“E’ come se io potessi trovare consolazione soltanto nel riconoscimento della mia miseria”, scriveva Ludwig Wittgenstein, genio nato a Vienna 130 anni fa. Logico, matematico e ingegnere con l’ossessione per l’Assoluto
Il diario di una sofferenza, potremmo definirlo, di un’anima misticamente irrequieta, ben lontana dall’immagine costruitagli addosso nei decenni. Ludwig Wittgenstein (Vienna 1889 – Cambridge 1951), logico e filosofo del linguaggio (oltre che ingegnere), considerato fra i geni del Novecento (e forse non solo) ha subito, e forse subisce in parte ancora, le conseguenze dell’enorme fraintendimento riguardante soprattutto il celebre aforisma “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”. Uno dei suoi grandi meriti, infatti, è stato il tentativo di non ridurre l’etica, il discorso sul senso dell’esistenza e la fede a mere dispute teologiche, a svilenti scontri fra asserzioni, se non addirittura a semplici analisi scientifiche. Un approccio radicalmente antipositivistico, con forti echi kierkegaardiani, il suo, che emerge in particolare nei suoi diari degli anni ’30, in Italia raccolti in “Movimenti del pensiero. Diari 1930-1932/1936-1937” (Edizioni Quodlibet).
“Un granello d’oro puro in mezzo al sudicio”
La riflessione religiosa del filosofo austriaco (i cui nonni erano ebrei convertiti al protestantesimo, mentre i suoi genitori impartirono a lui e ai suoi fratelli e sorelle un’educazione cattolica)è sempre, e innanzitutto, riflessione su di sè. Come vedremo, il bisogno profondo di un senso trascendente parte sempre dalla condizione umana, precaria ma santa: “Conosco ogni possibile miseria – scrive -, la più piccola come la più grande, perché io stesso l’ho incontrata”. Nonostante la riservatezza del testo, la sua ben nota schiettezza non manca mai: “Conosci te stesso, e vedrai che tu sei comunque e sempre un povero peccatore. Ma io non voglio essere un povero peccatore e cerco in ogni modo di scappare (mi valgo di tutto come di una porta per sfuggire a questo giudizio)”. Così la scelta è sofferta ma decisa, e diventerà sempre più forte col passare degli anni: nel “piano religioso [..] mi rifugio dalle sporche bassezze del mio piacere e del mio dispiacere”. “A volte mi immagino gli uomini come biglie – scrive ancora -: una tutta d’oro puro; l’altra, uno strato di materiale senza valore, e sotto oro; la terza una doratura ingannevole ma falsa, sotto: oro. Un’altra ancora dove sotto la doratura c’è sudicio, e un’altra dove in mezzo a questo sporco c’è di nuovo un granello d’oro puro. Eccc., ecc. Io credo che l’ultima biglia forse sono io”.
“Stanno solo su un altro versante”
Al tempo stesso, nei suoi tormentati e divini ragionamenti – nella pur, umana, crudezza – vi è sempre l’attenzione nei confronti dell’altro – “sono triste al pensiero di non poter aiutare M. Sono molto debole e lunatico”- ma sempre accompagnato dalla richiesta di un soccorso non umano: “se, con l’aiuto di Dio, resto forte, forse così potrò darle una mano. […] Possa Dio darmi ciò che mi occorre”, o “…alla fine ci si deve affidare a Dio”. Un uomo spavaldo è stato sempre descritto Wittgenstein dai suoi biografi. Ma di sicuro non un uomo insensibile alla durezza del reale che tutti accomuna: “una coscienza gravata di colpa potrebbe facilmente confessarsi; l’uomo fatuo non si può confessare”, scrive, richiamando, ad esempio, Peguy quando scrive: “ciò che si definisce morale è uno strato che rende l’uomo impermeabile alla grazia”. “Ho visto – scrive ancora nei suoi diari Wittgenstein – le foto con facce di briganti corsi e ho pensato: queste facce sono troppo dure, e la mia troppo morbida perché il cristianesimo vi possa incidere. Le facce di questi briganti sono terribili da vedere, senza cuore, in un certo senso fredde e indurite; eppure non per questo sono più lontane di me dalla vita giusta, stanno solo su un altro versante, distanti dal giusto”.
