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Kafka e quella vergogna che apre alla solidarietà

21 Ott


A Ferrara la tesi di Ernesto C. Sferrazza Papa: «niente assurdo, lo scrittore è un iperrealista»

“Le promesse della vergogna. Esperimenti su Kafka” (Rosenberg & Sellier, Torino 2025) è il nome del saggio dello studioso Ernesto C. Sferrazza Papa (Università di Roma “La Sapienza”), da lui presentato lo scorso 16 ottobre in Biblioteca Ariostea a Ferrara.La conferenza organizzata da Istituto Gramsci e Isco Ferrara ha visto la presentazione a cura di Micaela Latini (Università di Ferrara) e l’introduzione di Filippo Domenicali (Istituto Gramsci Ferrara).

Proprio quest’ultimo ha riflettuto su come dal libro di Sferrazza Papa emerga un Kafka «illuministico – nel senso di Adorno e Horkheimer – e demistificator»e.Insomma, il suo non è pessimismo ma «teoria critica», e quindi la vergogna nei suoi scritti è «progressista, apre a una speranza possibile».

«Kafka è uno dei pochi autori a poter “vantare” il fatto di esser diventato un aggettivo, “kafkiano” – ha detto l’autore -, che richiama un’oppressione assurda operata da un potere contro il quale è difficile ribellarsi». Un aggettivazione, quindi, che richiama «un’assenza di speranza, una resa al mondo così com’è». Ma quest’aspetto, pur presente, per Sferrazza Papa «non esaurisce l’opera di Kafka»: vi è in lui, infatti, «un moto di rivalsa nei confronti del potere, un’istanza critica», soprattutto ne Il processo. È, infatti, «attraverso la vergogna che Kafka attacca il potere». Quella vergogna che, nella nota Lettera al padre (mai recapitata al destinatario) è «effetto di una strutturale incapacità del figlio a rispondere alle aspettative del padre, quest’ultimo simbolo della legge e del potere come struttura colpevolizzante». Ne Il processo è «come se la vita non potesse non essere di per sé colpevole». Il tribunale segreto che giudica il protagonista, per l’autore «ricorda la Santa Vehme», tribunale nato nella Germania medievale, parallelo a quello ordinario e che «si autoattribuiva la facoltà di condannare a morte persone sfuggite al sistema giudiziario ordinario».

Insomma, «Kafka non è come normalmente si pensa un narratore dell’assurdo ma anzi un iperrealista: egli sa, infatti, che esiste una razionalità nascosta, occulta».

Ed è proprio nella scena finale del Processo che si accenna a questa vergogna che sembra dover «sopravvivere» al protagonista Josef K., poco prima che questi venga giustiziato. In Kafka, dunque, la vergogna «ha un valore dialettico»: da una parte, c’è la vergogna «passiva, che chiude in sé stessi», cioè quella «davanti agli altri, causata dal loro sguardo giudicante»; dall’altra, esiste la vergogna «attiva, che trasforma il mondo», quella «per gli altri», cioè il vergognarsi di ciò che gli altri dicono o compiono. Quella di cui si accenna nel finale del romanzo è questo secondo tipo di vergogna, forse da attribuire a quella misteriosa figura umana che si sporge dalla finestra di fronte. La finestra, certo, già di per sé «simbolo di un oltre, di un’apertura verso qualcun altro, apertura che squarcia il reale inteso come mera manifestazione,  apertura a un altrove». Finestra, quindi, come simbolo di «un interessarsi al mondo, di un affacciarsi al mondo per partecipare alla realtà, senza isolarsi». Simbolo, insomma, «di emancipazione, di solidarietà», richiamo all’esistenza di un testimone che può testimoniare. Testimone attivo «che è – che può essere – ogni persona che legge il romanzo».

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 24 ottobre 2025

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Il mito e quel «riarmo mentale» che ci porta dritti al totalitarismo

1 Ott

ERNST CASSIRER. 80 anni fa moriva il noto filosofo tedesco. Postumo, uscì nel ’46 un suo saggio sugli aspetti irrazionali e «demoniaci» insiti anche nei moderni poteri statali. Un’analisi dura che ancora oggi può farci molto riflettere 

di Andrea Musacci 

Nella primavera del 1945 moriva improvvisamente uno dei più importanti filosofi del Novecento, Ernst Cassirer. Ebreo e neokantiano, non ha mai potuto vedere la pubblicazione del suo “Il mito dello stato”, da lui scritto tra il 1944 e il ’45 e concluso e copiato dal suo manoscritto pochi giorni prima della sua morte improvvisa che lo colse il 13 aprile all’età di 71 anni. L’opera è stata pubblicata nel ’46.

EBREO IN FUGA DAL NAZISMO

Nel 1906 grazie a Wilhelm Dilthey, Casasirer conseguì l’abilitazione all’Università di Berlino, dove fu a lungo libero docente. A causa delle sue origini ebraiche ottenne solo nel 1919 una cattedra nella neofondata Università di Amburgo, di cui divenne più tardi rettore (1929-30), e dove tra l’altro fu supervisore delle tesi di dottorato di Leo Strauss e Joachim Ritter. Essendo di origini ebraiche, con l’avvento del nazismo nel 1933 dovette lasciare la Germania, insegnò a Oxford dal 1933 al 1935 e fu professore a Göteborg dal 1935 al 1941. In quegli anni fu naturalizzato svedese ma, ritenendo ormai anche la neutrale Svezia poco sicura, si recò negli Stati Uniti d’America, dove fu visiting professor nell’Università di Yale, nel New Haven, dal 1941 al 1943 e docente alla Columbia University, New York dal 1943 fino alla morte. Dopo essere uscito dalla tradizione della Scuola di Marburgo del neokantismo, ha sviluppato una filosofia della cultura come teoria fondata sulla funzione dei simboli nel mito, nella scienza, nella religione, nella tecnica. Ad Amburgo ha collaborato attivamente alla biblioteca di Aby Warburg. Scrive il filosofo statunitense Charles W. Hendelnella premessa all’edizione americana de “Il mito dello stato” (1946): «In tutto ciò che egli intraprendeva c’era una costante dimostrazione delle interdipendenze delle diverse forme della conoscenza e della cultura umane. Egli possedeva, cioè, il genio della sintesi filosofica, oltre che l’immaginazione e la dottrina dello storico».

IL RAZZISMO DI GOBINEAU

Nel libro, Cassirer dopo un’analisi del mito e della «lotta» contro di esso nelle diverse teorie politiche nel corso dei secoli, analizza prima il “culto dell’eroe” di Thomas Carlyle, filosofo scozzeze del XIX secolo e poi il noto saggio di un contemporaneo di quest’ultimo, “Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane” del conte francese Joseph Arthur de Gobineau. Secondo quest’ultimo, la storia è una scienza e – scrive Cassirer -, sempre secondo Gobineau, «ora, il sigillo è violato e il mistero della vita umana e della civiltà umana ci si rivela, poiché il fatto della diversità morale e intellettuale delle razze è evidente». Prosegue Cassirer nella sua critica al francese: «Una delle sue convinzioni più salde è che la razza bianca sia la sola che abbia avuto la volontà e la forza di costruire una vita culturale (…). Le razze nere e gialle non hanno vita propria, non volontà, non energia. Non sono altro che materia morta nelle mani dei loro padroni, la massa inerte che deve  essere mossa dalle razze superiori». Prosegue poi Cassirer: «La nostra idea moderna dello stato totalitario era del tutto aliena allo spirito del Gobineau (…)». Tuttavia, egli «appartiene al novero di quegli scrittori che, in modo indiretto, più hanno fatto per preparare l’ideologia dello stato totalitario. Era il totalitarismo della razza che tracciava la strada alle posteriori concezioni dello stato totalitario». E tutto ciò, prosegue Cassirer, nonostante Gobineau fosse «un devoto cattolico»: infatti, «il più potente avversario di Gobineau, si capisce, era la concezione religiosa dell’origine e del destino dell’uomo». La sua teoria, insomma, era «in contraddizione flagrante con gli ideali etici della religione cristiana».

Cassirer prosegue poi la propria analisi, arrivando a parlare del presunto legame tra razzismo e nazionalismo: «A noi sembra naturale stabilire un legame fra razzismo e nazionalismo. Siamo persino portati a identificarli. Ma questo non è corretto, né dal punto di vista storico né da quello sistematico (…). Questa distinzione diventa chiarissima» nell’opera di Gobineau, aristocratico e nostalgico del feudalesimo, che «non era affatto un nazionalista, e non era nemmeno un patriota francese». Rimane il fatto che il suo «mito della razza ha lavorato come un potente corrosivo, ed è riuscito a dissolvere e disintegrare tutti gli altri valori».

