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“È il mercato delle donne e dei bambini”: parla Marina Terragni, femminista

1 Feb

Lotta contro l’utero in affitto: una battaglia non solo della Chiesa. Intervista a Marina Terragni. Focus sulla rete femminista contro la maternità surrogata: è del 2015 l’Appello internazionale “Stop Surrogacy Now” firmato da oltre 100 persone e 16 organizzazioni per la difesa dei diritti delle donne. In Italia esiste la Rete “RUA – Resistenza all’Utero in Affitto”

A cura di Andrea Musacci
Il 27 gennaio si è svolta l’udienza pubblica della Corte Costituzionale sulla costituzionalità o meno del divieto, in base all’attuale diritto italiano, di riconoscere le sentenze straniere che attestano il legame di filiazione tra un minore nato all’estero con le modalità della Gestazione per Altri. Tutto è partito dal caso di un bimbo nato in Canada da “madre surrogata”, figlio biologico di uno solo dei due uomini sposati tra loro, e riconosciuti in Canada come suoi genitori.
In attesa degli sviluppi della vicenda e del deposito della sentenza della Corte, ci siamo confrontati con Marina Terragni (foto), femminista, scrittrice e giornalista milanese esperta di differenziazione sessuale, mercificazione dei corpi, e quindi anche dell’orribile pratica della “surrogazione di maternità”.
Le chiediamo innanzitutto a che punto è la discussione nel nostro Paese. «Gran parte del femminismo in Italia, anche tra le transfemministe – ad esempio il collettivo “Non una di meno” -, in realtà non si è mai pronunciato a favore dell’utero in affitto: è certa narrazione dominante a dire che è una battaglia portata avanti solo da un gruppetto di femministe critiche. In Italia è il movimento LGBT a difendere l’utero in affitto insieme alla quasi totalità della sinistra politica». Rarissime sono le eccezioni, dal Segretario PD Zingaretti, «che però non ha mai fatto gesti conseguenti», ad Aurelio Mancuso, cattolico ex Presidente nazionale Arcigay, da Stefano Fassina (Deputato di Liberi e Uguali), all’attivista omosessuale Giovanni Dall’Orto. Segnaliamo anche il comunicato di 9 deputate/i del PD uscito lo scorso novembre: «Condividiamo l’appello del Forum delle famiglie e di Scienza & Vita, affinché siano prese tutte le opportune iniziative per oscurare i siti che pubblicizzano la maternità surrogata», recita all’inizio. «Magari anche nel mondo LGBT in molti sono contrari ma, come spesso accade, vince la logica di lobby», prosegue Terragni. Attualmente nel nostro Parlamento due sono le proposte di legge, tra loro simili, che sanciscono la punibilità del reato di maternità surrogata anche se compiuto da un italiano all’estero: una a prima firma Giorgia Meloni (FdI), l’altra Mara Carfagna (Forza Italia), da settembre in Commissione Giustizia della Camera per la discussione. In Spagna, però, ad esempio la situazione è diversa: nel programma di governo siglato un anno fa dal Partito Socialista del Primo Ministro Pedro Sánchez e da Unidas Podemos (la Sinistra radicale) vi è la netta condanna delle «pance in affitto» («los vientres de alquiler»). «Le pance in affitto – si legge nell’accordo – minano i diritti delle donne, soprattutto di quelle più vulnerabili, mercificando i loro corpi e le loro funzioni riproduttive. E per questo, agiremo di fronte alle agenzie che offrono questa pratica sapendo che è vietato nel nostro paese».
