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«Sete continua di pienezza»: la formazione spirituale di un giovane (e di tutti noi)

6 Set


“Sogni e avventure sull’Appennino”: i racconti d’esordio di Piero Ferraresi

La consueta vacanza estiva di un ragazzo con la famiglia nella casa di Lizzano in Belvedere, sull’Appennino bolognese, è il “contesto” per i tre racconti di formazione contenuti nel libro d’esordio di Piero Ferraresi, “Sogni e avventure sull’Appennino” (Este Edition, Ferrara, luglio 2024).

Un romanzo sulla formazione umana e spirituale di un giovane, Pierino, verso una maturità nell’Amore declinata nel «Noi» e nella «Cura». A un tempo, un’ascesi e uno sprofondare tra estasi e antri abissali, a strapiombo sul mistero orrido della morte, visione di terrore che solo Dio permette, tenendoci per mano.

Il «Bastone», che durante le escursioni infonde sicurezza a Pierino, è nel libro il primo elemento carico di aspetti fantastici e simbolici, scettro umile del viandante o “arma” biblica dei fratelli Mosè e Aronne. Bastone che lo condurrà alla sua meta: il Regno della «Grande Aquila», la «Regina delle montagne», che, unica, può «insegnargli il segreto del Volo». Pierino sogna, infatti, di librarsi libero, senza vincoli né pesi, «con il suo viso che veniva accarezzato da una brezza leggera», come quella udita dal profeta Elia.

Anche la «Sorgente» rivolgerà la parola a Pierino come fosse, quest’ultimo, il Dante della Divina Commedia: «Pierino, giusta è la via. / Da sempre, la Grande Aquila, / nel suo Regno t’attende». E ancora: «Con lei inizia il cammino infinito, / di chi cerca il sogno dell’Amore donato (…). Devi vincere la paura / e lo sconforto, suo degno consorte. / Se incontri le fiere non provocarle, / ma per la via prosegui dritto». Qui, non vi sono la lonza, il leone e la lupa ma, ad esempio, la vipera, animale che, forse non a caso, richiama il libro di Genesi. «Grazie, sorella Acqua», risponde Pierino, novello San Francesco del Cantico.

Ma «forze avverse», «negative», misteriose, «nemiche di ogni sogno e di ogni desiderio di perfezione», «vogliono rallentargli l’ascesa verso l’inaccessibile Regno della Grande Aquila». Una di queste è lo «Spirito Padronale», quello del possesso, dell’accumulo e del dominio, contro la logica del dono e della gratuità. Anche gli animali – formiche, cinghiali, vipere e calabroni – seppur raccontati in maniera simbolica e quasi favolistica, non sono scevri da aspetti inquietanti e maligni, rimandando alle infinite dipendenze mortali dell’uomo, contrarie a quella dipendenza all’Assoluto nostra fonte, nostra vita che, unica, rende vera la nostra libertà.

In questo sogno, Pierino arriverà alla visione del Regno della Grande Aquila, Regno d’Amore, dell’Eterno: «un’intensa emozione lo colse, riempiendolo di consolazione (…). Per un attimo gli parve che non esistesse più la dimensione del tempo e che tutto il suo vivere non fosse altro che un eterno presente». È un’esperienza mistica che fa esplodere la sua esistenza: «Si accorgeva che solo il gustare e ricordare i momenti di luce poteva aprire i suoi occhi e dare sapore alla vita ordinaria». Ma a muovere Pierino in questo cammino arduo e immenso sarà «una sete continua di pienezza», «un fuoco che non si spegneva». Una ricerca continua, quindi, la sua, contro l’apatia, il vuoto, il ripiegamento su di sé, quella oscura «malattia dell’animo».

A completamento di questo cammino educativo vi sarà – oltre all’esperienza iniziatica del campeggio con gli amici – anche un altro sogno, nella miseria e nella bellezza della storia, con la fame, la guerra e, per lui, il dono ulteriore di poter parlare all’improvviso una lingua sconosciuta, come gli apostoli a Pentecoste. Qui, Pierino imparerà la vera fraternità, il leggere i segni della Speranza in «alcune timide margherite» davanti ai corpi di soldati uccisi.

L’assurdità del male e della morte si vive, quindi, solo nella carità, nella fraternità e nella speranza. L’essenziale della realtà si può cogliere solamente attraverso la Grazia: è il dono e l’apertura all’altro e all’Altro, il cammino nella fede a farci diventare adulti, con gli occhi – sempre bagnati da una divina inquietudine – di un ragazzo che si apre alla vita.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 6 settembre 2024

Abbònati qui!

Persona, dono e comunità: l’Avis massese in un libro

28 Giu

“Un viaggio tra i Valori della Vita”: il volume di Alberto Fogli

Si intitola “Un viaggio tra i Valori della Vita. Storie di umanità e solidarietà” (Ed. La Carmelina, 2023) il libro da poco uscito scritto da Alfredo Alberto Fogli. Il volume racconta la storia ultra cinquantennale dell’Avis di Massa Fiscaglia, di cui Fogli è stato presidente dal 1991 al 2021.

Fin dalla sua costituzione nel 1967, l’Avis massese, scrive Fogli, ha organizzato «iniziative mirate a testimoniare concretamente la possibilità di sviluppare una nuova cultura della solidarietà tra la nostra gente nonché di diventare “lievito” di un rinnovato impegno culturale, sociale e umano da proporre alle future generazioni». Perché l’obiettivo di un’associazione come l’Avis è di costruire una società «migliore e più umana e più solidale per le generazioni che verranno».

