
Ritratto dell’artista morto 20 anni fa, vissuto a lungo a Milano ma cresciuto tra Codigoro e Lagosanto: un maestro di arte sacra e liturgica. Ecco la sua vita e la sua “teologia estetica”, oltre all’amicizia con Paolo VI e don Barsotti
di Andrea Musacci
«Il vero futuro deve realmente “arrivare” a noi da Dio: in quanto “nuovo cielo e nuova terra” in cui si manifesta l’essenza delle cose; in quanto “nuovo uomo” formato a immagine di Cristo. Questa è la nuova esistenza in cui tutto è manifesto, in cui le cose stanno nello spazio del cuore umano e l’uomo irradia la sua essenza nelle cose. Di quest’essere nuovo parla l’arte». Queste parole di Guardini(1) penso introducano al meglio la missione dello scultore Nicola Sebastio, di cui il 5 settembre ricorrono i 20 anni dalla morte. Nato a Bologna, ma vissuto perlopiù a Milano, Sebastio in gioventù abitò anche a Codigoro e Lagosanto. Ripercorriamo brevemente la sua esistenza e il suo cammino al Destino, dove arte e incontro con Cristo si intrecciano.
I PRIMI 30 ANNI
Sebastio nasce il 21 marzo 1914 da Carlo, medico condotto di origini tarantine, e da Elena Zani, modista di origini svizzere. Ha un fratello più piccolo, Cataldo. La famiglia va a vivere prima a Codigoro (in via XX settembre, 18) – dove Nicola a 18 anni esegue i suoi primi ritratti di gente del luogo – poi dal ‘24 a Lagosanto. Nel ‘32 Nicola si diploma al Liceo Artistico di Bologna, allievo di Giorgio Morandi, e nel ‘36 in scultura all’Accademia delle Belle Arti di Firenze. Torna poi a Lagosanto, dove mantiene stretti rapporti con i suoi amici Rino Guidi e don Guido Cinti. Qui, nella chiesa di Santa Maria della Neve esegue, negli anni, diversi lavori, fra cui la lunetta esterna, dove nel ‘38 colloca un cotto raffigurante la Madonna che regge il piccolo Gesù, Sant’Appiano e San Venanzio di Camerino. Fra le sue mostre, la prima è del ‘39 quando espone nella collettiva Mostra Sindacale d’arte nel Castello di Ferrara, poi nel ’42 partecipa alla mostra nazionale di G.U.F. nella Casa della Gioventù in c.so Giovecca, e l’anno successivo a un’altra collettiva di ferraresi a Diamanti.
DALL’EGITTO A MILANO
Nel ‘40 – anno in cui parte per la guerra e viene fatto prigioniero in un campo di concentramento inglese in Egitto, esperienza che sarà decisiva per la sua vita – insieme a don Cinti progetta la Madonna di Lourdes, con Santa Bernadette, per la facciata della Casa della Gioventù a Comacchio. Nel ’53 realizza un busto in marmo raffigurante Pio XII per il Seminario di Comacchio, mentre nel ‘58 dà vita alle 14 stazioni della Via Crucis e negli anni ‘60 sperimenta – fra l’altro – la tecnica del mosaico raffigurando nell’abside il Cristo Pantocratore. Fra fine anni ’40 e fine anni ’60 a Milano realizzerà diverse opere, fra cui nel ‘53 la statua di San Giovanni Battista De La Salle, posta sopra la prima guglia della facciata del Duomo (per cui realizzerà anche un tabernacolo portatile) e altre per la chiesa di Dio Padre. Nel ‘58 alla Pro Civitate Christiana di Assisi viene premiato alla collettiva sul tema Gesù Divino Lavoratore, nel ’65 per la chiesa Sant’Anna di Bologna crea il fonte battesimale progettato insieme al card. Lercaro e nel ‘70 riceve il prestigioso premio Madonnina d’oro, vinto quell’anno anche da Ungaretti. Nel ‘66 muore il padre e Nicola ne disegna e modella la tomba monumentale. Nonostante vivrà stabilmente a Milano, tornerà spesso a Lagosanto, Comacchio e Porto Garibaldi, per dar vita a diverse altre opere. Aderisce anche al Gruppo Arte e Comunità, nato a Milano a fine anni ’70, unendo artisti di generazioni e sensibilità diverse ma uniti dalla fede(2).