Da noi, in ogni caso, rimane ancora un dibattito di nicchia. «Sì – commenta Terragni -, perché riguarda pochi omosessuali e una parte più ampia di eterosessuali, ma di fatto un numero limitato di persone. E poi soprattutto perché è un mondo che in molti hanno interesse a tenere nascosto. Per la maggior parte delle coppie etero che vi ricorrono non è come per le coppie omosessuali che hanno anche il desiderio di rivendicare pubblicamente il loro “diritto” ad avere un figlio». E che se ne parli poco dipende anche dal fatto, purtroppo, che riguarda donne povere che abitano in Paesi lontani. Occhio non vede cuore non duole? «Certo, se le gestanti fossero italiane ci sarebbe più interesse, già è raro conoscere coppie omosessuali che ne hanno usufruito, anche perché essendo una pratica molto costosa riguarda ceti medio-alti…». Un’alternativa, è l’opinione di Marina Terragni, sta nell’istituto dell’adozione: «il senso di maternità o paternità, naturalmente, ce l’hanno anche le persone omosessuali, quindi pur con tutte le necessarie tutele e i criteri di severità che sempre debbono esserci quando si parla di adozione, permetterei l’adozione anche alle coppie omosessuali. Penso che due donne o due uomini possano crescere benissimo un bambino».
In ogni caso, se è possibile un’alleanza tra credenti e non credenti sulla lotta contro l’utero in affitto, le chiediamo su quali basi antropologiche può poggiare. «Noi femministe siamo donne che lottano contro il dominio di un sesso sull’altro, quindi non vedo nulla di strano sul fatto che su temi come questo ci sia una lotta comune tra noi e il mondo cattolico».
Anche su altre questioni, la incalziamo, come la lotta contro la prostituzione o contro l’identità gender, forte è l’alleanza tra il femminismo e i cattolici: «il Covid – ragiona – ci ha messo di fronte alla necessità di un cambio di civiltà». È ancora più evidente, cioè, come «l’alternativa sia oggi più che mai fra transumanesimo e un umanesimo che ha una radice femminile, non nel senso di un dominio delle donne, ma che si ispiri alle poche antiche civiltà matriarcali di cui è rimasta traccia». Civiltà in cui la maternità era al centro, come la nostra. «La relazione madre-figlio, una relazione di cura, amore e responsabilità dovrebbe essere dunque la base per una convivenza umana più giusta». Oggi invece il transumanesimo «spinge fino all’estremo la cancellazione dei corpi e della differenza sessuale, quindi innanzitutto della femminilità e della maternità. La ricostruzione dell’umano dovrebbe, invece, partire da uno sguardo trasformativo», non riduzionista, omologante o distruttivo.
Femminismo italiano e Chiesa cattolica, quindi, per Terragni è normale si trovino alleati sulla difesa del corpo, che è inevitabilmente corpo sessuato. «Spesso, però, – prosegue con rammarico – i cattolici non vogliono ammettere le gravi responsabilità maschili, non vogliono riconoscere e analizzare il dominio maschile. Sarebbe fondamentale che lo facessero», ma spesso oggi, anche fuori dalla Chiesa, «siamo in una fratria di maschi prepotenti che non si assumono nemmeno le proprie responsabilità».
Una civiltà a radice femminile, invece, sarebbe in netto contrasto con «l’idea fittizia dell’individuo isolato», perché «noi nasciamo in relazione». L’utero in affitto è un tema paradigmatico appunto perché «tocca le radici dell’umano: la gestante rimane inevitabilmente legata al bambino che porta in grembo. L’epigenetica ha dimostrato che in quei 9 mesi avviene tra madre e figlio uno scambio continuo di informazioni e umori». La madre “genetica” è fondamentale perché contribuisce col proprio ovulo, ma mai quanto la madre “epigenetica”, gestazionale. «Insomma, bisogna dirlo con chiarezza: l’utero in affitto porta al mercato dei bambini e alla schiavitù delle donne. Il denaro c’è sempre, basti solo pensare al business tra cliniche, studi legali, alberghi… Non esiste la GPA “solidale”, è parte del mercato internazionale della carne umana». Un mercato enorme, dietro solo a quello delle armi e della droga, ma che punta ormai dritto al secondo posto.