Per fare questo, fin dalla sua nascita ha svolto «un’incessante opera di sensibilizzazione dell’opinione pubblica locale e della popolazione scolastica sull’importanza sanitaria, morale e civica della donazione di sangue ma più in generale di un’educazione al dono e alla gratuità come valori sociali di una autentica civiltà solidale».

Civiltà solidale che, riflette Fogli nel libro, non può non avere le proprie radici e il proprio orizzonte in un sistema democratico che garantisce le libertà, incluse quelle di associazione e partecipazione alla vita pubblica. Senza dimenticare che «ciò che conta nella nostra quotidianità è un rapporto d’amore».

Ma per l’Avis massese la cultura del dono si accompagna e si è sempre accompagnata ad altre attività collaterali ma non meno importanti per la missione di fondo: iniziative per l’integrazione e l’inclusione sociale e culturale, screening sanitari per la popolazione locale, corsi di primo soccorso e di protezione civile, missioni umanitarie all’estero. E poi ci sono le collaborazioni – oltre che con le Istituzioni, con associazioni come Aido o Fondazioni come Telethon (dal ’94) -, i numeri che dicono della crescita dai primi 37 donatori del 1967 al picco nel ’96 (229 donatori) e il successivo calo fino ai 117 del 2022 – e alcune tappe significative: il 1975, con la prima sede nel Palazzo Comunale e il primo punto fisso di prelievo sangue. E il 2014, con la «rifondazione avisina massese» e il nuovo punto di raccolta sangue per l’intero Comune di Fiscaglia.

Tappe di un cammino che prosegue, e che ha la persona e il suo servizio al centro, il dono come bussola imperitura, la comunità come luogo concreto dove far vivere la carità quotidiana.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

L’ebraismo ferrarese tra memoria e futuro

23 Mag

Asti, 16 aprile 1938: al centro Ermanno Tedeschi con la moglie Magda Tedeschi. Al fianco di Ermanno la sorella Aurelia con il marito Guido Debenedetti.  Seduto, con le mani sulle ginocchia, Marcello Tedeschi con la cugina Alda Debenedetti Jesi

“Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” è il nuovo libro di Ermanno Tedeschi: aneddoti e riflessioni

di Andrea Musacci

Tutta la vita in una racchetta da tennis. È possibile? Forse sì. Ma, si badi bene, non si intende concentrare un’intera esistenza dentro un pur nobile gioco ma, in questo, vedere l’essenza della vita vincere sulla morte, la compagnia, la gioia e la condivisione trionfare sullo spirito demoniaco. Insomma, la fede e la speranza avere l’ultima parola nonostante l’immagine tragedia della Shoah.

Questo ha voluto trasmetterci Ermanno Tedeschi, curatore, critico d’arte e scrittore torinese di origini ferraresi, nel suo nuovo libro “Una racchetta da tennis racconta. Ricordi familiari della Ferrara ebraica” (Silvio Zamorani editore, Torino, 2023). 

Il libro è stato presentato il 22 maggio al MEIS con interventi di Umberto Caniato (Presidente del Circolo Marfisa), Luciano Meir Caro (Rabbino capo di Ferrara), Dario Franceschini (Presidente Giunta elezioni e  Immunità parlamentari), Marcello Sacerdoti, Amedeo Spagnoletto (Direttore MEIS) e Silvio Zamorani (editore).

LA MEMORIA

Le radici estensi di Tedeschi sono nel ramo paterno: il padre Marcello si era trasferita da giovane a Torino per esercitare la professione di medico. Nel capoluogo piemontese a fine anni ’50 ha conosciuto e poi sposato Elsa Momigliano: dal loro amore, oltre a Ermanno sono nati Lino e Arturo. «Le radici ferraresi ereditate da mio padre sono sempre state molto forti in me e in tutta la mia famiglia», spiega Ermanno Tedeschi. Così, il fine settimana era rituale trascorrerlo a Ferrara: «allora non esisteva il Freccia Rossa e il viaggio era lungo, ma la gioia di vederla e respirare l’aria della grande casa di via Bersaglieri del Po facevano dimenticare ogni fatica. Durante quelle visite, non mancavamo mai di entrare nel negozio di giochi, in sinagoga, di andare al ristorante, da Giovanni o alla Provvidenza, e, naturalmente, al cimitero ebraico per recitare una preghiera sulla tomba del nonno Ermanno».

Ma il racconto più affascinante nel libro è quello di Marcello Tedeschi, padre di Ermanno, morto nel 2020, figlio di Magda ed Ermanno.

Marcello raccolse le proprie memorie dieci anni fa: ricordi amari ma sempre innervati da una tenacia che lo ha portato a superare ogni sorta di difficoltà. A partire da quel maledetto anno 1938: «eravamo in vacanza a Rimini quando fu annunciata l’imminente promulgazione delle leggi razziali. Stupore, smarrimento, tristezza, previsioni fosche. Era un fulmine a ciel sereno. In quegli anni abitavamo a Venezia (…). Comunicarono a mio padre che era stato sollevato dal suo lavoro per telefono. Andò quindi nel suo ex ufficio alla stazione Santa Lucia per gli adempimenti del caso. Alcuni dei colleghi avevano gli occhi lucidi. Io ho frequentato il liceo fino al fatidico 1938. Un giorno ho trovato nel grembiule nero un biglietto con sopra scritto “S. P. Q. E.” (Sempre Porci Questi Ebrei)». Poi, «da Venezia ci trasferimmo a Ferrara nella vecchia residenza di via Bersaglieri del Po 31. Per anni, fino alla fine del 1943, abbiamo trascorso una vita grigia di apartheid». 