SUL COMODINO DI PAOLO VI
Negli anni ‘60 Sebastio – racconta don Dolz(3) – iniziò a realizzare «bronzetti di modeste dimensioni come opere finite. Usava una tecnica grumosa, figlia delle versioni previe in terracotta o gesso, di potente plasticità. (…) Fece dono di uno di questi a Paolo VI» che il 29 maggio del ‘70 festeggiava il 50° di ordinazione sacerdotale. «Il papa gli fece arrivare un caldo ringraziamento e mons. Pasquale Macchi lo conservò nella collezione di opere moderne. In quegli anni scriveva spesso a Paolo VI con I’intento di raccontargli delle attività con artisti cristiani. Papa Montini lo conosceva come persona e come artista da quando era arcivescovo di Milano». Per esempio, all’inaugurazione della chiesa di Sant’Eugenio, racconta Sebastio(4) «celebrando la messa, il cardinale notò un mio crocifisso sopra il tabernacolo. Era un crocifisso stretto e alto, piantato sulla pietra. Espresse il desiderio di averlo». Quando fu eletto papa, «si portò via questo crocifisso che tenne sempre sul comodino della sua camera da letto (…)».
GLI ULTIMI ANNI
Nel 2000 il Palazzo Arcivescovile di Ferrara ospita la sua personale La Croce e la speranza, organizzata dal Centro Culturale L’Umana Avventura e già esposta nel 1980 alla I^ edizione del Meeting di Rimini. Nel 2004, invece, Giglio Zarattini, mons. Samaritani e Laura Ruffoni curano a Palazzo Bellini a Comacchio una sua mostra sul tema del Crocefisso. Nel 2005, dopo la sua morte (avvenuta pochi mesi dopo quella della moglie), nasce l’Associazione Amici di Nicola Sebastio. Nel 2012 a Palazzo Bellini viene riservato uno spazio esclusivo per diverse sue opere, alcune di esse ora sparse in sale dell’edificio. Nel 2014 gli vengono dedicate due mostre, una a Pomposa, l’altra a Comacchio. Sebastio torna alla Casa del Padre il 5 settembre 2005, all’età di 91 anni, otto mesi dopo la morte di Maria Mazzoleni (morta il 6 gennaio), la sua «sposina cara, sposina bella» come teneramente la chiamava, con cui era convolato a nozze nel ’47: «Maria – racconta l’amico don Dolz(5) – si ammalò gravemente nel 2001. (…) Ormai terminale, fu trasferita in un hospice ad Abbiategrasso. Nicola passava le ore accanto al suo letto e lì, su un normale foglio A4 e con la biro azzurra, fece il disegno più drammatico della sua vita, sua moglie in punto di morte».
DON DIVO, FRATELLO
Oltre a CL, Sebastio nella sua vita si interessò ai Focolarini, a Rinnovamento nello Spirito e ai Domenicani e fu attivo nel Serra Club. Ma in generale «era attaccato alla Chiesa in tutte le sue varie dimensioni e realtà. Mantenne un rapporto filiale con i vescovi, in particolar modo col cardinal Martini, con il quale scambiò corrispondenza fino alla fine»(6). Il legame più forte, però, era quello con la Comunità dei figli di Dio fondata da don Divo Barsotti, nato un mese dopo Sebastio (il 25 aprile ’14) e morto pochi mesi dopo (il 15 febbraio 2006): «Con Barsotti ci furono rapporti molto stretti, sia sul piano religioso che artistico. Ne è rimasta la fitta corrispondenza». Il 18 luglio ‘62 Barsotti compiva 25 anni di ordinazione «e i suoi figli spirituali gli prepararono alcuni “regali”. Sebastio disegnò e fece confezionare un calice dalla coppa semplicissima, liscia, giocata sulla perfezione della curva, appena mossa da piccole pietre incastonate ritmicamente. E si premurò di fare anche la custodia per il calice, un’arca a capanna, come i reliquiari medievali, sbalzata con scene dell’Epifania»(7). L’anno prima, nel ’61 – raccontò(8) – «partecipai agli Esercizi Spirituali dell’UCAI (Unione Cattolica Artisti Italiani, ndr) a Campo Morone (GE) predicati da padre D. Barsotti (…) e mi portò a Settignano (FI)» alla Casa di San Sergio, «dove mi ordinò un San Sergio di Radonez»: «p. Barsotti mi diede il Cantico di San Sergio nella luce della Trinità. Dopo cena andai nella mia stanza per riposare e sul letto cominciai a leggere e a declamare il Cantico della Trinità. Lo lessi più volte velocemente, poi una zanzara si posò sulla mia mano sinistra, la schiacciai, e da lì, dalle ali divaricate, disegnai le tre Fiamme dello Spirito Santo centrate dal sole, col nome di Gesù Cristo. La mattina dopo Don Divo stupito approvò e mi ordinò il rilievo per l’esterno della Cappella della Comunità dei figli di Dio. Mi ordinò pure la croce gloriosa col Cristo Risorto, il Tabernacolo e i tre simboli della Trinità».