LO STATO TOTALITARIO TRA MITO, MAGIA E CULTO DEL CAPO

Venendo al Novecento, Cassirer arriva quindi a spiegare come «nelle situazioni disperate l’uomo farà sempre ricorso a mezzi disperati, e i miti politici dei nostri giorni sono stati altrettanti mezzi disperati di questo genere». Nelle crisi della vita sociale, quindi, «è ritornata l’ora del mito», contro ogni forma di «organizzazione razionale» stabilita. Il mito, quindi – con le sue «potenze demoniache» – «non è stato realmente vinto e soggiogato». Riprendendo la definizione dello studioso francese Edmond Doutté (1867-1926) – il mito è «il desiderio collettivo personificato» – Cassirer scrive a proposito del culto del capo e della dittatura del suo tempo: «L’esigenza di un capo appare soltanto quando un desiderio collettivo ha raggiunto una forza travolgente, e quando, d’altro lato, tutte le speranze di soddisfare questo desiderio in una maniera ordinata e normale sono fallite». In questi momenti, «l’intensità del desiderio collettivo si incarna nel capo»; legge, giustizia e Costituzione non valgono più niente. «Ciò che soltanto rimane è il potere mistico e l’autorità del capo, e la volontà del capo è la legge suprema».

Razionalità e mito si confondono nella moderna politica totalitaria: è la «nuova tecnica del mito»: «L’uomo politico moderno ha dovuto combinare in sé stesso» due funzioni tra loro diverse: «egli è il sacerdote di una nuova religione, del tutto irrazionale e misteriosa», appunto perché fondata sul mito. «Ma – prosegue Cassirer – quando deve difendere e diffondere questa religione, egli procede in modo estremamente metodico. Nulla è lasciato al caso». Così il «vero riarmo», il primo in ordine temporale, della Germania nazista non fu quello militare ma «cominciò coll’inizio e con lo sviluppo dei miti politici» che portarono a un «riarmo mentale». Inoltre, questi miti politici moderni portano anche a una «trasformazione del linguaggio umano. La parola magica prende la precedenza sulla parola semplice».E portano anche alla creazione di «nuovi riti»: «poiché, nello stato totalitario, non c’è nessuna sfera privata indipendente dalla vita politica, tutta la vita dell’uomo viene improvvisamente inondata da un’alta marea di nuovi riti». L’analisi di Cassirer è lucida e impietosa: «non c’è niente che abbia maggiore probabilità di addormentare tutte le nostre forze attive, la nostra capacità di giudizio e di discernimento critico, e di sopprimere il nostro sentimento della personalità e della responsabilità individuale, quanto il compimento costante, uniforme e monotono degli stessi riti». Adifferenza dei pur terribili poteri del passato, i miti politici moderni «non hanno cominciato con l’esigere o proibire certi atti. Si sono invece proposti di cambiare gli uomini, per poter regolare e controllare i loro atti»: hanno agito quindi come «un serpente che cerca di paralizzare la propria vittima prima di attaccarla». Così,  la «sfera di libertà personale» viene annichilita.

Infine, ma non meno importante, Cassirer analizza come la «vita politica moderna» abbia “attualizzato” forme antiche di divinazione: «L’uomo politico diventa una specie di pubblico negromante. La profezia è un elemento essenziale della nuova tecnica di governo (…); l’età dell’oro viene annunciata di continuo».

L’insegnamento finale di Cassirer è da meditare profondamente anche oggi, nelle “secolarizzate” e postmoderne società avanzate del XXI secolo: «Tutti noi abbiamo avuto tendenza a sottovalutare questa forza» dei miti politici moderni: all’inizio «li trovammo così assurdi ed incongrui, così fantastici e ridicoli, che quasi non potevamo indurci a prenderli sul serio. Ormai è diventato chiaro a noi tutti che questo era un grande errore. Non dovremmo commettere l’errore una seconda volta».

***

Marco Bertozzi e il ruolo della filosofia contro il mito

“Ernst Cassirer e il mito dello stato” è stato il tema al centro della conferenza di Marco Bertozzi svoltasi lo scorso 26 settembre nella Sala Agnelli della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara. Introdotto da Filippo Domenicali (Istituto Gramsci di Ferrara, che assieme all’Isco ha organizzato l’iniziativa), Bertozzi ha svolto un’ottima introduzione de “Il mito dello stato” del filosofo tedesco.Ricordiamo che Bertozzi è docente di “Storia della filosofia politica” a UniFe, Direttore dell’Istituto di Studi Rinascimentali di Ferrara e Presidente del Comitato scientifico del Centro internazionale di cultura “Giovanni Pico” di Mirandola.

Cassirer – ha spiegato Bertozzi – nel ’44-’45 ha la percezione che il potere mitico abbia avuto un «potere schiacciante». Questa «specie di stregoneria, di incantamento» è stato dal potere moderno «sfruttato e tecnicizzato» per manipolare le masse convincendole che la vera libertà stia nell’essere sudditi – più che cittadini – di un potere totalitario. Per il tedesco, in politica viviamo sempre su un terreno «vulcanico», dominato cioè da «forti caratteri emozionali e irrazionali». Bertozzi ha quindi citato una novella di Thomas Mann, “Mario e il mago” (1930), per sottolineare in Cassirer l’insistenza del forte potere di suggestione, «magico» appunto, che il potere può avere. Il relatore ha poi citato il noto testo “Il tramonto dell’Occidente” (1918) di Spengler, dove quest’ultimo spiega come la nascita di una cultura sia sempre un «atto mistico», qualcosa di legato al «destino», cioè a qualcosa di «inevitabile». L’analisi di Cassirer è stata poi da Bertozzi confrontata con alcuni passaggi di Heidegger in “Essere e tempo” (1927) è l’idea di «destino comune». In conclusione, anche la riflessione di Cassirer – pur esponente del cosiddetto “neoilluminismo” – è connotata da una rilevante negatività:il mito – per lui – è qualcosa di «invulnerabile», che «la filosofia, la razionalità può solo aiutare a conoscere, a riconoscere e quindi a combattere». Forse non è poco, ma di sicuro c’è bisogno di altro per salvarci dal rischio del totalitarismo.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 ottobre 2025

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Guerra, pace e dignità: riflessioni a margine di un incontro sulla Pacem in terris

27 Set

Conferenza del Gramsci nel 60° dell’enciclica: ecco alcune criticità

Un importante momento di dialogo fra credenti e non credenti è stato rappresentato dalla conferenza “L’enciclica Pacem in terris e il laboratorio fiorentino” svoltasi lo scorso 22 settembre in Biblioteca Ariostea a Ferrara. Organizzata dall’Istituto Gramsci Ferrara all’interno del ciclo “Anatomia della pace”, è stata pensata in collaborazione con Isco Ferrara, CGIL Ferrara, Biblioteca Ariostea, Runipace e con il patrocinio di UniFe e Comune di Ferrara.

Ricorre quest’anno il 60° anniversario della pubblicazione dell’enciclica di San Giovanni XXIII, ultimo suo testo prima del ritorno alla Casa del Padre.

Nella relazione introduttiva, Alessandra Mambelli ha ripercorso brevemente le vicende di Pax Christi a Ferrara e i 30 anni di Convegni di “Teologia della pace” organizzati dallo stesso movimento, interrottisi nel 2019 (nella speranza che possano riprendere quanto prima). L’intervento principale è stato quello di Fiorenzo Baratelli (Istituto Gramsci Ferrara), il quale ha anche ricordato alcune figure del cattolicesimo fiorentino di quegli anni – Giorgio La Pira, padre Ernesto Balducci, Mario Gozzini e Gian Paolo Meucci.

TERRA E CIELO

«La Pacem in terris – ha riflettuto Baratelli – parla di un mondo da costruire, cercando di leggere i segni dei tempi e guardando lontano, con una sconvolgente attualità profetica». Cinque, secondo il relatore, gli ambiti “rivoluzionari” del testo. Il primo: il trattare «della terra, della carne, della storia», e non dell’aldilà. Concetto opinabile, questo, se riguarda una fede, come quella cristiana, nella quale da una parte l’Incarnazione è centrale – con tutto ciò che ne consegue – e, dall’altra parte, altrettanto imprescindibile è la consapevolezza che la pace che dobbiamo costruire qui e ora è sì una necessaria preparazione del Regno ma non sarà mai la Pace piena della Comunione con Dio. La stessa Pacem in Terris inizia così: «La Pace in terra, anelito profondo degli esseri umani di tutti i tempi, può venire instaurata e consolidata solo nel pieno rispetto dell’ordine stabilito da Dio». E nella parte finale (n. 90), Giovanni XXIII spiega come la costruzione della pace sulla terra è «impresa tanto nobile e alta, che le forze umane (…) non possono da sole portare a effetto», ma «è necessario l’aiuto dall’alto».

