dire e immaginare dell’umano». Insomma, di ogni relazione. «È ciò mediante cui ogni cosa può essere sentita, pensata, detta e immaginata. L’analogo richiama quindi Cristo»: «tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1, 3). «Di tutto ciò, quindi, che anche può essere sentito, detto, pensato, immaginato. L’analogo è Cristo», ha concluso Cicero.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Quel desiderio di verità nell’uomo: fede e ragione, quale rapporto?

28 Feb

Al via il Seminario “Il cuore non basta”: nel primo incontro, Anna Bianchi ha riflettuto sulla “Fides et ratio” di Giovanni Paolo II

Sta nell’essenza della ragione di desiderare di spingersi sempre al di là, sempre oltre sé stessa. Ma questo non può non portare allo scontro/incontro col mistero dell’Essere, con qualcosa che la supera infinitamente. Lì entra in gioco la fede. Questa riflessione ha tanto diviso filosofi e pensatori nel corso dei secoli e rimane, anche nella società dell’ultrarazionalismo e del relativismo, un pungolo inevitabile.

E proprio al rapporto fede-ragione è dedicato il Seminario di tre incontri organizzato dalla Scuola di teologia per laici della nostra Arcidiocesi, dal titolo “Il cuore non basta. Filosofia e fede oggi: un legame da riscoprire”. Il coordinatore del Seminario, Maurizio Villani, ha introdotto il primo dei tre incontri svoltosi on line il 23 febbraio. Sul tema “Fides et ratio: una sfida per la filosofia? Considerazioni a margine dell’Enciclica di Giovanni Paolo II” è intervenuta Anna Bianchi, Docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

È il concetto di verità quello centrale per indagare, come viene fatto nell’enciclica, il rapporto tra ragione e fede: se è vero che «la fede è recepita dal soggetto non passivamente, ma attraverso appunto la ragione», dall’altra parte la Rivelazione «è la base del rapporto tra fede e ragione»: la ragione, quindi, «non è autosufficiente, ma arriva a verità fondamentali attraverso la Rivelazione». 

Da qui la critica nell’enciclica a una «filosofia separata» tipica dell’età moderna e contemporanea, che ha, cioè, abdicato a ricercare una dimensione soprannaturale. 

Bianchi ha poi spiegato come nel testo si riflette su come «la ragione può comprendere l’ordine razionale della realtà, il suo aspetto ontologico, andando oltre gli aspetti empirici, cercando quindi la verità: se la filosofia vuol essere un pensiero autentico, deve cercare la conoscenza di ciò che è vero sempre, della realtà in sé, deve trascendere il piano fattuale ed empirico per attingere ai principi primi e universali dell’essere». Questa «capacità metafisica» della filosofia, per san Giovanni Paolo II è una sorta di «filosofia perenne e destoricizzata, una filosofia implicita attraverso i secoli», ma ancora oggi molto dibattuta in ambito filosofico. 

La relazione di Bianchi si è poi concentrata sull’aspetto antropologico, quindi sul soggetto-persona nel quale fede e ragione si incontrano. Nell’enciclica l’uomo è definito «come colui che cerca la verità e come colui che vive di credenza»: da una parte, quindi, il «desiderio di verità appartiene alla natura dell’uomo, quindi non può essere del tutto inutile e vano», dall’altra parte, insito nell’uomo vi è anche il bisogno di «abbandonarsi fiduciosamente all’altro, se riconosciuto come testimone credibile». Ciò avviene, in maniera simile, nell’ambito della fede.

Ma l’unione di questi due desideri – della ricerca della verità e dell’abbandono – come spiegò ad esempio San Tommaso d’Aquino, «derivano da una comune origine, Dio». Solo nel supremo Creatore, quindi, possiamo ritrovare, ancora, la risposta a ogni anelito di trascendenza, sia nella forma della ragione, sia in quella della fede.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Non solo scienza ma domanda sul Mistero

22 Nov

Nella pandemia, il necessario discorso scientifico rischia di farci dimenticare la nostra ricerca della Verità

di Andrea Musacci
Lo scorso settembre su Huffington post Italia il filosofo Massimo Adinolfi poneva una domanda importante: «Chi è competente, in fatto di umanità? O forse pensiamo che l’uomo è solo ciò che rimane da discutere a filosofi barbuti una volta sottratte loro tutte le questioni scientifiche (mediche, sanitarie, fisiologiche o psicologiche, o non so cos’altro)?».