Tedeschi racconta di quando fortunosamente scampò al rastrellamento dei poliziotti italiani e dei militari tedeschi. E poi la famiglia che si rifugia nella cascina di Porotto, dove ascoltano Radio Londra, poi a Sabbioncello San Pietro grazie all’aiuto di un dirigente fascista locale, e poi a Loano nel savonese, a Demonte vicino Cuneo, in una drammatica e avventurosa fuga per raggiungere la Svizzera. E quel bigliettino gettato dal carro bestiame dal fratello di Marcello, Arrigo, che purtroppo non ce la farà e morirà ad Auschwitz nell’ottobre ‘43.

Marcello e la sua famiglia, invece, riuscirono a tornare in Italia, prima a Firenze in un campo per rifugiati, poi a Ferrara.

IL FUTURO

Sulla Comunità ebraica ferrarese nel libro emergono alcuni spunti interessanti. «Dopo la Liberazione – scrive l’autore -, la comunità ebraica ferrarese è decimata e in totale declino. Oltre a quelli uccisi barbaramente dai nazi-fascisti molti avevano lasciato la città prima del 1938 per trovare lavoro altrove o all’estero. Oggi la comunità ebraica di Ferrara conta circa ottanta iscritti tra cui alcuni che vivono a Cento, Forlì, Lugo e Ravenna o in altre città in Italia e all’estero. Il tempio viene regolarmente aperto per le funzioni di Shabbat e delle festività principali anche se si fatica a raggiungere il numero di dieci uomini necessario per la celebrazione delle preghiere». 

E l’avv. Marcello Sacerdoti, figlio dello storico Rabbino Simone, spiega: «il futuro purtroppo non è esaltante, i numeri diminuiscono, non ci sono giovani, e il destino pare segnato. Desidero però evidenziare che già in passato in piccole comunità si è assistito all’immigrazione di ebrei provenienti da Paesi dove venivano discriminati (per esempio Egitto, Libia). (…) Quando ho ricoperto la carica di consigliere mi sono “dannato” per far venire un paio di famiglie a ripopolare la comunità. Purtroppo non si è arrivati a niente. (…) Il MEIS, un paio di famiglie (anche all’estero, vedi Venezuela, Argentina, ex Jugoslavia, Ucraina) potrebbero dare nuova linfa ed entusiasmo». 

L’attuale Rabbino Capo Luciano Meir Caro, invece, riflette così: «C’è un futuro per le piccole comunità? La risposta non è facile. Ritengo che negli anni passati qui, analogamente a quanto accade in comunità grandi e piccole, il problema non è mai stato affrontato come esigenza prioritaria. Inoltre nel tempo sono venuti a diminuire drasticamente i numerosi studenti israeliani ed ebrei che frequentavano la nostra comunità. La partecipazione alla vita religiosa è scarsa ma in linea con quanto avviene altrove. (…) La speranza è che l’afflusso di qualche famiglia ebraica da altre comunità concorra a garantire un futuro a un’istituzione prestigiosa che ha dato importanti contributi alla cultura italiana».

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Misericordia e vita giusta nel Manzoni

28 Feb

Antonia Arslan e Davide Rondoni il 20 febbraio sono intervenuti a Ferrara su “I promessi sposi”

Cos’è che rende una vita davvero giusta? Su questo tema centrale per le donne e gli uomini di ogni tempo si è riflettuto lo scorso 20 febbraio interrogandosi su un capolavoro della letteratura di ogni tempo, “I promessi sposi”.

Nella sede dell’Università di Ferrara in via Adelardi si sono confrontati Antonia Arslan, scrittrice e saggista italiana di origine armena, e Davide Rondoni, poeta, scrittore e direttore artistico del Festival Della Fantasia. L’incontro “Che cosa c’è di allegro in questo maledetto paese?” – primo evento del Festival 2023 che si svolgerà l’11, 12 e 13 maggio in Castello e contributo in preparazione al concorso con lo stesso titolo – è stato organizzato da Accademia e Fondazione Enrico di Zanotti, in collaborazione con altre associazioni e istituzioni.

Arslan: «in un atto di amore, Manzoni si è inchinato agli umili»

Arslan nel suo intervento è partita innanzitutto dalla biografia di Alessandro Manzoni, «romantico non nichilista, personaggio complesso, nevrotico folle, con profonde ferite interiori». Un vero «genio», autore di «un romanzo che non fu per nulla, fin dall’inizio, un santino della nuova Italia, ma un grande romanzo d’avventura».

Nel libro, Manzoni «riesce ad accettare il mondo degli umili con unità personale, lui aristocratico, riesce a capire la realtà dei semplici e, ammirando la loro fede, a raccontarlo». Un mondo, quello degli umili, per nulla «mitizzato ma raccontato» da chi è stato capace di comprenderne il nucleo essenziale: «una semplice dirittura e onestà». Con «un continuo atto di volontà – ha proseguito la scrittrice -, Manzoni ha piegato sé stesso e si è inchinato, in un atto di amore, con ironia e chiarezza di linguaggio, a questo mondo» così diverso dal suo.

“I promessi sposi” sono «una pietra di inciampo, perché lì si frantuma un modo di scrivere precedente, pesante». Manzoni riesce, invece, a realizzare «un’avvolgente spirale di avventure, vissute da personaggi che ama, che descrive vivamente, con dialoghi della più alta qualità letteraria».

Rondoni: legame tra sapienza del popolo e Provvidenza

Manzoni nel romanzo «racconta una storia che non è consolatoria come tanti vogliono far credere», il popolo da lui narrato «è una questione tutt’altro che tranquilla e pacifica», ha spiegato invece Rondoni. 