QUALE DIGNITÀ?

Secondo: il concetto di “dignità” che «lega tra loro pace e giustizia, pace e libertà».Concetto, per la Pacem in Terris centrale, ma che andrebbe letto in questi termini (n. 5): se «si considera la dignità della persona umana alla luce della rivelazione divina, allora essa apparirà incomparabilmente più grande» (corsivo nostro). Terzo: l’indicare nei «rapporti di dominio l’ostacolo principale alla realizzazione della pace e alla valorizzazione della dignità».E ancora: i cosiddetti «segni dei tempi», e l’importanza di «abbattere i muri distinguendo tra ideologie e movimenti reali». 

GUERRA GIUSTA/LEGITTIMA DIFESA

Da qui, le parole chiare dell’enciclica sul disarmo e sul «superamento – secondo Baratelli – del concetto di guerra giusta». Ma nella Gaudium et spes (n. 79), Costituzione fondamentaledel Concilio Vaticano II, è scritto: «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa». Ed è utile anche ricordare come nello stesso Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 2309 si parli delle «strette condizioni che giustificano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente: che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare».

Venendo all’attualità, lo stesso Papa Francesco nel Messaggio in occasione del Convegno sulla Pacem in terris organizzato dall’Accademia delle Scienze Sociali, scrive: «La preoccupazione per le implicazioni morali della guerra nucleare non deve far passare in secondo piano i problemi etici sempre più urgenti sollevati dall’uso nella guerra contemporanea delle cosiddette “armi convenzionali”, che dovrebbero essere utilizzate soltanto a scopo difensivo e non dirette ad obiettivi civili».

Spunti utili per proseguire anche la riflessione sulla guerra d’invasione russa in Ucraina, cercando di non dimenticare chi è l’invasore e chi l’invaso, e come il primo rifiuti da oltre un anno e mezzo ogni accordo che non leda ulteriormente la dignità e la libertà del secondo.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce” del 29 settembre 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Cristo condizione dell’umano: Enzo Cicero a Ferrara

24 Apr

Dal dio astratto a una nuova cristologia: l’intervento di Enzo Cicero a Ferrara. Arrivare a Cristo tramite l’analogia, suprema struttura trascendentale di tutto ciò che riguarda l’umano

È ancora possibile oggi un discorso su Cristo partendo da basi filosofiche? È possibile, dunque, una cristologia filosofica? Una grande sfida a cui cerca di dare una prima risposta Vincenzo Cicero col suo libro “Sapienza muta. Dio e l’ontologia” (Morcelliana, 2023), presentato lo scorso 21 aprile nella sede dell’ISCO di Ferrara (vicolo S. Spirito, 11). L’incontro, organizzato da Istituto Gramsci e ISCO, ha visto l’autore dialogare con Piero Stefani. 

«Io sono colui che sono!», dice Dio a Mosè (Esodo 3, 14). Da qui è partito Stefani nella sua riflessione introduttiva:«come suggerisce anche Cicero nel suo libro, si è esaurita la possibilità di fare un’ontologia filosofica che abbia come primato questa “autopresentazione” di Dio. Ma non si è esaurito, invece, il versetto di Giovanni “E il Verbo si fece carne” (Gv 1, 14), che sarebbe più corretto tradurre con “La Parola [Logos] si fece carne”. Da questo versetto di Giovanni – ha proseguito Stefani – si può fare non un discorso su Dio ma su Cristo, è cristologia, da cui può partire quindi una cristologia filosofica».

«Filosoficamente parlando – è intervenuto dunque Cicero -, è Cristo la chiave ermeneutica dell’intera Bibbia. Ad essersi esaurito – ha proseguito – non è quel passo di Esodo ma la sua traduzione filosofica: hanno fallito le interpretazioni filosofiche di Dio, tutte o troppo astratte, astruse o troppo antropomorfe. È questo dio a essere morto». Da qui il tacere, il silenzio necessario della filosofia sulla deità. Ma andando oltre l’appercezione trascendentale kantiana, e mettendo in guardia dall’interpretazione errata di Esodo 3,14 («non si può usare l’io per Dio»), Cicero ha proposto l’uso dell’es tedesco, che non è né personale né impersonale, per dire Dio. L’autore suggerisce dunque la nozione di “inquanto” inteso nella sua struttura analogica, il medio analogico trascendentale, l’analogo, l’”in quanto tale”. «Ciò che non può essere posto in relazione ad altro, l’innominabile, la condizione stessa di ogni nominazione. Condizione che, dunque, si sottrae ad ogni nominazione». Appunto, ciò che non è né personale né impersonale. L’analogo, quindi, è «la suprema struttura trascendentale, la condizione trascendentale di ogni sentire, pensare, dire e immaginare dell’umano». Insomma, di ogni relazione. «È ciò mediante cui ogni cosa può essere sentita, pensata, detta e immaginata. L’analogo richiama quindi Cristo»: «tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste» (Gv 1, 3). «Di tutto ciò, quindi, che anche può essere sentito, detto, pensato, immaginato. L’analogo è Cristo», ha concluso Cicero.

Andrea Musacci

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 aprile 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

La poesia: evocazione dell’indicibile e perenne “principiare”

8 Mar

Una riflessione di Angelo Andreotti, poeta e Dirigente Servizio Biblioteche e Archivi, in un incontro organizzato da ISCO e Istituto Gramsci

Si può parlare di un’essenza e di una specificità della poesia? Su questo lo scorso 4 marzo ha riflettuto Angelo Andreotti, dirigente del Servizio Biblioteche e Archivi del Comune di Ferrara, in un incontro trasmesso in streaming e organizzato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara all’interno del ciclo di appuntamenti “I colori della conoscenza”. L’incontro intitolato “Le parole del sentire” è stato introdotto da Daniela Cappagli.«Il libro in sé è silenzioso, solo aprendolo portiamo in vita la poesia che lo abita, facnedo rivivere ogni volta quelle lettere taciturne», è il pensiero di Andreotti. «La poesia attende nel nostro rumore». Rumore rappresentato da tutto l’insieme di «sentimenti ed emozioni» che viviamo. In un libro di poesia cos’abbiamo davanti a noi di preciso? «Con la poesia – ha proseguito – non avviene una vera e propria comunicazione, né possiamo definirla un oggetto. Si tratta, invece, di un corpo tendenzialmente “vivens”, vivente», nel senso che rappresenta «un tendere verso la vita e un farsi». E ospitandola interiormente, la poesia subisce a sua volta cambiamenti, e li subisce anche «nel corso della nostra vita, cambiando noi, cioè il soggetto: le stesse parole a distanza di tempo possono muovere emozioni diverse o possono smettere di muoverle». Perciò la poesia «è sempre un principiare», in essa «c’è sempre qualcosa di nuovo».Come disse anche il poeta Andrea Zanzotto, la poesia non è un oggetto, dunque, dove per oggetto si intende tutto ciò di diverso dal soggetto. La poesia, quindi, «non è qualcosa di diverso da me, vive anzi della mia soggettività, nella mia interiorità. Leggendo una poesia, in realtà non conosciamo la poesia stessa, ma il nostro mondo interiore, noi stessi: la nostra interiorità viene portata a galla e smossa».La poesia, di conseguenza, «ci chiede di essere vissuta, ci chiede la nostra vita. Per questo noi sentiamo la poesia, non tanto il tema specifico dei singoli versi che stiamo leggendo. «La poesia chiede partecipazione, condivisione. Il linguaggio poetico nasconde, e nascondendo rivela e chiede a noi un comprendere, un accogliere». Un nascondersi essenziale, ineliminabile che, dall’altra parte però si accompagna a una particolare forma di «esattezza, di precisione data dalle cadenze, dai ritrmi, dalle segrete corrispondenze». Caratteri, questi, essenziali per comprenderne il senso, «pur limitati, poveri, ma necessari affinché l’indicibile – ciò che la parola non può dire – possa almeno essere suggerito, evocato».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 marzo 2021

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Carlo Pagnoni, instancabile tessitore di umanità

14 Dic

Lo scorso 10 dicembre è scomparso un protagonista della vita culturale e civile ferrarese, autore di libri su Luciano Chiappini, don Alberto Dioli e i missionari ferraresi

Un instancabile uomo di dialogo e di pace: è unanime il coro di chi nelle ore immediatamente successive alla sua scomparsa ha offerto a “La Voce” un ricordo di Carlo Pagnoni, morto lo scorso 10 dicembre a 83 anni nella sua casa di via Cappuccini a Ferrara.