Fermarsi, riflettere, interrogarsi e interrogare su ciò che davvero ci rende umani. Tornare ad ascoltare l’altro. Propositi che sempre meno, spiace registrarlo, sembrano andare di moda. Il coro unanime di quasi due anni fa sulla necessità e l’urgenza di proteggere noi stessi e gli altri dal Covid19, si è purtroppo, ormai da molto tempo, trasformato nel suo opposto. Ora, sempre più, domina lo scontro tra due intolleranze: quella dei sostenitori di ogni forma di restrizione potenzialmente senza limiti di tempo, e chi, dall’altra parte, già da un bel po’ ha dimenticato quanta sofferenza, angoscia e morte ha portato una pandemia di questo tipo. In mezzo, quegli interstizi sempre più stretti (e sempre meno affollati, purtroppo) di chi non rinuncia a porre questioni sulla gestione dell’emergenza – pur sempre difficile –, e soprattutto su come, veramente, possiamo cogliere questa fase eccezionale delle nostre vite per riscoprire il Mistero che si cela dietro di esse. Che significa anche ripensare il rapporto tra salute e salvezza, come propone il gesuita Gaetano Piccolo nel suo ultimo libro “Salute o salvezza? Il dilemma dei nostri tempi” (Ediz. San Paolo).


Salute o salvezza?

Salute o salvezza è un aut aut sbagliato, a cui non cedere. Assolutizzare il primo dei due termini significa castrare la dimensione spirituale, religiosa, annullandola nel culto illusorio di ciò che è corruttibile. Dall’altra parte, la finta “salvezza” di chi pensa che la cura di sé e dell’altro non abbia nessun valore rispetto alla vita eterna, nasconde una pericolosa mancanza di empatia per il prossimo.

Fatta questa premessa, il rischio maggiore nelle nostre società occidentali è che questa fase – dove il dominio del discorso medico-scientifico va a scapito di quello religioso, politico e culturale -, ci faccia ancora una volta venir meno nella nostra ricerca di un equilibrio diverso fra la difesa della salute e l’anelito alla Salvezza. Salvezza che è fatta di amore e di relazioni, di prossimità fisica, di consapevolezza dell’invincibile limite della morte e di desiderio di una vita davvero piena. Coscienza, quindi, che, come di non solo pane vive l’uomo, nemmeno gli possono bastare le conoscenze medico-scientifiche. Ma che tutto il nostro essere (corpo e anima) domanda un nutrimento ben diverso: una fede e una pienezza che da credenti troviamo in Cristo, Pane di vita.


Non fare della scienza un idolo

La possibilità di poter risolvere sempre più problemi non deve illuderci di poter avere il controllo su ogni aspetto della nostra esistenza. Questa tendenza a sentirci onnipotenti può risultare molto pericolosa se ci si affida al “sapere della scienza” come a ciò che possa rispondere alle domande più profonde. Non è così e mai potrà esserlo: significherebbe storpiare la fondamentale ma limitata missione della scienza. Soprattutto in una situazione estrema e inattesa come quella della pandemia, spesso si è riposto, invece, purtroppo, in medici e ricercatori una speranza quasi “religiosa”. Ciò che la scienza, in sé, non può darci è la felicità, la pienezza di vita, è salvarci dal vuoto, dal terribile nulla della depressione e della disperazione. È inutile convincerci che possiamo delegare tutto a medici e virologi. La lotta contro il male spetta a ognuno di noi. La testimonianza della misericordia nella prossimità all’altro è un compito che abbiamo sempre davanti.