“Le donne non sono contenitori di prole. Difendiamo il legame materno”

Soprattutto negli ultimi dieci anni il NO all’utero in affitto ha assunto sempre più una forma collettiva e concreta a livello internazionale.
Le prime crepe nel mondo femminista le ha provocate nel 2015 l’Appello “Stop Surrogacy Now”, che riunisce 16 organizzazioni e oltre 100 singoli firmatari da 18 Paesi, tra cui USA, India, Nigeria, Bangladesh, Australia, vari Stati europei, Canada e Pakistan. Fra i primi firmatari vi sono la femminista francese Sylviane Agacinski, l’ateo Michel Onfray, Farida Akhter (attivista per i diritti delle donne nel Bangladesh), la femminista radicale inglese Julie Bindel. “Stop Surrogacy Now” chiede la cessazione totale della pratica della GPA, al fine di proteggere le donne e i bambini di tutto il mondo, e di porre fine alle azioni che cerchino di legittimare e normalizzare il traffico di bambini. «Noi siamo convinti che non vi sia differenza tra la pratica commerciale della gestazione per altri e la vendita o l’acquisto dei bambini», recita un passo dell’Appello. «Anche se non c’è scambio di denaro (la cosiddetta gestazione non remunerata o “altruistica”), ogni pratica che espone le donne e i bambini a tali rischi deve essere vietata. Nessuno ha diritto a un bambino: né eterosessuali, né omosessuali e neppure chi ha scelto di rimanere single».
Sempre nel 2015 esce un Appello italiano contro l’utero in affitto: «Noi rifiutiamo di considerare la “maternità surrogata” un atto di libertà o di amore», recita il testo. «Oggi, per la prima volta nella storia, la maternità incontra la libertà. Si può scegliere di essere o non essere madri. La maternità, scelta e non subìta, apre a un’idea più ricca della libertà e della stessa umanità: il percorso di vita che una donna e il suo futuro bambino compiono insieme è un’avventura umana straordinaria. I bambini non sono cose da vendere o da “donare”. Se vengono programmaticamente scissi dalla storia che li ha portati alla luce e che comunque è la loro, i bambini diventano merce». Tra i primi firmatari, intellettuali della sinistra come Giuseppe Vacca e Peppino Caldarola, la scrittrice Dacia Maraini, Grazia Francescato (Verdi), Mariapia Garavaglia e Livia Turco (PD), le suore orsoline di Casa Rut (Caserta), l’associazione “Slaves no more” di Anna Pozzi, Aurelio Mancuso (già presidente di Arcigay), Cristina Gramolini (presidente di ArciLesbica), Gi.U.Li.A (Rete nazionale delle giornaliste unite libere autonome), Vittoria Doretti (Codice Rosa), Claudio Magris, Nadia Zicoschi (giornalista RAI).
Due anni dopo nasce la Rete “RUA – Resistenza all’Utero in Affitto”, che raccoglie i diversi gruppi sostenitori dell’Appello: «Le donne non sono macchine da riproduzione», recita l’atto fondativo. «Difendiamo l’autodeterminazione delle donne mantenendo l’attuale situazione in cui la madre legale è colei che partorisce, cioè colei che ha avuto l’esperienza della gravidanza (…). Esigiamo il rispetto del diritto umano dei neonati alla continuità della propria vita familiare e il rispetto delle donne, che non devono essere trattate come contenitori di prole altrui (…). Non c’è un diritto alla genitorialità sociale» ma esiste «invece un diritto, universale, a crescere (a partire dalla gravidanza accettata dalla futura madre), nascere ed esistere nelle condizioni migliori (“sufficientemente buone”) avendo garantito anche il legame materno». Sempre nel 2017, a marzo, la Sala Regina della Camera dei deputati ospita un importante appuntamento: il convegno internazionale “Maternità al bivio: dalla libera scelta alla surrogata. Una sfida mondiale“ organizzato dal collettivo “Se non ora quando – Libere”.
Nell’aprile del 2019 nasce la Coalizione internazionale contro la maternità surrogata: il mese dopo a Roma si tiene un incontro con i promotori dell’Appello italiano e, fra gli altri, Marie Josèphe De Villers, promotrice del movimento transnazionale. «Nel concetto di maternità surrogata – è scritto nel testo di presentazione – il ruolo della donna madre è ridotto, e forse questa è l’intenzione globale e nascosta, a qualcosa d’inesistente, a un semplice strumento meccanico di procreazione, mentre sappiamo quanto per ogni essere umano sia fondamentale l’origine della sua vita». Nel giugno 2019, invece, presso la sede romana della Federazione Nazionale della Stampa Italiana si riuniscono i promotori dell’Appello per un’importante conferenza stampa: presenti rappresentanti di “In Radice”, “Se non ora quando – Libere”, Udi, ArciLesbica Nazionale, RUA, RadFem Italia, Rete Gay contro l’utero in affitto, “Se non ora quando – Genova”, oltre a Marco Tarquinio, Direttore di “Avvenire” (foto qui sopra).
Arriviamo così allo scorso maggio: sul sito della Biotexcom, un’agenzia per la maternità surrogata in Ucraina, un video mostra le immagini di una grande nursery improvvisata nella hall dell’Hotel Venezia a Kiev. Vi sono 46 neonati e neonate messe al mondo da gestanti a pagamento su commissione di cittadini di molti Paesi del mondo, tra cui l’Italia, e abbandonate/i lì, in quanto a causa dell’emergenza sanitaria i genitori committenti non possono recarsi a “ritirarli”. Passerà diverso tempo prima che tutti i genitori “acquirenti” riescano ad arrivare a Kiev dai neonati abbandonati senza madre né tutele.
La battaglia delle donne e degli uomini a difesa della dignità della persona continua, in Italia e nel mondo.