«Viveva nel mondo i valori del vangelo»
di don Andrea Zerbini
C’eravamo incontrati non più di un mese fa. Carlo trovava sempre parcheggio davanti a S Francesca Romana; ogni volta tornava a salire quella scala della parrocchia che frequentava negli anni ’50 quando era parroco don Carlo Borgatti. Era iscritto all’Azione cattolica e mi diceva, sorridendo, che don Carlo una volta ebbe a dirgli che egli ascoltava con attenzione quanto lui diceva, ma sempre con un atteggiamento un po’ critico. L’Azione Cattolica attraversò momenti difficili in quegli anni e nel 1954 il presidente nazionale dei giovani di Ac, Mario Rossi, amico e collaboratore di don Primo Mazzolari, rassegnò le proprie dimissioni per dissensi con i vertici della presidenza Luigi Gedda, per via dei Comitati Civici di orientamento fortemente anticomunista. Le sue dimissioni ne provocarono molte altre sia ai vertici che alla base della GIAC e anche Carlo fu tra quelli che se ne andarono. Ma egli se ne andò conservando sul piano personale i rapporti che aveva allacciato nel mondo cattolico, soprattutto con monsignor Giulio Zerbini. Tra loro discutevano dei più svariati argomenti, sempre in maniera molto distesa e serena, anche quando Carlo, nel 196, approdò nel Partito Comunista. Quelle frequentazioni anzi si intensificarono ed assunsero un carattere un po’ diverso, perché la Federazione locale del PCI ed anche la CGIL, in considerazione della sua provenienza dal mondo cattolico, in più occasioni gli chiesero di allacciare rapporti e monsignor Zerbini fu per lui sempre un interlocutore privilegiato, oltre che un amico.
Fu tessitore di umanità attraverso la cultura e l’impegno civico; promotore di incontri tra le due sponde del Volano, nell’oltre Tevere ferrarese. Mi ricordava il cardinale Agostino Casaroli, segretario di stato vaticano e la sua Ostpolitik ma al contrario, il primo come inviato della Santa Sede nei Paesi d’Oltrecortina, Carlo come inviato del partito al mondo cattolico. Egli fu un coordinatore instancabile di incontri sia nelle circoscrizioni e centri sociali sia nelle parrocchie; da sempre impegnato in problematiche culturali e cattoliche, nell’ambito dei rapporti tra chiesa e politiche di sinistra.
Frequentò l’Istituto di Scienze religiose in Montebello e la sua tesi divenne un libro: «Vangelo tra la gente. Missionari ferraresi nel mondo». Per l’editore Corbo pubblicò due libri, su don Alberto Dioli e su Luciano Chiappini. Ricordo che nel 2013 mi invitò con il sindaco Tiziano Tagliani alla scuola di politica del PD per un incontro su: “Il significato del Concilio Vaticano II per la Chiesa cattolica”, presso il Centro Sociale “Acquedotto” di Corso Isonzo.
Non fu quella volta come gli incontri a Brescello, tra Peppone e don Camillo, anche perché il sindaco aveva la tessera dell’Azione cattolica. Sempre documentatissimo, una pregevole biblioteca con testi non solo della storia del Concilio, ma riguardante le più svariate questioni, dall’ecumenismo alla liturgia, dai temi della pace al dialogo interreligioso ed era sempre presente ai convegni di “Teologia della pace” a S. Francesca. Nell’ultimo incontro parlammo delle chiese e comunità ortodosse a Ferrara; mi portò anche uno scatolone di libri sul Concilio. Il suo interessarsi ed aggiornarsi sulla chiesa nel mondo ma anche sulle vicende tristi e liete della nostra chiesa locale non nascevano da una curiosità frivola e superficiale. Era invece desiderio di accrescere il proprio sapere per meglio prendersi cura dell’altro; curiosità che rivelava una disponibilità a mettersi in cuore le ragioni anche differenti degli altri. L’etimologia di “curiosità” deriva da cura, quella ospitale che si apre alla possibilità del confronto e del dialogo. Uno stile quello di Carlo del vivere nel mondo i valori del vangelo e dell’uomo tra la gente. Dietro ogni cura del bene comune sta infatti un progetto di amicizia per provare a costruire la comunità e la solidarietà umana nella città. Così mi piace dedicargli un testo del card. Agostino Casaroli su papa Giovanni che lo ricordano molto: «In Giovanni XXIII la novità non riguardava la dottrina, ma piuttosto il modo di esporla e forse, talvolta, d’interpretarla, senza tradirla o modificarla mai. E di applicarla alle situazioni concrete. Riguardava poi, per così dire, lo stile, nel parlare e nell’agire, sia all’interno sia all’esterno della Chiesa: una maggiore prontezza alla comprensione dell’“altro”; una carica di “simpatia” nello sforzarsi di valutare la mentalità o gli atteggiamenti anche dei più lontani; una capacità di rendersi conto delle loro difficoltà obiettive e l’arte di saper creare un clima di fiducia, nonostante la distanza, o addirittura l’opposizione frontale delle posizioni reciproche; la cura di non offendere le persone pur dicendo la verità». Grazie Carlo.


«Ha tradotto il cattolicesimo sociale nell’impegno politico»
A “La Voce” affida un pensiero anche Alessandra Chiappini, ex Assessora del Comune di Ferrara ed ex Direttrice della Biblioteca Ariostea: «è stato una sorta di “pontefice”, nel senso letterario del termine, creava ponti fra il mondo cattolico e quello della sinistra politica. Lo ricordo come assiduo frequentatore del Centro Studi “Charles de Foucauld”», che aveva sede a casa Chiappini in via Madama, Centro che era «una fucina di elaborazione di senso critico cattolico. Un luogo di confronti a cui Carlo diede un contributo importante, continuo e coerente». Pagnoni, dunque, «ha tradotto tutta la vocazione sociale del cattolicesimo in un impegno politico concreto», del quale si ricorda anche quella di scrittore: oltre al sopracitato “Il Vangelo tra la gente. Missionari ferraresi nel mondo”, Pagnoni curò anche il libro “Don Alberto Dioli da Ferrara a Kamituga” (G. Corbo ed., Ferrara., 1998) e il volume di scritti del padre di Alessandra, Luciano, pubblicati su “la Voce” tra il 1982 e il 2002, “Una voce fedele e libera. Il Taccuino di Luciano Chiappini” (G. Corbo ed., Ferrara, 2000).
Infine, alla figura di Pagnoni, Chiappini associa quella di Aldo Ferraro, morto nel 2015 a 79 anni, impegnato tra l’altro negli anni ’90 nel movimento dei “Cristiano sociali”, poi confluito nei DS.

«Coltivava amicizie e relazioni al di là dei tradizionali steccati ideologici e religiosi»
«Una persona capace di tessere relazioni con tanti mondi politici e culturali. Nella nostra città tutti conoscono la sua raffinata cultura, la passione civile, la conoscenza e appartenenza al mondo cattolico progressista, l’appassionata militanza nella Cgil e nella sinistra politica», è il pensiero di Fiorenzo Baratelli a nome dell’Istituto Gramsci di Ferrara di cui è presidente. «Ricordiamo la sua capacità di organizzatore culturale (pensiamo al circolo culturale di via Bologna di cui fu anima e animatore per molti anni), la sua dote di scrittura, la sua innata empatia e curiosità che gli consentivano di coltivare amicizie e relazioni al di là dei tradizionali steccati ideologici e religiosi. Carlo, in tempi di risse e troppi accesi scontri, si è sempre distinto come costruttore di ponti tra le persone e tra mondi culturali e politici diversi. Tutto ciò ha fatto di Carlo Pagnoni uno tra i maggiori protagonisti della vita culturale della nostra comunità. Ci mancherà, ma chi lo ha conosciuto non dimenticherà mai la sua mite e generosa persona. È stato uno dei migliori figli della nostra città. Troveremo i modi e creeremo le occasioni per ricordarlo come merita».
Sempre dall’Istituto Gramsci, Roberto Cassoli ci confida: «ho saputo della sua morte da un amico comune, Domenico Malagrinò. Ricordo la sua capacità di relazionarsi con le persone, e il fare cultura sempre pensando agli altri, per creare occasioni di incontro e riflessione in ogni ambito. Il suo desiderio era sempre quello di organizzare iniziative per coinvolgere gli altri, per momenti di confronto pubblici. Ho sempre trovato magnifico questo suo grande obiettivo che aveva. Un obiettivo che ha perseguito fin quando ha avuto le forze. Lo vedevo spesso – prosegue Cassoli – seduto su una panchina dal Montagnone a leggere un libro». Rimasto vedovo, gli ultimi anni di vita della moglie aveva abbandonato le sue attività per accudirla.
«Un caro, caro amico, colto e aperto», è invece il ricordo che l’ex Sindaco Tiziano Tagliani affida al proprio profilo Facebook. «Non un intellettuale spocchioso ma una persona attenta alle realtà anche più umili, infaticabile nel ricucire sempre, avaro nel giudicare gli altri e generoso nella disponibilità quando gli si chiedeva una mano. L’ho sentito vicino anche se era da tanto che non lo vedevo».
Infine, è Anna Quarzi, Presidente dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara, a offrirci un ricordo: «eravamo rimasti in contatto. Ricordo le tante iniziative organizzate nel Centro culturale “Mario Roffi” di via Bologna, tra cui il ciclo di incontri “Addio al ‘900” con ospiti di livello nazionale. E poi era un grande lettore: aveva comprato un piccolo appartamento solo per conservarvi i suoi libri, da tanti che ne aveva…».