Non fare del corpo un idolo

Idolatrare la scienza – qualsiasi filosofo o uomo di scienza non ideologico inorridirebbe solo all’idea! – porta all’idolatria del corpo. Il filosofo ed epistemiologo francese Bernard-Henri Lévy, liberale, l’anno scorso nel suo libro “Il virus che rende folli” scriveva: «L’inferno è il corpo. Solo il corpo e il corpo solo». L’inferno siamo noi «in quanto persone che sono chiuse nel proprio corpo, ridotte alla nostra vita di corpi e che, sotto il dominio del potere medico, o del potere in generale che si appropria del potere medico, o della nostra stessa sottomissione a entrambi, ci sottomettiamo a esso». «La cura della nostra salute -, scrive invece Piccolo nel libro sopracitato – nel momento in cui dovesse essere possibile solo a costo di rinunciare a tutto quello che per noi è spiritualmente essenziale, varrebbe la pena?».

Spiritualmente essenziale è anche il “filosofare”, il sentire e parlare – senza scorciatoie – della nostra finitezza, del nostro limite, del nostro morire. «Filosofare è imparare a morire», scrive Fabrice Hadjadj nel suo libro “Farcela con la morte. «L’atto stesso di pensare la Verità produce una “piccola morte”, un distacco dal corpo che addestra al grande distacco del trapasso. Quando medito sulla vita entro nella vita stessa della saggezza, passo già nell’aldilà, la mia anima tende a liberarsi della carne, non a motivo della sua debolezza, ma a causa della sua rinnovata vitalità di anima immortale, che va oltre la vita corruttibile dei miei organi».


La ricerca della Verità contro la paura

Tornare a interrogarci e a compiere la nostra ricerca della Verità significa anche non cedere alla paura. Sentimento umano, umanissimo, ma da controllare e affrontare. Da non eludere e a cui non sottomettersi. È importante, oggi, non cedere né alla paura di vaccinarsi né a quella che ci paralizza impedendoci una riflessione profonda e un conseguente vivere che non sia solo sopravvivere nella nostra “sicurezza” di non venire contagiati. Ma in una società come la nostra dove è sempre meno diffusa una concezione religiosa della vita e della morte, certi interrogativi che possono inquietare, vengono posti sempre meno. È, invece, importante cercare di riempire di senso il nostro tempo, perché non sia vuoto. Vuoto di una dimensione spirituale e relazionale. Vuoto che è manifestazione profonda della nostra fragilità, proprio quella fragilità che tendiamo a rimuovere, a negare.

La nostra mortalità ci costringe ad evitare che la nostra vita sia sprecata. Il limite è ciò che muove la nostra libertà nella ricerca di un senso. Senso che riguarda l’interezza di ciò che siamo. Corpo e anima, salute e Salvezza. Solo così, solo interrogando il Mistero e testimoniando la Verità, potremmo dirci davvero umani.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 novembre 2021

https://www.lavocediferrara.it/

(Immagine: Edvard Munch, “Malinconia”, 1892)

Non possiamo non credere: è il laico Horkheimer a ricordarcelo

12 Apr

La nostalgia del totalmente Altro: 50 anni fa l’insegnamento del filosofo della Scuola di Francoforte.

L’incubo di una società perfettamente amministrata, dove dominano la noia e la performance. Dove la ricerca di senso è abolita. Un ritratto spietato anche del nostro tempo, nel quale il limite della condizione umana viene rimosso. La profezia di un ebreo marxista che anelava all’Assoluto

di Andrea Musacci

Con il Sessantotto ancora fresco nelle sue speranze e nel suo messianismo secolarizzato, in Germania viene pubblicato il libro “La nostalgia del totalmente Altro”, contenente l’intervista rilasciata da Max Horkheimer a Helmut Gumnior. Horkheimer (1895-1973), filosofo e sociologo di origini ebraiche, tra i più noti esponenti della Scuola di Francoforte, nel ’33 dalla Germania nazista è costretto a emigrare, in quanto marxista, prima a Ginevra poi negli USA. Solo nel ’49 rientra a Francoforte, dove con l’amico Theodor W. Adorno riapre l’Istituto di Ricerca Sociale trasferito in America durante l’esilio.Vent’anni dopo, nel ’70, quell’intervista apre dunque una breccia religiosa in un ambiente accademico e politico laico, seppur di un laicismo critico e per nulla dogmatico. La modernità, nel pieno del suo splendore e delle sue contraddizioni, veniva insomma interrogata da Horkheimer nei suoi assunti sempre più presentati come incontrovertibili.