LA CROCE E LA PENTECOSTE
«Vuol dirci perché fa l’artista?»
«Per dire una parola che possa servire anche agli altri. Perché la mia scultura, nel suo limite, possa manifestare il mistero cristiano agli uomini». (…) La «fede degli italiani è troppo di carattere devozionale. La massa non arriva a capire il Cristo che racchiude in sé tutto (…). Occorre ridare alla gente il senso pasquale». In questo passaggio di un’intervista che Sebastio rilasciò nell’ottobre del ’66 a Famiglia cristiana(9) emerge bene come il centro dell’esistenza di quest’artista fosse chiaro: Gesù Cristo. E la Croce, intesa non solo come simbolo della Passione ma della Redenzione, cuore della storia universale.
In un altro testo(10), prima di ripercorrere la storia del simbolo della croce dal 4000 a. C. (con la Croce di Tepe Siyalk, conservata al Museo di Teheran), Sebastio scriveva: «La Croce riassume in sé tutto il mistero della redenzione. Per la Bibbia la croce è l’albero della vita, al centro del Paradiso Terrestre, che a sua volta rappresenta il centro del Mondo(11). (…) Vediamo come sia attuale e necessario testimoniare la resurrezione di Cristo con la croce gloriosa – proseguiva – e come questa possa contribuire a ridare luce, sollievo, gioia all’umanità angosciata di oggi».
Dalla gloria del Cristo Risorto, Sebastio arriverà – in un profondo cammino personale – al senso della Pentecoste. Quell’estate sopracitata del ’61 Sebastio sarà anche a Friburgo; raccontò(12): «Da poco ho capito la Pentecoste, il tempo di Pentecoste, il tempo nel quale i cristiani, come nuovi apostoli, dovrebbero far lievitare cristianamente la società che li circonda. Spesso ciò non avviene, perché il nostro maggiore nemico è in noi, nella nostra superbia di europei portatori di civiltà, dimentichi della frase del Vangelo: “Gli ultimi saranno i primi”. La netta sensazione di ciò l’ho avuta al recente Convegno del Segretariato Internazionale degli Artisti Cattolici dipendente da Pax Romana, tenutosi a fìne luglio in Svizzera a Friburgo. A Friburgo ho visto la Chiesa, ma l’ho sentita soprattutto per opera dei Cinesi, dei Vietnamiti, degli Africani, di qualche Tedesco dell’Est, degli Irlandesi e di alcuni Svizzeri. In loro il Cristo veramente abitava ed era il centro della loro vita».
Cristo centro dell’esistenza di ognuno verso il comune Destino. E arte come segno di ciò: «Ogni autentica opera d’arte è essenzialmente escatologica e proietta il mondo al di là, verso qualcosa che verrà»(13).
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Grazie per l’aiuto a don Andrea Zerbini (CEDOC S. Francesca Romana), Fosco Bertani (artista amico e allievo di Sebastio), Maria Rosa Sabattini (Comune di Comacchio) e P. Agostino Ziino (Comunità dei figli di Dio).