Quel «sugo di tutta la storia» che Renzo e Lucia colgono nel finale, è «il loro tempo, è comprendere loro stessi. Non c’è bisogno di intellettuali, di un’élite per coglierlo, per avere questa sapienza: il “sugo della storia” è il senso di avere giustizia nella vita». Insomma, non evitare i guai, «dividendo la storia in fortunati e sfortunati», ma avere fede, «la fede del popolo, un’esperienza di un popolo più grande di sé». Popolo la cui vita «è determinata da cose non create dal popolo stesso, ma che lo generano». 

Da qui, il tema della Provvidenza, «parola descrittiva della Misericordia» – a sua volta «bomba che fa esplodere tutto, che non ha confini»: Provvidenza  che fa «leggere il valore dell’esistenza a un altro livello, cercando di capire cos’è che rende una vita giusta». Compito supremo per l’uomo, questo: significa comprendere «come la libertà dell’individuo entra nel tempo, come il singolo sta nel tempo con più libertà e profondità, senza dividere la storia in fortunati e sfortunati». È, infatti, il cuore stesso a «non poter accettare che la vita si divisa solo in fortuna e sfortuna».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 marzo 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Artisti ferraresi dietro le quinte: da Melli a Berselli

30 Gen

Gli artisti Roberto Melli, Severo Pozzati e Laerte Milani, oltre alla costumista Adriana Berselli nel libro di Scardino “Cinema Pittura Ferrara”

«I film dovranno diventare disegni viventi», profetizzava un secolo fa Hermann Warm, scenografo de “Il gabinetto del dottor Caligari”. Tecnici, artigiani, scenografi, costumisti. E ancora: attrezzisti, tappezzieri, falegnami, stuccatori, fabbri e sarte. Dietro un film effettivamente vi è un mondo variegato di professionisti spesso poco considerati ma in realtà fondamentali per la realizzazione dell’opera. Un concerto di creatività che fa essere un film qualcosa di infinitamente più complesso e affascinante di una mera sequenza di riprese. 

Lo ricorda Lucio Scardino, critico e storico dell’arte, nel suo libro da poco edito “Cinema Pittura Ferrara. Quattro artisti ferraresi prestati alla Settima Arte” (Ed. La Carmelina, 2022).

L’autore si sofferma in particolare su quattro creativi del nostro territorio che hanno tentato, con alterne fortune, di realizzarsi anche nell’ambito cinematografico. Parliamo di Roberto Melli (1885-1958), Severo Pozzati (1895-1983), Laerte Milani (1913-1987) e Adriana Berselli (1928-2018).

Un crescendo, temporalmente parlando, di riconosciuta fama: si parte con Melli, pittore e scultore che riscosse ben poco successo nel suo tentativo: fu direttore artistico della San Marco Film, sceneggiatore e scenografo de “La piccola fioraia”, co-regista de “La cugina d’Alcantara” e “La casa dei libri”, regista de “Il fiore del destino”. 

Poi, Pozzati, detto Sepo, artista comacchiese, che collaborò con la Felsina Film, prima come insegnante nella scuola per attori e tecnici, poi realizzando alcune scenografie. Successivamente, firmò soggetto e regia di “Fantasia bianca”, film ben presto dimenticato.

Sicuramente più successo ebbe lo scultore Milani, originario di Mezzogoro: dagli anni ’40 realizzò prima documentari scientifici per il GUF (Gruppo Universitario Fascista) ferrarese, poi, con altri (grazie allo “Studio Milani” o “Pubblicine”), alcuni shorts, cortometraggi pubblicitari d’animazione proiettati nei cinema locali prima dei film, e una pellicola animata, “Destinazione errata”. In seguito, si concentrò su cartoons, scenografie, fondali e disegni animati.

Infine, la vera “diva” del quartetto: Berselli, costumista, nata nell’ospedale dei bambini di via Savonarola, considerata – da un articolo di “Repubblica” – «regina dei costumi del cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta». Lavorò tra l’altro per “La voce del silenzio” di Georg Wilhem Pabst, “L’avventura” di Antonioni (foto), altre pellicole con Virna Lisi, Peter Seller, Sylva Koscina, Michel Piccoli, o dirette ad esempio da Roman Polanski e Carlo Lizzani. 

Modi diversi, dunque, di tentare di dare il proprio contributo alla Settima Arte. In ogni caso, un tassello importante di ricerca di un ambito ben poco noto del legame tra Ferrara e il cinema.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 febbraio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Un pezzo di storia italiana: Paparella ricordato a Ferrara

10 Ott
Un momento dell’incontro a Casa Cini

L’8 ottobre a Casa Cini la presentazione della nuova edizione del libro “Un cristiano senza aggettivi” dedicato al dirigente dell’AC. Una vita appassionata ripercorsa tra storia collettiva e personale

L’8 ottobre il salone di Casa Cini a Ferrara ha ospitato la presentazione del libro “Bruno Paparella. Un cristiano senza aggettivi”, appena edito dalla nostra Diocesi (Ufficio comunicazioni sociali – Ucs) nella collana “Con occhi nuovi – Profili”. Lo stesso Ucs ha realizzato i quattro pannelli esposti durante l’incontro, al quale hanno partecipato una 60ina di persone. Libro e incontro sono stati resi possibili grazie all’iniziativa e all’organizzazione di Francesco Paparella, nipote di Bruno.