(a cura di Andrea Musacci)

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 dicembre 2020

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La paura va “governata”: ma in che modo? Salvatore Natoli a Ferrara

3 Feb

Il 31 gennaio all’Ariostea di Ferrara la lectio magistralis del filosofo Salvatore Natoli. Una riflessione a margine dell’incontro: se la paura nasce dalla fragilità umana, allora rispondiamo con “passioni” positive: prossimità, mediazione e mitezza

OLYMPUS DIGITAL CAMERAE’ normale avere paura della paura? Su un tema spesso banalizzato mediaticamente ma che richiama l’essenza dell’essere umano, ha riflettuto a Ferrara il filosofo Salvatore Natoli. Lo scorso 31 gennaio nella Biblioteca Ariostea di Ferrara è stato invitato dall’Istituto Gramsci e dall’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara per aprire il ciclo di undici incontri sul tema “Sfidare le paure”. Il prossimo appuntamento è in programma alle ore 17 del 28 febbraio con Marco Bertozzi che relazionerà sul tema del ciclo, analizzando diversi pensatori, da Hobbes a Canetti. La lectio magistralis di Natoli è stata preceduta dal saluto dell’Assessore Alessandro Balboni (al posto del Sindaco Fabbri, invitato ma non presente), dall’introduzione di Anna Quarzi, alla guida dell’Istituto di Storia Contemporanea cittadino, che ha moderato l’incontro, e dal breve intervento di Fiorenzo Baratelli, Direttore dell’Istituto Gramsci di Ferrara: “la paura non va intesa solo in senso negativo – ha spiegato quest’ultimo -, ma come parte sostanziale della condizione umana, di per sé precaria: non bisogna, quindi, vergognarsi di aver paura, anche perché può essere stimolo per l’azione e per la creatività”. E’ vero, però, che la paura può anche rendere passivi, “può paralizzare”. Di sicuro – ha proseguito -, le paure peggiori sono quelle vissute nella solitudine”. La soluzione ad esse, citando anche Spinoza, può risiedere nel cercare il più possibile di usare la ragione “per comprenderne le cause, affrontandola razionalmente” e in maniera consapevole. “E’ vero – ha esordito Salvatore Natoli -, la paura è qualcosa che la natura ha predisposto per l’autoconservazione, ed è quindi un dispositivo in sé positivo”. Dopo aver brevemente riflettuto su alcune delle forme della paura – il timore, l’ansia -, Natoli si è soffermato sull’angoscia, “causata dal sentimento della nostra precarietà esistenziale, dal fatto che siamo esseri mortali, per natura esposti al nulla”. Per questo la paura “non va sottovalutata” e nemmeno, dall’altra parte, “strumentalizzata” per fini di soggezione. Riguardo a quest’ultimo aspetto, il relatore ha analizzato come il potere, nei secoli, si sia sempre servito della paura per asservire i propri sudditi: il modello hobbesiano, in particolare, è fondato sullo scambio fra la protezione che il potere sovrano concedeva ai propri cittadini (per la propria sicurezza, per la propria sopravvivenza), e l’obbedienza che questi li dovevano. Analizzando il controllo del consenso, anche in epoche più recenti, Natoli ha riflettuto su come il potere “non possa agire solo sulla paura, ma anche sulla speranza, facendo promesse: una volta, però, che le promesse si rivelano illusioni, allora il potere si autogiustifica e parallelamente ritorna a far leva sui timori delle masse”. Questo è “facilitato” anche dal fatto che i governati, vivendo lo spaesamento – non sapendo, cioè, a un certo punto chi “incolpare” delle mancate promesse non realizzate -, tendono sempre ad affidarsi all’“uomo forte”. Analizzando, poi, più nello specifico, la società contemporanea, Natoli ha accennato ai lati positivi della globalizzazione, ad esempio nel progressivo superamento delle differenze tra centro e periferie. Affrontando quindi il delicato tema delle migrazioni (e delle mistificazioni propagandistiche ad esso legate), le paure – più o meno indotte – nate in conseguenza di questa ridefinizione centro-periferia, “vanno affrontate non creando ghetti, ma attraverso l’accostamento e l’ascolto dello straniero”: la conoscenza dell’altro unita alla presenza viva e attiva degli abitanti negli spazi pubblici, con anche la trasformazione delle città sempre più in senso policentrico e a politiche neo-welfariste, sono tutti fattori che, secondo Natoli, aiutano a prevenire o comunque ad affrontare le paure legate alla convivenza col “diverso”: il concetto paradigmatico delle società del futuro, infatti, secondo il filosofo, sarà quello di “ibrido”. In conclusione, dunque, “solo un approccio razionale, scientifico collettivo” può presentarsi come l’antidoto migliore alle paure, e dar vita, unito a una “generosità” sempre più rara, a una politica che torni a essere degna di questo nome.

(Ri)scoprire in politica un’idea diversa di comunità

rete2Gli spostamenti consistenti, improvvisi e sempre più frequenti di consensi elettorali da uno schieramento all’altro, ai quali ormai da diversi anni siamo abituati (anche nelle ultime Regionali), dovrebbero farci essere più cauti nel gioirne o rammaricarcene (a seconda della propria appartenenza politica). Il discorso, infatti, è serio (con tratti di gravità) e chiama in causa le forme e le modalità stesse della creazione di comunità politiche (in senso largo) sempre meno stabili. L’aleatorietà del consenso ricorda l’immagine evangelica della casa costruita “sulla sabbia”. Interrogarsi, quindi, sul cosa possa significare oggi – in una società “liquida”, se non “gassosa” come la nostra – costruire “sulla roccia”, è più che mai necessario. Innanzitutto – senza nessuna nostalgia per organizzazioni partitiche spesso ultraverticistiche e rigide (anche se non sono state solamente questo) – si potrebbe ragionare su quali possano essere nuove forme organizzative non fondate sull’inconsistenza del volto del proprio leader (o presunto tale): volto, nella sua specificità politica, il più delle volte più virtuale che reale.

Dal volto alla “rete di reti” (passando per l’alveare)

Un rinnovato senso della politica non può, dunque, che ripartire da una concezione autentica del volto: un volto di cui fidarsi (quello del “rappresentante politico”, non dell’“uomo forte” come ha spiegato Natoli nel suo intervento a Ferrara, v. articolo sopra); e il volto da ascoltare e da incontrare (quello del “rappresentato”). Il contrario di ciò è l’abbandono fideistico – e, al fondo, “disperato” – al capo, ai suoi umori e ai suoi capricci, al volto di colui che decide, per tacito “assenso”, dell’inizio e della fine di un movimento politico. Un abbandono pericoloso, una deresponsabilizzazione che molto facilemente si tramuta, nelle folle, in rancore generalizzato. Un culto “paganeggiante” del capo che, inoltre, contraddice ogni sana concezione della laicità della politica intesa come riconoscimento dell’altro nella sua differenza e come azione umana, terrena, quindi di per sé non assolutizzabile, se non con il rischio di rivivere tragedie purtroppo note. Le folle sono per loro natura anonime e il loro stare insieme non è mai permanente ma sempre occasionale: sono il contrario, dunque, della prossimità e della continuità come condizioni basilari per un’azione sinodale (un noi che non soffochi il rapporto io-tu) in una società complessa e sradicata com’è l’attuale. Una corretta elaborazione collettiva del pensiero – che non elimini le sfumature, ma le mantenga come possibilità aperte, seppur momentaneamente minoritarie – è la migliore risposta a questa “alleanza” tra il capo e le folle. E’ la riscoperta del discernimento collettivo e del valore della mediazione. In “Lumen Fidei” Papa Francesco, parlando del popolo d’Israele e della Chiesa, fa un ragionamento interessante: “la mediazione – scrive – non [è] un ostacolo, ma un’apertura: nell’incontro con gli altri lo sguardo si apre verso una verità più grande di noi stessi”. Bisognerebbe, dunque, ricostruire “case”, luoghi, anche e soprattutto fisici, accoglienti, d’incontro, di dialogo, di discussione e dunque di proposta, tra simili, come alveari, come reti, più orizzontali che verticali nella loro gestione. L’essere simili è, infatti, un concetto da riscoprire, un giusto equilibrio tra l’unità e la diversità, in quanto al tempo stesso vive della tensione tra il riconoscimento di ciò che è uguale (e che quindi accomuna, rende affini) e ciò che è differente. A un livello superiore, la naturale conseguenza dovrebbe essere l’unione tra loro di queste “case”, dando così vita a una “rete di reti”: una forma federativa, pluralista e dinamica, che eviti tanto il settarismo quanto l’inconsistenza identitaria. “Il modello non è la sfera – scrive il Papa in “Evangelii Gaudium” 236 -, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità”.