Arcilesbica e UDI: critiche

«Le condizioni del contratto obbligano le donne che affittano l’utero a rinunciare alla propria autodeterminazione (…). Per funzionare, il business delle bambine e dei bambini su commissione deve cancellare il principio fondamentale e fino ad ora universale del mater semper certa est, secondo cui la madre legale è la donna che ha partorito. Questo svela che la maternità surrogata non è una pratica né tanto meno una tecnica medica (…), ma è un nuovo istituto giuridico di forte impronta patriarcale che esercita un controllo sulle donne»
(Arcilesbica Nazionale, Documento Congressuale 2017).
«Il desiderio di maternità e di genitorialità di coppie etero e omosessuali rischiano oggi di essere assoggettati ai criteri della potenza tecnologica e del rendimento produttivo, trasformando donne in contenitori economicamente definibili, figlie e figli in oggetti di investimento, senza alcuna coscienza del limite»
(UDI nazionale, “Piattaforma per una contrattazione di genere”, 2017).

Un esempio di sito: Gestlife

“Gestlife” è uno dei più noti studi di consulenza legale (con sede in Spagna) per dare supporto agli aspiranti genitori “acquirenti” e metterli in contatto con le strutture che operano nei Paesi dove la maternità surrogata è legale. Sul sito http://www.surrogacyitaly.com la pubblicizzazione del commercio dei corpi delle donne e dei bambini è proposta senza scrupoli: «i costi di una maternità surrogata variano a seconda della gestante (…). Quando pagate meglio di chiunque altro una gestante, ottenete la migliore gestante. Quando si vuole pagare meno, le migliori gestanti andranno ad altri genitori, e quelle che le cliniche serie hanno rifiutato perché non soddisfacevano i requisiti medici o psicologici, finiscono per accettare cifre inferiori, perché nessun altro le accetta».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 febbraio 2021

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La violenza sulle donne è anche economica

16 Nov

Il 13 novembre il primo degli incontri curati da Centro Ricerche Documentazione e Studi (Cds) Cultura e Centro Donna Giustizia di Ferrara