Bruno Paparella (Ferrara, 14 settembre 1922 – Roma, 29 ottobre 1977) è stato Segretario Generale dell’Azione Cattolica. Fu anche partigiano nella 33ª brigata Ferrara, presidente dell’AC di Ferrara e dei Comitati Civici ferraresi nelle elezioni del 1948, vice Segretario generale dell’AC dal 1948 al 1952 e responsabile della formazione permanente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Giorgio Vecchio (già Ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Parma) ha ripercorso la biografia di Paparella, sottolineando ad esempio, nella sua giovinezza, la forte partecipazione alla vita parrocchiale, che significava «forte dimensione popolare, nonostante l’ambiente benestante dal quale Paparella proveniva».

Paolo Trionfini (docente di Storia Contemporanea all’Università di Parma, Direttore ISACEM – Istituto per la storia dell’Azione Cattolica) si è invece soffermato in particolare sul periodo romano di Paparella.

A seguire, vi sono state diverse testimonianze: Corrado Truffelli, ex politico DC parmense (e padre di Matteo, ex Presidente nazionale AC) ha ricordato il suo «senso dell’accoglienza» e la sua pazienza. Letizia Fallani (figlia di Giovanni, caro amico di Paparella negli anni romani, ex Direttore del Sir e capo ufficio stampa dell’AC) ha ricordato «l’allegria e la voce gentile» di Paparella durante le cene tra le due famiglie. «Verità e autenticità erano le due parole che contraddistinguevano mio padre e Bruno», ha aggiunto. Gianfranco Maggi, albese, successore – dal ’72 al ’74 – di Paparella come Segretario generale dell’AC italiana, ha ripercorso il filo di continuità presente in Paparella, dall’immediato dopoguerra al nuovo Statuto dell’AC alla fine degli anni ’60. Infine, hanno portato una loro breve testimonianza anche Maria Bellucci (figlia di Vittorio, dirigente dell’AC) e  Chiara Ferraresi (ex Presidente dell’AC diocesana e figlia di Pino Ferraresi, che ricoprì lo stesso ruolo dall’83 all’89). Durante le testimonianze, sono state proiettate alcune foto e brevi frammenti video di Paparella, a cura di Carlo Magri.

L’incontro – introdotto e moderato da Riccardo Modestino – si è concluso con le considerazioni finali di mons. Gian Carlo Perego. «Paparella, come tanti altri – ha riflettuto -, ha trovato nell’AC un luogo decisivo di formazione e di azione. In un certo senso, è stato anche erede della testimonianza di Giovanni Grosoli, della sua attenzione per il mondo economico e la stampa». «Laicità e missionarietà», per mons. Perego, hanno sempre contraddistinto il suo impegno nella Chiesa e nella società, senza dimenticare il suo attivismo antifascista. A tal proposito, il Vescovo ha annunciato come si stia lavorando per presentare l’allora Vescovo di Ferrara mons. Ruggero Bovelli come “Giusto fra le Nazioni” per la sua attività a favore di tanti ebrei. 

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 14 ottobre 2022

La Voce di Ferrara-Comacchio

Solo la Chiesa salva dai mali moderni: i taccuini di Bruno Paparella

3 Ott

Il libro sul dirigente di Azione Cattolica: incontro l’8 ottobre a Casa Cini

di Andrea Musacci

La lucidità di un uomo capace di cogliere anche l’essenza negativa della modernità ma senza tentazioni di fuga per rifugiarsi in facili spiritualismi.

Leggendo gli appunti dai taccuini di Bruno Paparella emerge, tra l’altro, questo aspetto di un intellettuale cattolico coraggioso nel dire, e cercare sempre, la verità. Appunti che sono contenuti nel libro “Un cristiano senza aggettivi. Bruno Paparella, testimonianze di amici” appena edito dalla nostra Arcidiocesi (Ufficio Comunicazioni sociali) nella collana “Con occhi nuovi – Profili”.

Tanto abbiamo scritto sulla “Voce” a proposito dell’intensa e appassionata vita di Paparella, classe 1922, giovane educatore dell’Azione Cattolica nella parrocchia ferrarese di San Paolo, poi antifascista e partigiano, quindi dirigente dell’Azione Cattolica, prima diocesana poi nazionale, fino alla morte che lo ha colto nel ’77.

Sulla modernità

Una personalità la cui unicità emerge in maniera ancora più dirompente proprio nei suoi scritti più privati, nei quali  è chiaro lo sguardo di un uomo che ha attraversato il cuore – turbolento e affascinante – del Novecento. Dell’Occidente che si avvia verso il benessere economico, Paparella è capace di cogliere sottotraccia gli aspetti più degradanti. «Le civiltà degne di questo nome – scriveva il 6 novembre 1963 -, assecondando la natura, avevano (…) reso pregevole e gradita anche la vecchiaia dell’uomo che l’inciviltà moderna – tesa solo alla giovinezza ed al successo – considera il male peggiore». Quel mito della giovinezza è l’illusione di una visione del reale ristretta, schiacciata sul presente, senza ampiezza né profondità. «Per raggelare di colpo l’entusiasmo della gente per un’idea, una moda od una qualsiasi opera od attività, basta dire: “È superata!” (…)», scrive nel dicembre ’76. «Il modo di ragionare contemporaneo ha, infatti, sostituito le categorie “bene o male”, “giusto o ingiusto” ecc., con “nuovo o vecchio”, “moderno o antico”, ecc.». Il nuovismo, dunque, regna. Il passato va abolito, anche quello recente perde subito di senso spazzato via dal continuo bisogno di stimoli sempre differenti. 