Una passione mite e prudente

Naturalmente, un ragionamento di questo tipo è impensabile senza una trasformazione profonda delle relazioni interpersonali. A tal proposito, si potrebbe ripartire dalla riscoperta della prudenza (sorella della necessaria lentezza, com’era nel lentius, profundius, dulcius di Alexander Langer) – intesa come capacità di ascolto e di decantazione dei conflitti tra appartenenti la stessa “casa” o la stessa rete – e dalla mitezza, essenziale per saper mediare senza svilire nessuno dei soggetti interessati e nessun principio basilare. Come scrive Bobbio, “il mite è l’uomo di cui l’altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé”. Prudenza e mitezza non sono per nulla sinonimi di tiepidezza, dunque non sono alternative a una rinnovata passione civica, per la vita delle persone e per il futuro delle comunità alle quali ci si dedica; uno slancio, non solo emotivo, ma che tenti il più possibile di toccare la carne degli altri, i loro sentimenti, le domande sui destini personali e collettivi. Una passione mite e prudente, dunque: possibile, anzi necessaria, e già presente. Ma quando c’è, che non va né sbandierata né svilita ma semplicemente lasciata essere e fatta fruttare.

Andrea Musacci

Pubblicati su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 7 febbraio 2020

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La Voce di Ferrara-Comacchio

Responsabilità e volto dell’altro: il pensiero di Emmanuel Levinas

11 Nov

L’8 novembre l’intervento di Giuliano Sansonetti dedicato al filosofo lituano-francese, a cavallo fra profezia ebraica e filosofia greca, fra infinito e totalità

levinasTotalità o infinito? Uno spazio chiuso, (pre) definito dell’essere o un’apertura sempre possibile tra volti, nella loro irriducibile differenza? L’ambivalenza su cui da sempre si fonda il pensiero occidentale è stata centrale nella ricerca di Emmanuel Levinas (Kaunas, Lituania 12 gennaio 1905 – Parigi, 25 dicembre 1995) (foto al centro), filosofo ebreo su cui l’8 novembre ha relazionato Giuliano Sansonetti. L’occasione era, nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara, l’ultimo appuntamento del ciclo di incontri dedicato ai “Maestri”, a cura dell’Istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea (ISCO). Sansonetti ha dedicato la prima parte del proprio intervento a Remo Bodei, scomparso il giorno prima, che a Ferrara era intervenuto nel gennaio 2016 invitato proprio dal Gramsci e dall’ISCO, nello stesso luogo, sul tema della democrazia, introdotto, come in questo caso, da Piero Stefani. Tornando a Levinas, Sansonetti ha spiegato come egli ritenesse fondamentale “trovare un punto di incontro tra l’eredità ebraica e il pensiero greco, le due tradizioni fondamentali dell’Occidente, quindi in un certo senso tra profezia e filosofia”. A tal proposito, riferendosi a Monsieur Chouchani (foto in alto a dx), ricordò come egli rese impossibile, per sempre, “un approccio dogmatico e fideistico al Talmud”, convincendosi dunque che “non esisteva uno spartiacque tra pensiero teologico e filosofico”. Ma le basi – o parte di esse – del pensiero occidentale, sono, per Levinas, la causa profonda di una concezione filosofica, quindi anche politica, dogmatica e illiberale: “Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo” è il titolo di un suo saggio uscito nel 1934 sulla rivista “Esprit”, edito e tradotto in Italia grazie a Giorgio Agamben. Qui Levinas analizza il pensiero filosofico classico occidentale: il nazismo, secondo il filosofo, “non è qualcosa di accidentale nella storia e nella cultura tedesca, ma le sue radici sono interne alla storia dell’Occidente”. Sua caratteristica precipua è “l’incatenamento dello spirito al corpo”, all’elemento meramente biologico, un “risveglio di sentimenti elementari”, viscerali, violenti. La causa profonda di ciò, ha proseguito Sansonetti, risiede nel fatto che per Levinas “la filosofia occidentale sia una filosofia del neutro, dell’essere, quindi di una dimensione spersonalizzante, in cui ciò che ha valore è appunto l’essere indistinto e non l’ente”, il singolo, la persona con la sua individualità. Secondo Levinas questo porta a una deresponsabilizzazione del soggetto, mentre “ognuno di noi può essere responsabile solo nei confronti dell’altro”, rappresentato simbolicamente dal “volto”. “L’etica, quindi, e non la metafisica, dev’essere considerata la filosofia prima”: la seconda, infatti, nella tradizione greca, è intesa come “pensiero della totalità, del perfettamente definibile”, a cui Levinas contrappone “l’infinito, dato appunto dal volto, concetto assente nel pensiero greco” (“Totalità e infinito” è il titolo della sua opera più celebre, edita nel 1961). “Dal concetto di totalità – sono ancora parole di Sansonetti -, nascono quindi i totalitarismi, vale a dire società organiche dove tutto è definibile, ordinabile e controllabile, società chiuse”. Il rapporto etico autentico, al contrario, in Levinas, “è il rapporto faccia a faccia”, un rapporto tra volti: “prima ancora della conoscenza dell’altro, è necessario un rapporto con lo stesso, col suo volto, per evitare che l’altro diventi una proiezione di noi stessi”, e non, come invece è, una diversità irriducibile, verso la quale è necessario innanzitutto e soprattutto “l’ascolto (l’ebraismo, non a caso, si fonda sull’ascolto della Parola di Dio), e quindi il rispondere”. Infine, il volto, per Levinas, è nella sua essenza, “sguardo”: solo dallo sguardo, che identifica ogni volto, ogni persona, “può nascere il linguaggio, quindi il discorso e la responsabilità”, che, appunto, è sempre nei confronti di un altro.

Il Rav Chouchani: chi era costui?

Nell’incontro dell’8 novembre in Biblioteca Ariostea, Piero Stefani ha brevemente relazionato su uno dei maestri di Levinas, il rabbino e filosofo Monsieur Chouchani, o Shushani (9 gennaio 1895 – Montevideo, 26 gennaio 1968), personaggio la cui vita è in buona parte avvolta in aura di leggenda, a partire dal nome, forse di fantasia. Non avendo nemmeno mai pubblicato, le scarse notizie su di lui si hanno grazie ai suoi allievi, i più importanti dei quali sono lo stesso Levinas ed Elie Wiesel: fatto, questo, che nella storia ha dei precedenti alquanto celebri – Gesù di Nazareth e Socrate su tutti -, ma che è alquanto inusuale nell’Occidente del Novecento. Una leggenda, la sua, probabilmente mischiata a elementi di realtà, e nella quale rientra anche il fatto che avesse una memoria assolutamente straordinaria, tanto da permettergli di imparare l’intero Talmud. “La possibilità di conservare e tramandare la tradizione ebraica dopo la Shoah – secondo Stefani -, il riuscire a far parlare questo patrimonio antico nella modernità, ha sicuramente aiutato il nascere della leggenda” intorno alla sua persona.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 15 novembre 2019

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La Voce di Ferrara-Comacchio

Perché si parla poco di Maddalena e delle altre discepole di Gesù?