Oltre la metà delle donne vittime di violenza che si rivolgono al Centro Donna Giustizia (CDG) di Ferrara non hanno reddito o perdono il lavoro in seguito alla violenza subita. Nel 2020 in Italia in media ogni giorno ci sono oltre 3 denunce di violenze subite da operatrici sanitarie durante lo svolgimento del proprio lavoro.
Sono alcuni dei drammatici dati emersi dall’incontro svoltosi on line il 13 novembre sul canale Facebook del Cds (Centro Ricerche Documentazione e Studi) Cultura di Ferrara. L’occasione – in vista del 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne – è stata la presentazione dell’Integrazione all’Annuario socio-economico ferrarese 2020, proposto dal Cds e quest’anno dedicato all’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile e declinato secondo i suoi 17 obiettivi, motivo di assegnazione del patrocinio ASviS. L’Integrazione riguarda, appunto, nello specifico l’Obiettivo (Goal) 5, quello dedicato alla Parità di genere, e raccoglie testimonianze e riflessioni di 15 protagoniste delle istituzioni, della politica, delle associazioni in chiave locale, insieme a interventi di due esperte, Marcella Chiesi e Daniela Oliva.
L’incontro del 13 novembre, introdotto da Cinzia Bracci (Presidente Cds Cultura) e condotto da Annalisa Ferrari (Direttivo Cds Cultura), ha visto fra gli interventi quello di Paola Castagnotto del Centro Donna Giustizia: «l’essere vittima di violenza è una limitazione forte per le donne e per il loro contributo alla crescita della propria comunità. Vi è – ha proseguito – un’intima relazione tra la violenza economica e quella fisica e psicologica contro le donne: la seconda è l’esito estremo delle disuguaglianze di genere». Castagnotto ha poi esposto i dati qui sopracitati: «più della metà delle donne che si sono rivolte al CDG, dopo la violenza sono diventate disoccupate, e la maggior parte di loro non hanno reddito o hanno reddito basso: parliamo del 56% delle 217 donne che si sono rivolte a noi. Più della metà, quindi, ha subìto anche violenza economica», oltre a quella fisica-psicologica.
Dopo gli interventi dell’Assessora Dorota Kusiak e di Rosanna Oliva de Conciliis (Presidente Rete per la Parità e Referente per ASviS del Goal 5), hanno preso la parola Daniela Oliva (Istituto Ricerca Sociale), Marcella Chiesi e Roberta Mori (consigliera e Presidente Commissione Parità Regione Emilia-Romagna). Quest’ultima ha posto l’accento su come durante la pandemia in corso «molte sono le imprese femminili colpite dalla crisi e tanti i posti di lavoro delle donne andati perduti»: se il problema non viene affrontato, «questo arretramento del protagonismo femminile diventerà strutturale».
È stata poi Debora Romano, presidente sezione ferrarese Associazione italiana Donne Medico, ad accennare ai dati sopracitati riguardanti le operatrici sanitarie nel nostro Paese: sono 176mila le donne medico in italia. Dati del 2020 parlano di 5 denunce al giorno di violenze subite da operatori sanitari, 2/3 delle quali vedono vittime donne (perlopiù medici di base, guardie mediche e operatrici nei Pronto soccorso), quindi circa 1.100 in un anno. L’incontro si è concluso con gli interventi di Ilaria Baraldi (consigliera e vice Presidente Commissione Pari Opportunità Comune di Ferrara), Paola Peruffo (consigliera e Presidente Commissione Pari Opportunità Comune di Ferrara) e Liviana Zagagnoni (UDI Ferrara).
Il programma degli altri incontri in programma sul tema della violenza contro le donne organizzati da Cds Cultura e CDG si può trovare qui: https://www.cdscultura.com/it/blog/471-cds-cultura-e-cdg-centro-donna-giustizia-una-sinergia-di-impegni-condivisi
Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 20 novembre 2020

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Lo sguardo femminile sul Novecento: quando la fotografia divenne un atto di vera emancipazione

21 Set
Carla Cerati

A Ferrara è possibile visitare la Biennale donna: collettiva di 13 fotografe, da Letizia Battaglia a Francesca Woodman