NOTE
1 – R. Guardini, L’opera d’arte, Morcelliana, Brescia, 1998.
2 – Vedi Arte e Comunità: come nasce un gruppo, Centro Culturale San Michele, Sala G. Varischi, Cremona, 11-25 maggio 1986.
3 – M. Dolz, Nicola Sebastio scultore, Medusa ed., 2014.
4 – Ibid.
5 – Ibid.
6 – Ibid.
7 – Ibid.
8 – Arte e fede: intervista a Nicola Sebastio, a cura di Margherita Giuffrida Ientile, 1980.
9 – In M. Dolz, Nicola Sebastio scultore, cit.
10 – In N. Sebastio, La croce e la speranza alle soglie dell’anno 2000, Centro Culturale La traccia, Galeati, Imola, 1984.
11 – A tal proposito mons. Antonio Samaritani scrisse: «Ebbi una specie di folgorazione quando Sebastio mi fece conoscere il tema della croce di Cristo in versione transculturale, che ritengo sigla fondamentale di tutto il suo organico per quanto articolatissimo iter spirituale e artistico» (in Nicola Sebastio. Un uomo, un impegno: l’arte del sacro, supplemento di Anecdota, Quaderni della Biblioteca L.A. Muratori del Comune di Comacchio, 2004).
12 – Dall’articolo di Sebastio, La mia Pentecoste, in Rivista Liturgica del Centro di Azione Liturgica, Anno XLVIII – n. 5-6 – settembre-dicembre 1961.
13 – R. Guardini, L’opera d’arte, cit.
Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 settembre 2025
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Ospitale e attento, compassionevole e sempre teso verso l’altro, soprattutto i giovani. Questo è il don Patruno emerso dalle parole di Angelo Andreotti, Direttore del Servizio Biblioteche e Archivi del Comune di Ferrara, e suo ex amico e collaboratore. L’occasione di questa testimonianza pubblica è stato l’incontro svoltosi nel tardo pomeriggio di venerdì 19 ottobre nel Salone di Casa Cini, in occasione dell’esposizione nella sede di via Boccacanale a Ferrara, della III edizione della Biennale d’arte intitolata proprio al sacerdote ferrarese. Ricordiamo che venerdì 25 ottobre avrà luogo il finissage della mostra con opere di otto giovani artisti, evento nel quale verrà presentato anche il catalogo. “Il periodo in cui lo conobbi e passai più tempo con lui fu fra il 1980 e il 1990, tra i miei 20 e 30 anni”, ha raccontato Andreotti. “Allora studiavo filosofia all’Università e scrivevo poesie, ma non sapevo a chi farle leggere. Mi fecero conoscere don Franco e iniziai ad andare in Seminario a trovarlo tutti i sabato, per parlare e discutere di vari argomenti. All’università non avevo trovato un professore che potesse essere per me, giovane, un punto di riferimento”. Gli incontri con don Patruno, al contrario, “mi aprivano mondi dei quali non conoscevo l’esistenza. Oltre ai temi, era molto importante il modo col quale parlavamo: una forma sempre dialogica e serena”. Nella seconda metà degli anni ’80 Andreotti ebbe anche modo di collaborare assiduamente con lui nell’organizzazione delle tante mostre proprio a Casa Cini. Una poesia di Giorgio Caproni è stata poi citata dal relatore, emblematica del suo rapporto col sacerdote, artista e critico d’arte: “Tutti riceviamo un dono. / Poi, non ricordiamo più / né da chi né che sia. / Soltanto ne conserviamo / – pungente e senza condono – / la spina della nostalgia”. “Di lui – sono ancora parole di Andreotti -, la prima cosa che mi colpì fu la sua accoglienza, il suo sorriso sbilenco, la voce spesso a un tono alto, il suo incedere stesso che era un farsi prossimo. Alla sua gioia trascinante era difficile resistere. Non aveva mai porte chiuse, era una persona davvero ospitale, da lui mi sentivo avvolto e protetto. Amava molto interrogare, provocare, stimolare l’altro – ha proseguito il relatore -, ma sempre con l’attenzione verso chi aveva davanti, che significa ascolto e sguardo, e che è nemica dell’indifferenza e dell’arroganza, ma anzi è un tendere verso, uno sporgersi fuori da se stessi ma al tempo stesso nel profondo di sé”. Inoltre, don Patruno era “sempre generoso e aveva il dono della compassione, che si fondava sulla percezione dell’altro come prossimo a sé, senza compiacimento alcuno”. Numerosi, alla fine dell’incontro, sono stati gli interventi dal pubblico – era presente una quarantina di persone – da parte di chi ha avuto modo di conoscerlo, da allievo e/o da amico: “don Franco – è un po’ quello che è emerso – aveva il grande dono di vedere l’anima delle persone che incontrava, ed era convinto che non esistessero ‘noi’ e gli ‘altri’ ma solo ‘noi’ tutti insieme”.