Paparella temeva che questo spezzarsi del legame con le proprie radici potesse avvenire anche per l’AC e la Chiesa. «La separazione (di un popolo, di un’associazione) dalla propria storia, con la recisione di quel legame vivente con l’opera di ieri che sola può dar senso all’opera di oggi e indirizzare un avvenire che abbia significato, porta a conseguenze gravissime», scrive nell’agosto ‘74. «Un paese idealmente separato dal proprio passato, è infatti, un paese in crisi di identità e dunque potenzialmente disponibile, senza valori».

È un Paese che subisce quel processo che non va «verso la pienezza, ma verso il nichilismo», come scriveva Augusto Del Noce (L’idea di modernità, 1982). Nichilismo logica conseguenza di quel razionalismo assoluto che nega la possibilità del soprannaturale e quindi di verità sovrastoriche. 

«Quanto “terrenismo” – scrive nel febbraio ’65 Paparella – c’è anche oggi negli ideali messianici di tanti “innovatori” del mondo». E riferito all’ACI, dieci anni dopo rifletterà: da un apostolato universale «che aveva come radici e fine il piano di Dio per la salvezza di tutti gli uomini, si è via via passati a problemi sempre più interni, prima della Chiesa ed infine, quasi esclusivamente della stessa associazione». Una regressione dalla quale metterà in guardia fino all’ultimo, come anche ammonirà riguardo al rischio di riduzionismo sociologico ed economicistico della fede cristiana (si pensi a ciò che oggi Papa Francesco dice sul rischio che la Chiesa si trasformi in una ong).

Tutto ciò ha ricadute gravi sullo sguardo della Chiesa sulle persone: ciò che l’ateismo spaccia per libertà e per umanesimo, in realtà è una mortificazione dell’uomo. «L’uomo non vive di solo pane – scrive nel febbraio ’65 – e (…) dando oggi ai poveri la loro bistecca, ma non curandoci dei loro godimenti spirituali ed intellettuali, noi li consideriamo “bestie” oggi, o siamo diventati noi stessi più “bestie” di ieri». 

Spesso ricorre anche l’associazione tra relativismo e solitudine. Siamo nel ’69, la tensione tra comunità e individuo si fa sempre più forte. Paparella scrive: «Fin tanto che c’è una Chiesa, od un partito, o una nazione, che dicono che questo è bene e questo è male, che dicono che il male va combattuto (…), l’uomo comune si sente confortato – unito ad una comunità che soffre con lui e che resiste con lui (…). In questa nostra Italia e persino nella nostra Chiesa (…) – scrive sempre nel ’69 – male e bene, giusto e ingiusto, vero e falso sono la stessa cosa. E l’uomo comune rimane veramente solo (…), senza nessuno che gli dia più speranza». Parole dure, certo, ma di un figlio della Chiesa che la ama e che non dimenticherà mai la sua missione di salvezza per ogni donna e ogni uomo.

«Le sole parole che ci possono salvare»

Nell’ottobre del ’65 scrive: «Pare impossibile (…) che nel nostro mondo (e nella nostra vita quotidiana) ci sia d’ora in poi – e per sempre in questa vita – un’assenza, un buco vuoto che nessuno al mondo può più riempire. Lo “spirito” di una persona è veramente qualcosa di unico e di insostituibile e non si può – in questi casi – non pensare ad un altro mondo, dove tutte queste lacune drammatiche possano colmarsi e ci si possa sentire nuovamente “completi” (Ecco, ora ci siamo tutti, ora possiamo davvero cominciare a giocare, spensieratamente)». Dolci parole di fede che seguono, sempre, a parole di denuncia. «È strano come questa nostra civiltà impazzita ci spinga ogni giorno – dicendo di voler farci più felici – verso l’infelicità», scrive nell’aprile ‘66. «La Rivelazione dicendoci di amare gli altri, di dimenticare noi stessi (…) ci dà la ricetta della nostra felicità (…). E lo strano è che nessuno sembra accorgersene, nessuno pensa a dirlo, e quelli stessi che dovrebbero dirlo per “missione”, temono di apparire ridicoli o superati se annunciano le sole parole che ci possono salvare».

Commovente è la visione che scrive il 3 ottobre ’64, per dare l’immagine di ciò che, anche nella società moderna, possa e debba rappresentare la Chiesa: «Questa sera, a Ferrara, nel buio umido delle strade che la circondano, la chiesa di S. Girolamo sembrava un porto caldo di luce e consolazione, illuminata ed addobbata per la festa di S. Teresa del Bambino Gesù (…). E pensavo che una Chiesa così bella, calda, consolatrice, unico punto di riferimento e di appoggio nel buio nel mondo, bisognava pur guardarla».

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 ottobre 2022

UIL Ferrara, un volume per  non perdere la memoria

26 Set

“Ritratto di un sindacato” è il nome dell’album fotografico appena edito. Storia e simboli di una comunità che si rinnova

È in un bar del centro di Ferrara, nel gennaio del 1950, che inizia la lunga storia della UIL Ferrara. In questa realtà fatta di tante lotte e vertenze si inserisce il volume, appena edito, intitolato Ritratto di un sindacato.  Album fotografico della UIL di Ferrara (2009-2022) (Edizioni Guardamagna), curato da Roberto Roda e Massimo Zanirato con la collaborazione di Emiliano Rinaldi. Volume che si pone come primo passaggio per un riordino archivistico dei documenti, in particolare dei materiali fotografici, del sindacato ferrarese. Le immagini, infatti, in buona parte provengono dagli archivi di Roda (etnografo e fotografo ferrarese), di Massimo  Zanirato, Segretario generale UIL Ferrara, e della Camera Sindacale Territoriale.