Nel regno della noia, che posto ha la ricerca di senso?

«La storia del moderno è, per molti versi, la storia (…) di questa emersione dell’inconsistenza del mondo, della profanità del mondo che, pur scontando l’assenza e l’imprevedibilità di Dio, è un mondo progettabile, in balìa delle mani dell’uomo. Però è un mondo tragico, non sostenuto da alcunché, i cui rischi sono esplosi in quello che chiamiamo il postmoderno». Così rifletteva Sergio Quinzio in un’intervista rilasciata nel 1991 (1). La lucidità del teologo ligure richiama certe pagine dell’ultimo Horkheimer su quel mondo mirabolante nei suoi progressi ma, appunto, se guardato con disinganno, «non sostenuto da alcunché». Le conseguenze le abbiamo ormai quasi tutte sotto gli occhi, in termini di manipolazione della vita e della verità, di perdita di realismo nella percezione dello stesso dolore e della stessa morte. «L’autentica tragedia è l’assenza del sentimento tragico», scrive magistralmente Giuseppe Genna su “L’Espresso” del 4 aprile scorso riguardo alla perdita della domanda sul limite, di ogni verticalità soprattutto in quest’ultimo periodo di pandemia, dove l’indifferenza sembra vincere, smentendo non solo i corifei dell’“andrà tutto bene”, ma anche i falsi ottimismi sul “ne usciremo (necessariamente) migliori”. Horkheimer mezzo secolo fa, nella sopracitata intervista così parla di questo mondo nel quale siamo sempre più inghiottiti: «l’assenza di senso nel destino dell’individuo, la quale già prima era determinata dall’assenza di ragione, dalla pura naturalità del processo di produzione, nella fase attuale si è tramutata in un segno caratteristico dell’esistenza. Ciascuno è abbandonato al suo cieco caso». Si arriverà, per il filosofo tedesco, alla «liquidazione del soggetto». In un sistema dove viene meno la ricerca di senso e l’inquietudine per le cose ultime, inevitabilmente finisce per dominare la «noia». Fanno venire i brividi queste parole rilette oggi.


Memoria di ciò che ci salva

Nel ’69, in una conversazione con Paul Neuenzeit, docente cattolico all’Università di Würzburg, Horkheimer afferma: «si deve continuamente ricordare che ciò che importa non sono solamente le varie abilità, ma la questione della verità» (corsivo mio). Il riferimento è all’inarrestabile settorializzazione del sapere, alla trasformazione, ormai totalizzante, di ogni scienza e cultura in qualcosa di funzionale al sistema produttivo e amministrativo. E dunque, alla conseguente riduzione delle finalità al mero presente, all’obiettivo pratico e strumentale. All’oblio, quindi, dei “perché” più profondi. Horkheimer arriva a pensare che sia la religione a rappresentare ancora «la coscienza che il mondo è fenomeno, che non è la verità assoluta, la quale solo è la realtà ultima». La religione è la «speranza che, nonostante questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola». Speranza, anzi meglio, nostalgia, «secondo la quale l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima innocente». È interessante come Horkheimer utilizzi questo termine. La nostalgia richiama un desiderio forte, invincibile, che nasce dal profondo, di qualcosa di maggiormente puro, bello rispetto al presente, o addirittura di qualcosa di puro e vero in sé. Di una pienezza. Qualcosa che sembra richiamare l’anamnèsi platonica, quella reminescenza delle idee eterne, fondamenta del mondo fenomenico. La nostalgia è desiderio di un ritorno all’origine, di uno sforzo di ritrovare l’essenza, un luogo, una “casa” che già si è abitata, o che da sempre si abita, anche se inconsapevolmente. Una casa che è regno di giustizia, di piena pace. «Nostalgia di perfetta e consumata giustizia», la chiama Horkheimer. Se c’è nostalgia vuol dire che esiste una tensione viva e, nel finito, ineliminabile, inappagabile. Una fame che provoca anche sofferenza: «La sofferenza dipende dal fatto che Dio e l’uomo sono qualitativamente diversi», scrive Kierkegaard (2). E per Quinzio, nella sopracitata intervista, gli uomini e le donne “aiutano” Dio con «l’invocazione che sale dal fondo della loro sofferenza, dal loro inappagato bisogno di giustizia» (3). Ma è anche – dice ancora Horkeimer portando al limite il dubbio – «paura che Dio non ci sia», quell’ “altro” «che non trovammo mai», per usare i versi di Rilke (4).Per questo, «il riconoscimento di un essere trascendente» come Dio «attinge la sua forza più grande dall’insoddisfazione del destino terreno. Nella religione sono depositati i desideri, le nostalgie, le accuse di innumerevoli generazioni». 