Il combattimento interiore della persona, ridotta a cosa fra le cose, eppur viva nella connaturata vocazione alla ricerca e a un approdo di senso. E’ denso di significati di smisurata profondità, il quarantennale percorso artistico di Adriano Avanzolini, artista bolognese classe ’45 la cui ultima personale, dal titolo “La materia in sottrazione”, una sorta di mini antologica, è ospitata fino al prossimo 9 giugno negli spazi della Galleria del Carbone di Ferrara. Nell’esposizione – a cura di Sandro Malossini e con presentazione in catalogo di Pasquale Fameli – sono presenti un ciclo di sculture in terracotta e lavori su carta e tela ad acrilico di grande dimensione. “E’ una pittura – spiega lo stesso artista nel testo in catalogo – dove il nero domina spesso, a spatolate larghe, come una ricerca di chiarezza che corrisponde al desiderio di sintesi e misura. Sperimento le infinite possibilità degli in-croci, dell’unione di espressioni artistiche vicine che accentuano la trasparenza in una meditazione espressiva silenziosa, sulla soglia che divide l’inizio dalla fine, dove tutto, insieme, esalta il discorso artistico”. In molte opere – soprattutto degli anni ’70, e alcune più recenti – spiega ancora Avanzolini, “rendo manifesto il luogo dove l’uomo esprime se stesso, mentre aspira ad una realtà superiore o si annichilisce. Passioni umane, torbidi mescolii, si fondono con elementi domestici inconsapevoli a fare un tutt’uno di simbolo e immagine concreta, teatrale”. Una quotidianità, come la definisce il critico Fameli, “squallida e insignificante”. Con il “Teatro del quotidiano” (1974), prosegue Fameli, “l’artista inscena e orchestra infatti i gesti di un’umanità oggettualizzata, ridotta a simulacro di se stessa, logorata dall’incrocio tra conflitti privati e collettivi. […] La collocazione di figure anonime e malinconiche in ambientazioni scarne, fatte di vecchie sedie in legno, poltroncine sdrucite, brande e tavolacci, assume nella ricerca di Avanzolini una più spiccata valenza metafisica”. I corpi fortemente sessuati, le pose e i gesti scabrosi riempiono la “scena”. Questa sorta di “cupio dissolvi” che sembra pervadere i residui di volontà di questi corpi relittuali agisce dentro una tensione che pare irrisolvibile, così da acquistare pienezza anche se mutilati, sensualità nella propria immobilità, soggettività nella paralisi. Sono attori, seppur di un palcoscenico assurdamente muto. Proprio questi “scarti” di vita, dove sembrano indicare una nullificazione, richiamano invece scintille di passioni forse non del tutto sopite, scampoli di tensioni soffocate, fossilizzate e scomposte, eppure magmaticamente vive.