Quando la donna da corpo e volto guardato e rappresentato dall’uomo diviene, anche nella fotografia, soggetto, sguardo, coscienza e sua espressione libera e piena?
Il discorso sarebbe lungo e di certo è futile cercare datazioni precise, se non legate a eventi simbolici. Ma certo è che nel Novecento, in particolare nel mondo occidentale, la donna prima attraverso il lavoro poi in tutti gli ambiti del consorzio umano, afferma se stessa, con lotte, regressioni ma dando vita a processi che segnano la storia, la stravolgono e dei quali, ancora oggi, ognuno dovrebbe essere riconoscente.
Su questa emancipazione attraverso il mezzo fotografico si concentra la XVIII Biennale Donna dal titolo “Attraversare l’immagine. Donne e fotografia tra gli anni ’50 e gli anni ’80”, in programma nella Palazzina Marfisa d’Este di Ferrara dal 20 settembre al 22 novembre. A cura di Angela Madesani e organizzata dal Comitato Biennale Donna dell’UDI e dal Servizio Musei d’Arte del Comune di Ferrara in collaborazione con Ferrara Arte, la collettiva raccoglie immagini di 13 fotografe: Paola Agosti, Diane Arbus, Letizia Battaglia, Giovanna Borgese, Lisetta Carmi, Carla Cerati, Françoise Demulder, Mari Mahr, Lori Sammartino, Chiara Samugheo, Leena Saraste, Francesca Woodman e Petra Wunderlich.
Donne accomunate dalla convinzione che attraverso la fotografia si potesse cambiare la realtà, che l’arte potesse essere uno strumento di denuncia. D’altronde il primo modo di trasformare il reale è farlo prossimo, osservarlo e viverlo: per questo nelle sale la protagonista è un’umanità vera, cruda, seppur “filtrata” dall’obiettivo, resa nella propria radicale schiettezza in quanto scevra da logiche dominanti. Un’Italia, in particolare, che oggi non ritroviamo più, divorata da quella “mutazione antropologica” profetizzata con angoscia da Del Noce e Pasolini. Un’Italia caotica e fangosa, quella in parete a Marfisa, semplicemente restituita nella sua realtà, non ancora posseduta e rintronata da una concezione spuria dell’immagine.
Lo sguardo delle artiste in mostra – con la delicatezza e la forza di cui il femminile è intriso – è dunque sguardo sul dolore della persona, sulle sue solitudini, uno sguardo di cura che, per parafrasare il titolo della Biennale, “attraverso” l’immagine attraversa corpi, storie, sofferenze e debolezze. Questa Biennale ci ricorda – memento che è più che mai monito – il fascino e la durezza dell’emancipazione, un’emancipazione resa immagine, uno “scatto” di consapevolezza dal mondo antico (dolce e feroce) fino a quello moderno delle lotte operaie. Un secolo, breve ma complesso, come il Novecento, non solo osservato ma vissuto nella carne di donna, attraverso emozioni che sono differenza ma non eccezione a una norma, diversità ma non anomalia da riserva indiana.
Così, l’esistenziale e il sociale, quel privato che poi – a torto o a ragione – inevitabilmente diventò (anche) pubblico, quella sacralità e quel laicismo vengono colti, pur nelle differenze e nelle unicità delle artiste, dei tempi e delle latitudini, e fatti diventare storia e icona. Simbolo, appunto, non solo di ciò che è mostrato, ma anche di chi impugnava la macchina fotografica.
Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 25 settembre 2020

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Violenza sulle donne, un problema anche religioso

8 Apr

Un libro e un Osservatorio interreligioso – presentati a Ferrara lo scorso 5 aprile dalla loro ideatrice, Paola Cavallari – intendono stimolare discussioni e pratiche nuove sulle relazioni di genere anche dentro la Chiesa

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“Non solo reato, anche peccato: religioni e violenza sulle donne” (Effatà editrice, Cantalupa Torino 2018, pp. 144), è il nome dell’interessante e corale volume da poco disponibile nelle librerie e presentato anche a Ferrara (nella Sala dell’Arengo del Palazzo Municipale) lo scorso 5 aprile, con l’intervento della curatrice Paola Cavallari che ha interloquito con Francesco Lavezzi. Il volume raccoglie riflessioni di donne e uomini, credenti e non credenti, sul tema del rapporto fra i generi e sulla correlazione di questo con la violenza maschile sulle donne.