Una cosa sola

Ma la religione, nel suo stesso etimo, è legame tra le persone. Horkheimer, così, ridona un significato diverso al concetto di solidarietà, che è autentica innanzitutto perché nasce «dal fatto che tutti gli uomini devono soffrire, devono morire e che sono esseri finiti». «Siamo una cosa sola», afferma subito dopo con un’espressione dal sapore “eucaristico”. Rileggendo la Lumen Fidei firmata da Papa Francesco, ho ritrovato assonanze, pur su un piano diverso, con queste sofferte riflessioni di Horkheimer: «La domanda sulla verità – scrive il Pontefice – è (…) una questione di memoria, di memoria profonda, perché si rivolge a qualcosa che ci precede e, in questo modo, può riuscire a unirci oltre il nostro “io” piccolo e limitato» (5). Una comunione più sincera perché più fondata, dove le individualità non solo non sono schiacciate ma anzi possono risplendere di luce vera nella comune nostalgia di una «beatitudine infinita».


***************

(dove non espressamente indicato, le citazioni di Horkheimer sono prese da M. Horkheimer, La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, 2019)


(1) S. Quinzio, La tenerezza di Dio, Castelvecchi, 2013.

(2) S. Kierkegaard, Diario, BUR Rizzoli, 2019.

(3) S. Quinzio, op. cit.

(4) R. M. Rilke, Poesie alla notte, Passigli, 1999.

(5) Papa Francesco, Lumen Fidei, Libreria Editrice Vaticana, 2013.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 16 aprile 2021

https://www.lavocediferrara.it/

Essere fecondi, non produttori di morte

16 Nov

Teresa Bartolomei e Silvano Petrosino hanno riflettuto sul tema “Terra nostra? La casa dell’umano e l’ecocidio imminente”. L’incontro si è svolto on line il 12 novembre in occasione di Book City Milano: “passiamo da un’etica del successo a una della cura” per realizzare davvero l’abitare come “convivenza e accoglienza”