Come scrive lo stesso Avanzolini, “forme di vuota apparenza sono utili a prefigurare uno stato d’animo che, compenetrato nelle tenebre terrene, conduce chi guarda verso più alte aspirazioni. Lo spettatore è parte dell’opera, superandola, e tale pensiero non contribuisce a rendere più vivibile la vita”. Negli anni ’80 questa de-composizione raggiungerà una radicalità quasi estrema, la quale, pur non arrivando all’informalità, minimalizzerà comunque forme e linee, fino a svuotarle, per riempirle di nuova luce ed energia. Queste forme povere ed esangui riacquisteranno anima in alcune opere degli anni ’90 e 2000, dove simboli religiosi – anche cristiani, come la croce o il vincastro – e mitici o arcaici, faranno la loro comparsa. “Le croci – scrive ancora l’artista -, dove i vuoti prevalgono, definiscono lo spazio della scultura, la mia scultura, alla fine del millennio. Ho spogliato l’involucro carnale, accontentandomi della semplice trama che non arma il cemento, ma lo spazio. […] E’ stata emendata la scultura da ogni sensualità, ridotta all’osso. Ciò che avvicina è la vocazione al senso”. La mostra, che ha il patrocinio del Comune di Ferrara, sarà visitabile fino al 9 giugno con i seguenti orari: dal mercoledì al venerdì dalle ore 17 alle ore 20; sabato e festivi dalle ore 11 alle 12.30 e dalle 17 alle 20; lunedì e martedì chiuso.
San Sebastiano è una figura che ancora oggi continua a ispirare tantissimi artisti. Lo sa bene il critico e curatore Lucio Scardino, che da diversi anni colleziona opere di artisti ferraresi e non dedicate al “santo con le frecce”. 34 (33 iniziali + 1 aggiunta in corsa) di queste opere sono in mostra a Ferrara fino al 31 gennaio nella sede di Cloister (doppia entrata, da corso Porta Reno, 45 o da via Gobetti), per la 33esima esposizione organizzata dall’attiva galleria guidata da Alessandro Davi. Non a caso, il 20 gennaio ricorre la solennità di San Sebastiano (256-288), militare romano e martire sotto Diocleziano. Giovane dal corpo virile e atletico, simbolo di bellezza e di sacrificio, il santo ha lo sguardo che punta dritto negli occhi di chi lo guarda, come nella tela di Nannini (recentemente esposta anche a Fabula Fine Art), o è il busto in bianco e nero con venatura rossa di Lenzini, oppure la scultura della Grilanda con due sole frecce conficcate nelle carni. In Orsatti, invece, di San Sebastiano vi è una maestosa testa di profilo con l’elmo, senza dardi a dilaniarlo. Quella delle frecce mancanti, o non “visibili”, ricorre in altre opere, come nel dipinto di Filippini (col santo disteso e privo dei segni delle ferite) o in quello della Benini, col giovane disteso e di schiena, in piedi (Coluzzi) o seduto (Tassini), ad accentuare l’intento metaforico della sofferenza dell’uomo, dell’artista, trascendente il dolore fisico. In Artosi, al contrario, le frecce vi sono eccome, e ne colpiscono il viso, mentre Gualandi, che nel suo stile tipico inserisce il soggetto nel contesto storico-urbano ferrarese, rappresenta, nel disegno stesso, una mostra dedicata al santo. Farolfi (foto) sceglie, invece, di rappresentare, con estremo realismo, una ferita netta sul costato del santo, un piccolo squarcio che ricorda quella del Cristo “invasa” dal dito scettico di san Tommaso nella tela del Caravaggio. Infine, in Ribertelli, il santo, nell’elasticità agonistica di un atleta, le frecce sembra schivarle, quasi ponendole sotto il suo controllo. La mostra è visitabile da lunedì a sabato dalle ore 9 alle 19.30. Questi i nomi di tutti gli artisti in mostra: Enrico Artosi, Giorgio Balboni, Gianni Bellini, Rosamaria Benini, Carlo Bertocci, Flavio Biagi, Gianni Cestari, Franco Coluzzi, Matteo Faben, Matteo Farolfi, Alfredo Filippini, Renzo Gentili, Luca Ghetti, Gianfranco Goberti, Laura Govoni, Alberta Grilanda, Claudio Gualandi, Pietro Lenzini, Terry May, Pietro Moretti, Duilio Nalin, Matteo Nannini, Santo Nicoletti, Impero Nigiani, Paolo Orsatti, Stefano Rubertelli, Andrea Samaritani, Marco Spaggiari, Emanuele Tasca, Andrea Tassini, Antonio Torresi, Giuliano Trombini, Giglio Zarattini, Luca Zarattini.