18 Mar

Una lettura di genere su chi seguiva il “Maestro” Gesù: Piero Stefani e Silvia Zanconato ne hanno discusso in Biblioteca Ariostea

donne vangeloSeguire e servire, ma anche saper ascoltare e soprattutto comprendere a pieno la parola del Cristo. In questi atti fondamentali, forse, le donne erano maggiormente capaci rispetto ai maschi. Sì, perché alla Sua sequela non vi erano solo uomini. E’ questa la provocazione centrale dell’incontro dal titolo “I discepoli e le discepole di Gesù”, che ha visto Piero Stefani e Silvia Zanconato confrontarsi tra loro venerdì 15 marzo nella Sala Agnelli della Biblioteca comunale Ariostea di Ferrara. L’appuntamento, moderato da Francesco Lavezzi, rientra nel ciclo di incontri dal titolo “Maestri” a cura dell’istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara.

La chiamata

“Due, innanzitutto – ha esordito Stefani – sono i tipi di chiamata di Gesù: la prima, nel Vangelo di Marco, rivolta ai primi quattro discepoli (due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni), avviene all’inizio, nel primo capitolo (Mc 1, 14-20: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”), e i chiamati “lo seguono solamente, senza rispondergli a parole, anche se Lui li invita a seguirlo pur non avendo alcuna autorità dimostrata”. I quattro, quindi, “escono dalla propria condizione lavorativa, di pescatori, dalle proprie ‘strutture etiche’” (lavoro e famiglia). Nel Vangelo di Luca, invece, successivo come elaborazione a quello di Marco, “è come se chi scrive sentisse maggiormente la necessità di accreditare Gesù come autorità. Per questo, la chiamata dei quattro avviene dopo la cosiddetta ‘pesca miracolosa’”(Lc 5, 1-11). In entrambi i casi, comunque, “il luogo della predicazione è aperto, pubblico e non sacrale”. Riguardo alle discepole, invece, ha spiegato la Zanconato, i loro nomi, al contrario dei maschi, “non sono ben attestati, ma oggi si può dire con sicurezza che vi erano anche donne alla sequela di Cristo, anche se i Vangeli non riportano la loro chiamata in modo esplicito”. Oltre che in Luca (Lc 8, 1-3), è soprattutto nel capitolo 15 del Vangelo di Marco che si parla di donne che “facevano parte a pieno titolo della cerchia di Gesù”: “C’erano anche alcune donne, che stavano ad osservare da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, che lo seguivano e servivano quando era ancora in Galilea, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme” (Mc 15, 40-41). “Si può dire che fossero discepole – ha spiegato la Zanconato – perché si usano i termini tipici del discepolato ebraico, ‘seguire’ e ‘servire’. Inoltre, è scritto che sono con Lui fin dalla Galilea, “quindi dall’inizio della sua predicazione”, e fino a Gerusalemme: “è Gesù stesso a chiedere ai discepoli, e solo a loro, di seguirlo fino a lì”.

La non-comprensione

Ma il seguirlo fisicamente non è sempre accompagnato a una piena comprensione. “Una non-comprensione, quella delle parole di Gesù – ha spiegato Stefani – da parte dei discepoli, che si accentua soprattutto col preannuncio della passione, morte e Resurrezione. Il loro è quindi un non-comprendere innanzitutto chi è davvero Gesù”. Quest’ultimo, comunque, a parziale “discolpa” dei discepoli “era anti-dogmatico, itinerante, a volte dava interpretazioni spiazzanti della Legge”, ha invece commentato la Zanconato: insomma, “non era semplice essere suoi discepoli, starci dietro implicava un allenamento esistenziale non irrilevante”. Inoltre, Gesù usa spesso le parabole, “forme comunicative non sempre così chiare nel loro significato”, ma utili per “‘costringere’ chi lo ascolta a sperimentare nuovi metodi di ragionamento, di comprensione del reale non scontati. Il discepolo/la discepola deve quindi allenarsi a osservare la realtà da più punti di vista, a porsi domande, a farsi sollecitare dagli interrogativi di Gesù”. Una sola volta, però, nei Vangeli, non è Lui a insegnare o a porre domande, ma un’altra persona, donna e pagana, che gli chiede di guarire la figli indemoniata: “Egli rispose: ‘Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini. ‘È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni’” (Mt 15,21-28). Insomma, la donna, perlopiù ‘pagana’, risponde a tono a Gesù “perché comprende il significato profondo delle sue parole – ha proseguito la relatrice -, e in un certo senso gli fa cambiare idea, facendo emergere la Sua Misericordia. Gesù è quindi capace di flessibilità mentale, dimostando davvero di credere in ciò che insegna”. “La sua itineranza, inoltre – ha aggiunto Stefani -, implica insufficienza, sentirsi bisognosi dell’aiuto degli altri, perlopiù delle donne”.

Fra Pietro e Maria Maddalena

Su queste due figure in particolare si sono concentrati i due relatori nella parte finale dell’incontro. “Pietro è sicuramente presentato, fra i dodici, come il primo – sono parole di Stefani -, ma non è indicato in modo chiaro come successore. Inoltre, è colui che maggiormente non-comprende le parole di Gesù, il quale lo chiama addirittura ‘Satana’ (‘tentatore’)”. “Interessante sarebbe riflettere meglio sul primato – quasi mai riconosciuto – di Maria Maddalena”, ha proseguito invece la Zanconato. Questa donna era insieme a Maria e a san Giovanni sotto la Croce (Gv 19,25-27), ed è la prima a vederlo risorto (Gv 20,11-18). “Nella storia però si è tentato purtroppo di etichettarla come prostituta, come peccatrice, rimuovendone volontariamente il primato”. Recentemente è stato il Santo Padre a riconoscere, anche se in parte, il suo ruolo fondamentale: il 3 giugno 2016 la Congregazione per il Culto Divino ha infatti pubblicato un decreto con il quale, “per espresso desiderio di papa Francesco”, la celebrazione di santa Maria Maddalena (che ricorre il 22 luglio), memoria obbligatoria, è stata elevata al grado di festa liturgica. Un passo decisivo, anche se di strada ce n’è ancora tanta da fare.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 22 marzo 2019

La Voce di Ferrara-Comacchio

“Soltanto l’amore può credere”

25 Feb

“E’ come se io potessi trovare consolazione soltanto nel riconoscimento della mia miseria”, scriveva Ludwig Wittgenstein, genio nato a Vienna 130 anni fa. Logico, matematico e ingegnere con l’ossessione per l’Assoluto

wittgensteinIl diario di una sofferenza, potremmo definirlo, di un’anima misticamente irrequieta, ben lontana dall’immagine costruitagli addosso nei decenni. Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 – Cambridge 1951), logico e filosofo del linguaggio (oltre che ingegnere), considerato fra i geni del Novecento (e forse non solo) ha subito, e forse subisce in parte ancora, le conseguenze dell’enorme fraintendimento riguardante soprattutto il celebre aforisma “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”. Uno dei suoi grandi meriti, infatti, è stato il tentativo di non ridurre l’etica, il discorso sul senso dell’esistenza e la fede a mere dispute teologiche, a svilenti scontri fra asserzioni, se non addirittura a semplici analisi scientifiche. Un approccio radicalmente antipositivistico, con forti echi kierkegaardiani, il suo, che emerge in particolare nei suoi diari degli anni ’30, in Italia raccolti in “Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937” (Edizioni Quodlibet).

“Un granello d’oro puro in mezzo al sudicio”

La riflessione religiosa del filosofo austriaco (i cui nonni erano ebrei convertiti al protestantesimo, mentre i suoi genitori impartirono a lui e ai suoi fratelli e sorelle un’educazione cattolica)è sempre, e innanzitutto, riflessione su di sè. Come vedremo, il bisogno profondo di un senso trascendente parte sempre dalla condizione umana, precaria ma santa: “Conosco ogni possibile miseria – scrive -, la più piccola come la più grande, perché io stesso l’ho incontrata”. Nonostante la riservatezza del testo, la sua ben nota schiettezza non manca mai: “Conosci te stesso, e vedrai che tu sei comunque e sempre un povero peccatore. Ma io non voglio essere un povero peccatore e cerco in ogni modo di scappare (mi valgo di tutto come di una porta per sfuggire a questo giudizio)”. Così la scelta è sofferta ma decisa, e diventerà sempre più forte col passare degli anni: nel “piano religioso [..] mi rifugio dalle sporche bassezze del mio piacere e del mio dispiacere”. “A volte mi immagino gli uomini come biglie – scrive ancora -: una tutta d’oro puro; l’altra, uno strato di materiale senza valore, e sotto oro; la terza una doratura ingannevole ma falsa, sotto: oro. Un’altra ancora dove sotto la doratura c’è sudicio, e un’altra dove in mezzo a questo sporco c’è di nuovo un granello d’oro puro. Eccc., ecc. Io credo che l’ultima biglia forse sono io”.