Un Appello, tre tavoli e un Osservatorio

La maturazione recente di questo percorso decennale, inizia quattro anni fa con la stesura del patto intitolato “Contro la violenza sulle donne. Un appello alle chiese cristiane in Italia”, nato nel mondo evangelico e siglato da rappresentanti di dieci denominazioni cristiane il 9 marzo 2015 a Roma. Nel testo, fra l’altro vi è scritto: “il luogo principale dove avviene la violenza sulle donne è la famiglia: questo è un fatto accertato e grave. Questa violenza interroga anche le Chiese e pone un problema alla coscienza cristiana: la violenza contro le donne è un’offesa ad ogni persona che noi riconosciamo creata a immagine e somiglianza di Dio, un gesto contro Dio stesso e il suo amore per ogni essere umano”. Più avanti: “le comunità cristiane in Italia sentono urgente la necessità di impegnarsi in prima persona per un’azione educativa e pastorale profonda e rinnovata che da un lato aiuti la parte maschile dell’umanità a liberarsi dalla spinta a commettere violenza sulle donne e dall’altro sostenga la dignità della donna, i suoi diritti e il suo ruolo nel privato delle relazioni sentimentali e di famiglia, nell’ambito della comunità cristiana, così come nei luoghi di lavoro e più in generale nella società”. Un limite dell’Appello, scrive la Cavallari nell’introduzione al volume, risiede però nel fatto che “non ospita alcun interrogativo sulla corresponsabilità storica delle istituzioni religiose nell’aver condiviso, legittimato e trasmesso un’antropologia e una visione politica che delle violenze sessiste sono state matrici”. Un appello, inoltre, purtroppo caduto nel vuoto, fatta eccezione per singole personalità di diverse confessioni cristiani e per il SAE – Segretariato Attività Ecumeniche di Bologna, che nei mesi di maggio del 2016, 2017 e 2018 ha organizzato nel capoluogo felsineo tre tavole rotonde interreligiose sul tema della connessione tra religioni e violenze contro le donne. “La cultura secolarizzata dell’Occidente dà per lo più scontato che le religioni siano istituti nemici delle donne”, ma “ciò è coraggiosamente smentito nella costellazione delle forme del femminismo cristiano, ebraico, islamico che si autocomprendono come saperi/pratiche non scissi dalla fede, e riconoscono i doni dello Spirito come nutrimento e fonte di libertà, per donne e uomini. E’ questa la logica cui l’Osservatorio si ispira”, scrive sempre la Cavallari nel libro, riferendosi all’Osservatorio Interreligioso contro la violenza sulle donne, nato lo scorso marzo. “Il nostro Osservatorio è dunque molto inclusivo – ha spiegato a Ferrara -, e si sta costituendo in gruppi territoriali”. Già attivi sono quelli dell’Emilia-Romagna, di Milano, del Trentino Alto Adige, di Cosenza e di Roma. “Nella nostra stessa Regione – ha proseguito – chiederemo alle diverse comunità ecclesiastiche o religiose che affrontino seriamente il problema, creando anche Commissioni specifiche sul tema della violenza maschile contro le donne e dell’identità di genere. La Chiesa Battista ha già iniziato a lavorare in questa direzione. Per ora siamo andati a parlare in alcuni istituti scolastici, cerchiamo di allargare il dibattito sulla stampa e abbiamo incontrato alcuni pastori, pastore e Vescovi, come quello di Bologna, mons. Zuppi. Per me è stata una vera e propria chiamata – ha confessato la Cavallari – quella che mi ha spinto a organizzare i tavoli, poi a dar vita all’Osservatorio e a curare il libro. E a una chiamata di questo tipo non si può sfuggire, non la si può non raccogliere… . Tutte le donne delle diverse confessioni religiosi – sono ancora sue parole – devono allearsi tra loro nella ricerca della libertà e di quella dignità a loro rubata, nei secoli, dagli uomini, e molto spesso anche dalle stesse donne, che hanno interiorizzato un certo senso di inferiorità. E’ importante quindi che le donne sentano il bisogno di studiare, ricercare, approfondire”.