L’essere umano è chiamato a «coltivare e custodire» il pianeta dove abita, ma al tempo stesso è responsabile di gravi atti di ecocidio.
Su questa contraddizione, che chiama in causa la teologia e l’antropologia, giovedì 12 novembre hanno discusso Teresa Bartolomei, teologa dell’Università Cattolica di Lisbona, autrice del libro ”Dove abita la luce?” e Silvano Petrosino (in grande nell’immagine con Bartolomei e Monda), docente di Antropologia filosofica dell’Università Cattolica e autore del libro “Dove abita l’infinito: trascendenza, potere e giustizia?”. L’incontro è stato organizzato on line su You Tube, in occasione di Book City Milano, dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e dalla Casa editrice “Vita e Pensiero”. “Terra nostra? La casa dell’umano e l’ecocidio imminente” è il titolo assegnato al dibattito introdotto da Antonella Sciarrone Alibrandi, prorettore dell’Università Cattolica e moderato da Andrea Monda, direttore dell’Osservatore Romano.
Per “ecocidio” – neologismo nato negli anni ’70 dopo la guerra in Vietnam – si indica la distruzione diffusa, grave e duratura dell’ecosistema a opera dell’uomo, tale da dover essere giudicata a livello internazionale. L’uomo con la sua tecnologia, quindi, ha spiegato Bartolomei, può diventare «una potenza di morte e non di vita». È stato papa Francesco con l’enciclica Laudato si’ a chiamare l’ecocidio peccato. Riguardo al Giudizio universale raccontato nella Bibbia, la relatrice ha spiegato come con esso «Dio salvi l’uomo dagli effetti gravi del male compiuto da quest’ultimo, effetti che rompono l’equilibrio universale e il patto tra Dio e uomo». Come credenti e donne e uomini di buone volontà «abbiamo questa grande responsabilità e speranza» e dunque «dobbiamo trovare insieme soluzioni condivise in modo che prevalga l’etica della cura e non della performance e dell’oggettivizzazione del creato». Come cristiani, «scopriamo chi siamo solo riportando alla luce il fatto che siamo a immagine e somiglianza di Dio. Diversamente, diventiamo produttori di morte».
È partito da Genesi 2, 15 invece Petrosino, in particolare dai verbi «coltivare» e «custodire», a suo dire esplicativi del vero senso dell’abitare: «abitare non vuol dire necessariamente dominare, possedere o distruggere ma è possibile, per l’uomo, che significhi coltivare». Detto questo, per Petrosino, richiamando Lacan, anche «il possesso e la distruzione rimandano per l’uomo alla sua ricerca di un’identità»: «il distruggere è una pulsione negativa ma comunque creazionistica». Il problema del creato rimanda quindi sempre inevitabilmente al problema del soggetto, dell’essere umano. Ma anche nella Bibbia dal giardino di Genesi si arriva poi sempre «alla città, cioè – ha proseguito il relatore – al miracolo possibile della convivenza e dell’accoglienza fra gli uomini». L’abitare è dunque «incontrare qualcuno che dica “ti voglio bene”». La terra, ha quindi concluso, «è nostra, perché siamo attori, non subiamo la vita, siamo chiamati a coltivare», ma al tempo stesso «non è nostra perché siamo in affitto, non ne siamo i proprietari» e allo stesso modo «non possediamo la verità intesa come certezza assoluta»: saper accettare questo significa «essere in pace con se stessi. Riscopriamo invece la verità come fecondità».
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 novembre 2020

https://www.lavocediferrara.it/

Il distacco profondo dell’arte e della poesia per vivere il tempo dell’inquietudine

9 Nov

Riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy al Festival Mimesis: “nello sconvolgimento contemporaneo è necessario scoprire la possibilità di vedere nell’oscurità”

«Assistiamo a un completo sconvolgimento della civiltà: l’arte e la poesia, più che la filosofia, oggi possono illuminarci».
Si può sintetizzare così l’importante seppur breve riflessione del noto filosofo francese Jean-Luc Nancy (foto) lo scorso 4 novembre in occasione del Festival Mimesis.
La rassegna, organizzata dall’Associazione “Territori Delle Idee” della Casa editrice Mimesis, normalmente in programma a Udine, si svolge fino al 14 novembre on line dal canale You Tube e dalla pagina Facebook del Festival. La settima edizione, centrata sul tema “Immagine e storia”, ha visto lo scorso 4 novembre Nancy dialogare con il giornalista de “L’Espresso” Wlodek Goldkorn e con il filosofo e critico Federico Ferrari a proposito del tema “Il tempo dell’inquietudine”.
«Inquietudine è assenza di quiete, di riposo, di tranquillità ma al tempo stesso qualcosa che ci mette in movimento, che ci spinge a cercare», ha esordito il filosofo francese. Un’inquietudine oggi, perlopiù negativa, che rischia di travolgerci: «è fallito lo sforzo moderno di concepire una comunità diversa dal modello fascista e da quello del socialismo reale. Oggi non si è più insieme, non c’è più comunità – ha proseguito Nancy -, e la società francese in particolare è molto divisa, anzi straziata». Il discorso sul multiculturalismo sta lì a dimostrarlo come esempio drammatico. L’alternativa ai modelli storici si era pensato di trovarla «in una sorta di universalismo possibile anche attraverso la laicità» e in un ottimismo in nome del progresso. Ma non ha funzionato.
«Oggi – secondo Nancy – non c’è più racconto, non possiamo più proiettare un futuro positivo per l’umanità: ciò è intrinseco al progresso tecnico, che tante catastrofi ha prodotto, dalla crisi ecologica alla pandemia di Covid», tragica prova del fatto che il progresso e la scienza «non possono risolvere tutto».
«Lo sconvolgimento» avvenuto nell’impero romano del IV-V secolo aveva comunque i cristiani come soggetto capace di «immaginare altro. Ma per noi oggi non è così», ha riflettuto con pessimismo. «Forse ci sarà una grande trasformazione della società verso il modello cinese o un’implosione di questo modello tecno-scientifico. Non è forse la fine del mondo ma di sicuro viviamo un periodo di enorme difficoltà: siamo in una sorta di oscurità».
Per questo, secondo Nancy, «è necessario conservare le luci», cioè la speranza, «ma anche scoprire la possibilità di vedere nell’oscurità: oggi bisogna cercare nell’arte e nella poesia, non nella filosofia, qualcosa che illumini». Riprendendo Bataille e il suo concetto di non-sapere, il filosofo ha evocato l’importanza dell’arte e della poesia come di «qualcosa che non è un sapere, una pretesa di sapere ma una sorta di distacco» positivo e profondo.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 13 novembre 2020