“Stanno solo su un altro versante”

Al tempo stesso, nei suoi tormentati e divini ragionamenti – nella pur, umana, crudezza – vi è sempre l’attenzione nei confronti dell’altro – “sono triste al pensiero di non poter aiutare M. Sono molto debole e lunatico”- ma sempre accompagnato dalla richiesta di un soccorso non umano: “se, con l’aiuto di Dio, resto forte, forse così potrò darle una mano. […] Possa Dio darmi ciò che mi occorre”, o “…alla fine ci si deve affidare a Dio”. Un uomo spavaldo è stato sempre descritto Wittgenstein dai suoi biografi. Ma di sicuro non un uomo insensibile alla durezza del reale che tutti accomuna: “una coscienza gravata di colpa potrebbe facilmente confessarsi; l’uomo fatuo non si può confessare”, scrive, richiamando, ad esempio, Peguy quando scrive: “ciò che si definisce morale è uno strato che rende l’uomo impermeabile alla grazia”. “Ho visto – scrive ancora nei suoi diari Wittgenstein – le foto con facce di briganti corsi e ho pensato: queste facce sono troppo dure, e la mia troppo morbida perché il cristianesimo vi possa incidere. Le facce di questi briganti sono terribili da vedere, senza cuore, in un certo senso fredde e indurite; eppure non per questo sono più lontane di me dalla vita giusta, stanno solo su un altro versante, distanti dal giusto”.

“Non è per nulla comprensibile, è solo non incomprensibile”

Il linguaggio e il suo rapporto col mondo è sempre stato il cruccio del pensatore viennese. Riflessione che ha cercato di scandagliare in ogni direzione, anche in rapporto alla fede. “Una proposizione può apparire assurda – scrive – e l’assurdità della sua superficie può venire inghiottita dalla profondità che si trova per così dire dietro di essa. Ciò può essere applicato all’idea della resurrezione dei morti e ad altre a essa strettamente legate. Ciò che però la rende profonda è l’applicazione: la vita che conduce colui che vi crede. Perché questa proposizione può essere per esempio l’espressione della più grande responsabilità”. Si nota, così, in maniera forte, l’impossibilità, per Wittgenstein, di scindere fede e vita, pensiero e carne, coerente con la sua visione del mondo, a suo dire composto di fatti, di eventi, non di cose. La verità, dunque, non può non rivelarsi nella carne, nell’esserci, e non negli inganni e nelle confusioni del linguaggio, nei labirinti delle teorie (che nient’altro sono se non cose “oggettivate”). “La Bibbia non è nient’altro che un libro davanti a me. Ma perché dico ‘nient’altro che un libro’? ho davanti a me un libro, un documento che, se resta isolato, non può aver più valore di qualsiasi altro documento. (…) Questo documento non può, in sé, ‘legarmi’ a nessuna fede nelle dottrine che esso contiene, – tanto poco quanto un qualsiasi altro documento che mi fosse capitato fra le mani […]. La predica può essere la condizione preliminare della fede, ma tramite ciò che in essa avviene, non può voler mettere in moto la fede […]. La fede comincia con la fede. Si deve cominciare con la fede; da parole non segue nessuna fede”. Uno dei pensatori che ha speso buona parte della propria esistenza a tentare di scovare i fondamenti della logica e della matematica, in realtà, è chiaro, cercava i fondamenti del reale stesso, l’Essere. E in questa ricerca si immergeva nell’esistenza: “se una beatitudine eterna non significa qualche cosa per la mia vita, il mio modo di vivere, allora non mi ci devo rompere la testa; se posso a buon diritto rifletterci, ciò che penso deve allora avere un rapporto preciso con la mia vita, altrimenti, ciò che penso è una scemenza”. Nello specifico del cristianesimo, il fatto che Dio esiste e ha scelto di incarnarsi in un uomo – (si) domanda – “non deve quindi avere per te un ‘significato decisivo’? Intendo: questo non deve avere conseguenze per la tua vita, obbligarti a qualche cosa? Voglio dire: non devi entrare con lui in un rapporto etico?’”. Però, prosegue poi, “la mia fede è troppo debole. Voglio dire la mia fede nella provvidenza, il mio sentire: ‘accade tutto per volontà di Dio’. E questa non è un’opinione – neppure una convinzione, ma un atteggiamento di fronte alle cose e a ciò che accade. Possa io non diventare frivolo!”.

“E questa è la fede”

Col tempo, nelle pagine del diario fortunatamente pervenuteci, sembra farsi sempre più pressante la meditazione sul senso della vita e del credere. “Io posso ben rifiutare – sono ancora sue parole – la soluzione cristiana del problema della vita (redenzione, risurrezione, giudizio, cielo, inferno), ma con ciò certo il problema della mia vita non è risolto, poiché io non sono né buono né felice. Io non sono redento”. Si dipana così una continua – seppur frastagliata, spesso incerta – preghiera, nel tentativo, coscientemente assurdo, di dire l’indicibile: “questo tendere all’assoluto, che fa apparire troppo gretta ogni felicità terrena, volge lo sguardo in alto e non guarda orizzontalmente, alle cose, mi appare come qualcosa di splendido, di sublime, ma io stesso punto il mio sguardo alle cose terrene; a meno che ‘Dio’ mi ‘visiti’ e mi sopravvenga quello stato in cui ciò non è possibile. Io credo […] e ciò posso farlo in quella fioca illuminazione dall’alto”. “Questa vita [nella fede] deve, per così dire, tenerti sospeso su questa terra”, scriverà ancora con parole sublimi. “Cioè quando vai sulla terra non poggi più sulla terra, ma sei sospeso in cielo; sei tenuto su dall’alto, non sorretto dal basso. Questa vita però è l’amore, l’amore umano per colui che è perfetto. E questa è la fede”.


Vivere nel bene e nella bellezza

Il 21 febbraio si è tenuto un incontro in Biblioteca Ariostea: il “Tractatus”, l’amicizia con Russell, l’importanza dell’etica e della religione

“Era forse l’ esempio più perfetto del genio così come lo si immagina”, scrisse di lui l’amico e collega Bertrand Russell, definendolo “appassionato e profondo, intenso e dispotico”. Un legame, quello di Wittgenstein col filosofo inglese (foto a destra), che sarà fondamentale per l’evoluzione del suo pensiero e per il fatto che sarà proprio Russell a convincerlo a dare alle stampe quella che sarà l’unica sua opera edita, il “Tractatus Logico-Philosophicus”. Di questo e non solo, lo scorso 21 febbraio nella Biblioteca Ariostea di Ferrara ha parlato Nicola Alessandrini. L’incontro, introdotto da Sandra Carli Ballola, fa parte del ciclo dal titolo “I colori della conoscenza – La lingua e i linguaggi” a cura dell’Istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea. Il pensiero che nasce dalla vita, si diceva. E a tal proposito, il relatore ha subito citato le parole che Wittgenstein scrisse dal fronte il 7 ottobre 1914: “potrei morire fra un’ora, potrei morire fra due ore, fra un mese oppure fra un paio d’anni; non posso saperlo e non posso farci nulla, pro o contro: così è la vita. Ma allora come devo vivere per sopravvivere in ognuno di questi momenti? Vivere nel bene e nella bellezza fino a quando la vita non giunga da sé al termine”. “Proprio mentre vive uno dei momenti più bui della propria vita e più nichilisti del mondo – ha spiegato Alessandrini -, scrive il libro che cambierà, forse per sempre, il pensiero logico e filosofico”, il “Tractatus”, appunto, “tentando così in un certo senso di riordinare il mondo”. Il mondo, per Wittgenstein è, come accennato, un insieme di fatti, di eventi, non di cose isolate, ma “che esistono solo se analizzate nel loro contesto, nelle loro relazioni”. Riguardo al rapporto tra linguaggio e mondo, la sua tesi è quella dell’isomorfismo (“stessa forma”), per cui pensiero e linguaggio non sono la realtà, ma hanno delle strutture in comune con questa. “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”, è l’ultima delle sette proposizioni del libro. “Con questo ‘imperativo’ – ha proseguito il relatore – sembra voglia metterci in silenzio, quasi in modo mistico”, spiegando come “il linguaggio ha dei limiti, non tutto è esprimibile”. “Il mio lavoro – scrisse lo stesso Wittgenstein – consiste di due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante”: etica e religione – ciò di cui “non si può parlare” – “sono quindi più importanti delle scienze empiriche”. Infine, la seconda fase del suo pensiero segnerà l’abbandono dell’idea di un linguaggio idealmente unico e perfetto, a favore del linguaggio ordinario o quotidiano, e dei suoi molteplici usi, introducendo il concetto di “gioco linguistico”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° marzo 2019

La Voce di Ferrara-Comacchio