Per una rilettura delle Sacre Scritture

copertina non solo reatoCome scrive lei stessa nel volume, l’intento di questo progetto consiste anche nel far comprendere come le offese alla dignità femminile non siano questioni “confinabili nell’etica, ma assolutamente intrinseche alla sostanza teologica”. Da qui l’importanza – riconosciuta in tutti i contributi del volume – di una diversa traduzione, interpretazione o legittimità assegnata ad alcuni passi o episodi delle Scritture, in particolare veterotestamentari, nei quali è esplicita e giustificata una concezione oppressiva della donna, e la violenza sulla stessa. “Sto lavorando a una pubblicazione su Eva – ha spiegato la Cavallari – nella quale intendo dare un’interpretazione alternativa, più positiva di questa figura”. In Genesi 2,18 è scritto: “Poi il Signore Dio disse: «Non è bene che l’uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile»”. “Aiuto”, secondo l’autrice, non indica, come spesso è stato interpretato, “qualcosa di servile, ma di molto importante, tanto che spesso nelle Scritture il termine è riferito a quello che Dio stesso dà ai suoi figli”. E’ infatti traducibile anche come “un aiuto che gli stia di fronte”, “evidenziando così ancor di più la parità, la simmetria tra uomo e donna, tra un ‘io’ e un ‘tu’”.

Necessità di un’autocritica

Se la riflessione e l’azione sono naturalmente tese nel presente e verso il futuro, fondamentale è una presa di coscienza totale di ciò che è stato, quindi anche degli abomini e delle violenze – fisiche e non – perpetrate, giustificate o nascoste nelle comunità ecclesiali, e di ciò che ancora avviene al loro interno. “Le chiese o comunità religiose – scrive ancora la Cavallari nell’introduzione al volume – non possono più persistere nel peccato di omissione, nell’ignorare il grido di dolore (come ebbe a dire il Cardinal Martini) che le donne innalzano; non possono sottrarsi con l’indifferenza, la banalizzazione, il paternalismo, con la riproposizione di una visione idealizzata – disincarnata, ingannevole – della donna. Inoltre non si domandano come mai la violenza si esercita soprattutto tra le pareti domestiche, in quei ‘focolari familiari’ che dovrebbero essere la cifra di una cellula benedetta”. La denuncia prosegue poi in modo ancor più netto: “le comunità religiose per lo più sono sorde, proprio loro che dovrebbero essere per eccellenza i luoghi di ascolto e accoglimento. Le donne violate e poi non credute avvertono un’immensa solitudine. I centri antiviolenza, e quasi mai le comunità religiose, forniscono quell’ascolto che fa sì che la donna abusata si senta non più delegittimata e finalmente riconosciuta”. “Siamo in una fase – ha spiegato a Ferrara – nella quale qualcosa si sta scardinando, anche nei confronti della stessa sessualità”, riferendosi ad esempio ad alcune riflessioni di Papa Francesco nella recente Esortazione “Christus Vivit” (n. 261).

Una liberazione di tutte/i

cavallari lavezzi“La cosiddetta teologia femminista è liberante non solo per le donne ma per tutti, anche per gli stessi uomini, e in particolare per tutte le minoranze e per tutte le classi subalterne”, ha tenuto a sottolineare la Cavallari, “non si desidera certo sostituire il potere degli uomini con quello delle donne”. Nel libro scrive a riguardo: “le donne non chiedono ciò per rivalsa, per crudeltà, per vendicarsi, o per scalzare gli uomini rimpiazzandoli negli spazi di potere – come viene maliziosamente insinuato; ma chiedono ciò che gli stessi cammini sapienzali e gli itinerari di fede hanno indicato per la vera conversione e il ristabilimento della giustizia”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 aprile 2019

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(foto Francesca Brancaleoni)

Le mani e i volti di La Rocca, resistenze al consumismo

18 Apr

Mio articolo uscito su “la Nuova Ferrara” del 18 aprile, dedicato alla retrospettiva di Ketty La Rocca ospitata nel Padiglione di Arte Contemporanea di Ferrara fino al 3 giugno 2018 per la Biennale Donna.

mio art klr