La pubblicazione è stata presentata la mattina di mercoledì 21 settembre durante il 18° congresso provinciale della UIL, tenutosi all’Hotel Lucrezia Borgia di Ferrara. Congresso che ha decretato lo scioglimento della UIL Ferrara e la sua confluenza nella UIL-Emilia, che unirà le diverse UIL regionali.

Una vicenda collettiva, quella della UIL, nata nell’alveo del sindacalismo riformista, fin da subito legato – pur nella sua autonomia – alla cosiddetta “sinistra laica” (Partito Socialdemocratico, Partito Socialista e Partito Repubblicano), e che ha come sua figura di riferimento Bruno Buozzi, sindacalista e politico socialista originario di Pontelagoscuro, ucciso dai nazisti nel 1944 a Roma, in quello che è chiamato l’Eccidio de La Storta.

Stare fra la gente, ascoltarla, guardarsi negli occhi, tanto nelle assemblee quanto nei picchetti o nei cortei: questa è l’anima di un sindacato, pur nell’epoca dei social, della comunicazione virtuale, e, almeno negli ultimi due anni, del distanziamento sociale. Su questo riflette il Segretario Zanirato, ed è lo spirito che pervade l’intera pubblicazione. Un lavoro corale di una comunità che ha scelto di mettere un punto fermo in una svolta importante della propria storia, consapevole dell’importanza di non dimenticare l’identità – per quanto continuamente bisognosa d’essere rinnovata (ma non stravolta) -, dunque le proprie radici e i propri valori fondativi. E, al tempo stesso, di ringraziare i veri protagonisti delle vicende che l’hanno contraddistinta: le tante lavoratrici e lavoratori, i tanti delegati e dirigenti che ancora oggi, in una fase storica di profonda crisi della rappresentanza – sindacale e non solo -, spendono la propria vita al servizio di una società più libera e giusta, partendo dal mondo del lavoro.

Risulta dunque di particolare importanza la presenza nel volume, oltre alle tante ed emozionanti fotografie, di testi esplicativi delle forme di partecipazione del sindacato: le assemblee delle lavoratrici e dei lavoratori, gli attivi dei delegati, i direttivi o consigli. Ma non solo: i tanti dibattiti, convegni e tavole rotonde per diffondere la cultura del lavoro, gli scioperi e le manifestazioni, non solo per il lavoro, ma ad esempio per la pace e contro le mafie. E, infine ma non meno importante, l’attenzione dei curatori anche per l’aspetto formale-comunicativo. Perché la storia di una comunità, per essere vissuta, trasmessa e rievocata, non può mai prescindere da un linguaggio condiviso e da un solido universo simbolico e rituale.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 settembre 2022

Memorie di una vita nel nuovo libro di Roberto Marchetti

23 Giu

“Ti ricordi quando?” è la nuova pubblicazione di Marchetti, tra i ricordi del bondenese e l’Argentina

Un lungo diario, redatto perlopiù negli ultimi anni, ma che affonda nell’intera esistenza. Dopo “Ti racconto di noi…” (Este Edition, 2018), Roberto Marchetti prosegue il proprio lavoro introspettivo fondato sulla memoria e sulla sua relazione col presente nel nuovo libro “Ti ricordi quando?” (Este Edition, 2022, con prefazione di Giuseppe Muscardini), che uscirà a breve.
Marchetti, classe ’54, sposato con Beatriz Norma Ferrari, di origini argentine, fondatore dell’Associazione badanti “Nadiya”, per oltre 20 anni è stato impiegato e dirigente dell’Eridania e per alcuni anni impiegato a livello amministrativi in alcuni Uffici della nostra Arcidiocesi, prima di dar vita, nel 2013, alla ditta Adamant Bionrg.
Mai moralista e mai autoindulgente, fra ironia (tanta) e malinconia (dosata ma non meno acuta), Marchetti riesce sempre a mantenere quell’occhio arguto e saggio di chi non costruisce sovrastrutture da applicare alla realtà né pretende, quest’ultima, di “oggettivarla” dall’alto della propria esperienza concreta. «Ineluttabilità degli eventi » e «positività della vita» si contendono lo spazio dei ricordi, ma è quest’ultima ad aver la meglio, nella consapevolezza – pur non del tutto razionale – che la vita val la pena di essere vissuta perché in essa vi si ritrova un nucleo di bellezza e di verità.
Tra diari di viaggio – come quelli nella miseria e negli splendori dell’Argentina – e racconti familiari più intimisti, in ognuno si ritrova quella vita vissuta, ancora con intensità, nella carne e nell’anima.
C’è innanzitutto il «rimpianto» della Bondeno della giovinezza, di quella provincia fatta anche di noie e meschinità, ma di cui, forse complice anche il tempo che passa e smussa le asperità, rimangono il cortile parrocchiale «strapieno di biciclette », i «don Guerrino», i bar, gli scherzi con gli amici, quel Cristo in legno portato a Pasqua su un carro agricolo.
Nessuna ipocrisia, nessun intento di raccontare un fatato “piccolo mondo antico” ma il prezioso dono che la memoria, a volte, ci fa: quello di riuscire a setacciare nel proprio passato, mantenendo ciò che abbiamo amato e ciò che ci ha permesso di diventare quel che siamo, senza rimuovere tutto il resto, ma conservandolo, al di là del rancore, in uno spazio periferico.
Un universo, dunque, quello dell’infanzia e della giovinezza, con i suoi – a volte grandi – limiti, ma che nella sua anima più vera – soprattutto familiare, parrocchiale, amicale – ha permesso anche all’autore di formarsi una concezione del mondo da una parte molto legata alla propria terra, dall’altra aperta verso culture e fedi differenti, sempre con una fame di conoscenza, con una curiosità spassionata e mai retorica che, appunto, può avere solo chi ha amato un luogo, solo chi non dimentica le proprie radici.
Vi è un desiderio forte, dunque, nelle pagine di Marchetti: quello di conservare, prima che il tempo glielo impedisca, quei volti, quegli episodi, quegli oggetti che negli anni più spensierati hanno costruito la sua identità. E così, spazio al primo bacio, al venticello estivo nel pioppeto e a molto altro. Sempre con un marchio ormai unico: quello del cuore dell’autore, più consapevole di sé, del tempo che scorre e dell’importanza, quindi, di tenere vivo un rapporto fra generazioni, di tramandare esperienze, di lasciare tracce. Nel suo caso, un vero e proprio rapporto educativo – fatto d’amore – con il proprio nipotino, cercando di coltivare in lui uno sguardo sempre libero e desideroso di bellezza.
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 giugno 2022