https://www.lavocediferrara.it/

Non c’è più contatto

2 Nov

Poter toccare è fondamentale per l’essere umano. Ma nell’epoca del virtuale e in quella del distanziamento fisico causato dall’emergenza sanitaria ce ne stiamo dimenticando. L’incubo di un mondo senza senso del tatto e l’importanza della riscoperta del corpo umano come luogo fragile e accogliente

di Andrea Musacci

«Evitare abbracci e strette di mano», «Non toccarsi occhi, naso e bocca con le mani».
Immersi come siamo ormai da 8 mesi in questa bolla invisibile fatta di separazioni, reciproca paura, prudenza che ci porta a sterilizzare, diffidare, a chiuderci e a isolare, il rapporto del nostro corpo con tutto ciò con cui può venire in contatto è stato trasformato. Abituati ad allontanare, ormai impressionati al solo assistere a baci, abbracci ed effusioni, straniti da questi gesti proibiti, ci percepiamo sempre più isolati.
Di questo passo, la conoscenza dell’altro da sé avverrà sempre meno tramite il tatto e il contatto diretto, anche delle persone che più amiamo, che meglio conosciamo. È questo il dramma all’orizzonte. Sempre più si insinua in noi il sospetto che il corpo dell’altro sia una terra potenzialmente pericolosa, un’isola ignota, una giungla tenebrosa dove l’invisibile domina – pur nella sua apparente assenza – sul visibile.
È vero, però, che è impensabile un’esistenza del nostro corpo senza contatto alcuno con l’altro-da-noi. Se eliminare ciò è assurdo, ridurlo, prima ancora delle abitudini nate in questo periodo di pandemia, è tipico di un “distanziamento sociale” che da decenni sempre più pervade, anzi invade, case, spazi pubblici o privati, relazioni. Un virtuale molto reale. Così reale da adulterare rapporti, modalità e abitudini nell’abitare i luoghi, nel conoscerli. Una volontà tremenda di rimanere “in-tatti”, appunto. Di non contaminarsi, di restare puri. Di preferire il vuoto nell’anima alla lotta dell’incontro con l’infinitamente altro-da-noi.
A maggior ragione in quest’epoca del Coronavirus, se il corpo dell’altro, e gli stessi oggetti, sono sempre più possibili spazi ostili, perché allora non scegliere il terreno neutrale, levigato, asettico e cieco dello schermo di un qualsivoglia dispositivo digitale? Mera superficie senza volto, indifferente, discreta. Velo magico incorporeo, inerme al nostro tocco, alla nostra mano che come strumento dirige, comanda, informa di sé. Corpo senza corpo di cui disponiamo liberamente. Non a caso si chiama dispositivo.
Ma questo bisogno di toccare gli altri corpi è spesso irriflesso, è bisogno di sentire qualcosa che ci dica di una consistenza, che ci provochi una sensazione più reale, è il non volerci accontentare di superfici asettiche e inodori come quelle degli schermi.


Cos’è davvero toccare
Nel toccare, il soggetto si sente pienamente – «toccare un altro significa nello stesso tempo provare la propria esistenza» scrive Marc Augè -, e sente in maniera più piena, più autentica il mondo, percependo di sé e dell’altro la sostanza, la carne, e così riconoscendosi esso stesso carne e non solo fredda e distaccata distanza, horror vacui del pensiero che in realtà, nel fantasma altrui annacquato nel digitale, non fa che pensare solo se stesso.
Siamo, come corpo, interamente tatto, propensi al tatto, il nostro intero corpo è tattile, e, in modo particolare, le nostre mani possono non essere strumento di presa e di dominio ma luogo estremo della nostra anima, del nostre cuore – che, infatti, viene “toccato” da parole, situazioni, emozioni. Qualcosa che mi tange, non a caso, significa che mi turba, mi interessa, mi coinvolge.
Il tocco è dunque un abbandono, un atto di fiducia, di per sé una scoperta. Al contrario, nel digitale non può darsi vero legame, reale congiunzione, mentre col tatto qualcosa si manifesta in maniera piena, dolce o atroce che sia si rivela senza equivoci: la pelle, come custode, libera la memoria, esprime la vita.

Abbraccio, stretta di mano, carezza
L’abbraccio è forse uno dei gesti che con maggiore radicalità dice questo concetto, in quanto rappresentazione della vicinanza tra sé e l’altro, simulazione di un’unione (impossibile), intreccio che conserva le identità e al tempo stesso le trasforma.
Nell’abbraccio riviviamo sempre qualcosa di puro, in esso afferriamo senza però in realtà davvero possedere, senza poter mai avere nulla a nostra completa disposizione, pienamente a portata di mano. Luce Irigaray parlava dell’importanza di conservare il «nostro desiderio di abbracciare l’altro in quanto desiderio di trascendere noi stessi».
E così, la stessa stretta di mano è sigillo che a un tempo conferma e sublima un’unione spirituale. Non è mero rito né formalità ma espressione di un oltre, concretizzazione necessaria di qualcosa che rischia di diventare sfuggente, astratto. Virtuale, appunto.
Il toccare, dunque, può essere illusione di possesso ma in realtà non fa che denotare in maniera chiara come in ultima analisi tutto ci sfugga, tutto possa, debba da noi essere contemplato, accarezzato, curato. Il vero tocco è dunque la carezza. Il tocco lascia essere, non adultera l’altro-da-noi. Il tatto rivela che il vero corpo non è cosa e non rende cosa l’altro.
Non a caso, il sogno più coinvolgente e dolce se prolungato si tramuta in incubo, in quanto in esso non vi è possibilità di contatto, manifestando quindi in maniera piena l’inganno del solo sguardo, del distacco che è dominio e che presto si tramuta in follia, sottile disperazione. E la stessa comunicazione verbale rischia di diventare un incubo se non sperimenta oltre, se non diventa relazione anche sensibile.


Corpo come luogo: una terra accogliente
Il divieto “Vietato toccare” è solitamente usato riguardo a qualcosa di fragile o di estraneo, di personale, di intimo.
Nell’epoca del distanziamento fisico, ognuno diventa quindi estraneo per l’altro, o comunque obbligato a fingersi tale. Ma questi tempi che stiamo vivendo possono anche aiutarci a saperci riconoscere – senza pudore – come fragili.
Se dunque da una parte il nostro corpo diventa sempre più un confine non solo da toccare ma nemmeno da avvicinare, dall’altra esso non potrà mai perdere la propria connotazione di luogo inevitabilmente esposto, di identità e di conoscenza, frontiera accogliente, abbraccio integrale, terra disarmata ma non neutra. Luogo di reciproco riconoscimento e apertura all’altro.
Chi può dire lo stesso dello schermo di uno smartphone?

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 6 novembre 2020

https://www.lavocediferrara.it/