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L’amore inquieto nei versi di Filippo Reggiani

6 Giu
Filippo Reggiani

“De culpabili amore” è il libro di esordio del giovane poeta mirandolese. I tormenti di un cuore che anela a Dio

di Andrea Musacci

A volte, forse, la giovane età può far vedere ben poco sfumati i confini dei sentimenti, e dunque percepirne solo l’incandescenza o la cupezza. E così è bene che sia, e di questa istintività spirituale va conservata memoria in età adulta.

A ricordarcelo è Filippo Reggiani, giovane poeta classe 2000, che in questi mesi sta presentando il suo libro d’esordio, “De culpabili amore” (edizioni Kimerik, marzo 2022, pp. 84).

Un bagno negli abissi e negli splendori della classicità, che rivive nei versi di questo giovane nato a Mirandola, dove ha frequentato il Liceo Classico “Giovanni Pico”, lui originario di San Martino Spino ma che da alcuni anni vive a Ferrara dove a breve si laureerà in Lettere, arti e archeologia. Catechista e animatore della sua parrocchia, da ottobre a febbraio scorso ha svolto il tirocinio nell’Archivio storico della nostra Arcidiocesi.

Nonostante non abbia conosciuto il “secolo breve”, Reggiani ha già partecipato a diversi concorsi letterari, fra cui il “Premio Dante” indetto dall’Accademia dei Bronzi nel 2021, ricevendo la targa di merito, e il Premio “Habere artem” della Casa editrice Aletti. “De culpabili amore” l’ha presentato al recente Salone del Libro di Torino e il 10 giugno ne parlerà a Mirandola, nel Giardino ex Cassa di Risparmio, con inizio alle ore 21. Il libro è acquistabile sui principali store on line e su ordinazione nelle librerie di Ferrara.

Non male, insomma, per questo ragazzo che scrive poesie da circa 6 anni ma che fino a pochi mesi fa non aveva reso partecipe quasi nessuno della sua creatività. Un animo coraggioso, insomma, che non teme di mettersi a nudo, a maggior ragione in un’epoca come la nostra dove “poesia” – ahimè – è sempre più sinonimo di sdolcinatezza, di vuote e banali parole. Fa bene all’anima, invece, leggere “De culpabili amore”, dove fin da subito è chiara non solo la profondità dell’animo di chi scrive ma anche la sua conoscenza dello stile. 

Una poesia, la sua, che è catarsi, liberazione e purificazione dal male. Una poesia essenziale perché inebriata della sostanza dei sentimenti, degli aneliti fondamentali dell’umano, ma per nulla scarna, anzi ricca nelle immagini e nella musicalità. Sonetti, ottave, quartine libere per esprimere l’ambivalenza dell’amore, croce e delizia, via che conduce al bene e strapiombo per la perdizione. Sentimento fratello del tormento, che scatena emozioni ma anche affanni, l’amore è fatto anche di gioie ben poco durature, di ebbrezze e dolorose rinunce. Versi, quelli di Reggiani, battezzati dunque nelle acque agitate dell’esistenza, nel dolore e nelle mancanze, nella sete di vita vera.

È dunque l’amore il protagonista, tanto quello piccolo e meschino, quanto  quello immenso che libera. Il «disio è volubile come il vento, / d’ogni passion si riempie e mai sei grato», scrive Reggiani, «continua voglia e insaziabile brama». Il peccato «è adornar stanza che sempre resta vuota». «Eppur quel viso non riesco a dimenticare», perché in ogni volto vi è un segno dell’Eterno, una promessa di Bene. «Non la beltade, ma l’alma miro, / e mente affligge come il legno il tarlo. / Se quest’è il voler di Dio, allor, sol sospiro», sono ancora versi del mirandolese, e la preghiera è continua, non viene mai meno quel filo che lega il corpo al Cielo, la terra all’Infinito: Padre, «cura la lascivia, dà al cor nobiltà», «il peccar m’ancora qui, alla vita, / Vivo per lei che del viver è la ferita».

Ma la memoria della vera Promessa non viene meno, rimane fiamma viva senza dolore. «Vacilla mente ma salda è la Fede», è un altro verso del libro. «Cura Padre il mio cor, fallo ancor vivace, / stanco son di soffrir, il Tuo aiuto bramo», l’invocazione spontanea. «La mia lascivia porto al Tuo altare, / sì che le membra tornino leggiadre», sazie di quel Pane celeste che è nutrimento e riposo. 

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 giugno 2022

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