“Non è per nulla comprensibile, è solo non incomprensibile”
Il linguaggio e il suo rapporto col mondo è sempre stato il cruccio del pensatore viennese. Riflessione che ha cercato di scandagliare in ogni direzione, anche in rapporto alla fede. “Una proposizione può apparire assurda – scrive – e l’assurdità della sua superficie può venire inghiottita dalla profondità che si trova per così dire dietro di essa. Ciò può essere applicato all’idea della resurrezione dei morti e ad altre a essa strettamente legate. Ciò che però la rende profonda è l’applicazione: la vita che conduce colui che vi crede. Perché questa proposizione può essere per esempio l’espressione della più grande responsabilità”. Si nota, così, in maniera forte, l’impossibilità, per Wittgenstein, di scindere fede e vita, pensiero e carne, coerente con la sua visione del mondo, a suo dire composto di fatti, di eventi, non di cose. La verità, dunque, non può non rivelarsi nella carne, nell’esserci, e non negli inganni e nelle confusioni del linguaggio, nei labirinti delle teorie (che nient’altro sono se non cose “oggettivate”). “La Bibbia non è nient’altro che un libro davanti a me. Ma perché dico ‘nient’altro che un libro’? ho davanti a me un libro, un documento che, se resta isolato, non può aver più valore di qualsiasi altro documento. (…) Questo documento non può, in sé, ‘legarmi’ a nessuna fede nelle dottrine che esso contiene, – tanto poco quanto un qualsiasi altro documento che mi fosse capitato fra le mani […]. La predica può essere la condizione preliminare della fede, ma tramite ciò che in essa avviene, non può voler mettere in moto la fede […]. La fede comincia con la fede. Si deve cominciare con la fede; da parole non segue nessuna fede”. Uno dei pensatori che ha speso buona parte della propria esistenza a tentare di scovare i fondamenti della logica e della matematica, in realtà, è chiaro, cercava i fondamenti del reale stesso, l’Essere. E in questa ricerca si immergeva nell’esistenza: “se una beatitudine eterna non significa qualche cosa per la mia vita, il mio modo di vivere, allora non mi ci devo rompere la testa; se posso a buon diritto rifletterci, ciò che penso deve allora avere un rapporto preciso con la mia vita, altrimenti, ciò che penso è una scemenza”. Nello specifico del cristianesimo, il fatto che Dio esiste e ha scelto di incarnarsi in un uomo – (si) domanda – “non deve quindi avere per te un ‘significato decisivo’? Intendo: questo non deve avere conseguenze per la tua vita, obbligarti a qualche cosa? Voglio dire: non devi entrare con lui in un rapporto etico?’”. Però, prosegue poi, “la mia fede è troppo debole. Voglio dire la mia fede nella provvidenza, il mio sentire: ‘accade tutto per volontà di Dio’. E questa non è un’opinione – neppure una convinzione, ma un atteggiamento di fronte alle cose e a ciò che accade. Possa io non diventare frivolo!”.
“E questa è la fede”
Col tempo, nelle pagine del diario fortunatamente pervenuteci, sembra farsi sempre più pressante la meditazione sul senso della vita e del credere. “Io posso ben rifiutare – sono ancora sue parole – la soluzione cristiana del problema della vita (redenzione, risurrezione, giudizio, cielo, inferno), ma con ciò certo il problema della mia vita non è risolto, poiché io non sono né buono né felice. Io non sono redento”. Si dipana così una continua – seppur frastagliata, spesso incerta – preghiera, nel tentativo, coscientemente assurdo, di dire l’indicibile: “questo tendere all’assoluto, che fa apparire troppo gretta ogni felicità terrena, volge lo sguardo in alto e non guarda orizzontalmente, alle cose, mi appare come qualcosa di splendido, di sublime, ma io stesso punto il mio sguardo alle cose terrene; a meno che ‘Dio’ mi ‘visiti’ e mi sopravvenga quello stato in cui ciò non è possibile. Io credo […] e ciò posso farlo in quella fioca illuminazione dall’alto”. “Questa vita [nella fede] deve, per così dire, tenerti sospeso su questa terra”, scriverà ancora con parole sublimi. “Cioè quando vai sulla terra non poggi più sulla terra, ma sei sospeso in cielo; sei tenuto su dall’alto, non sorretto dal basso. Questa vita però è l’amore, l’amore umano per colui che è perfetto. E questa è la fede”.
Vivere nel bene e nella bellezza
Il 21 febbraio si è tenuto un incontro in Biblioteca Ariostea: il “Tractatus”, l’amicizia con Russell, l’importanza dell’etica e della religione
“Era forse l’ esempio più perfetto del genio così come lo si immagina”, scrisse di lui l’amico e collega Bertrand Russell, definendolo “appassionato e profondo, intenso e dispotico”. Un legame, quello di Wittgenstein col filosofo inglese (foto a destra), che sarà fondamentale per l’evoluzione del suo pensiero e per il fatto che sarà proprio Russell a convincerlo a dare alle stampe quella che sarà l’unica sua opera edita, il “Tractatus Logico-Philosophicus”. Di questo e non solo, lo scorso 21 febbraio nella Biblioteca Ariostea di Ferrara ha parlato Nicola Alessandrini. L’incontro, introdotto da Sandra Carli Ballola, fa parte del ciclo dal titolo “I colori della conoscenza – La lingua e i linguaggi” a cura dell’Istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea. Il pensiero che nasce dalla vita, si diceva. E a tal proposito, il relatore ha subito citato le parole che Wittgenstein scrisse dal fronte il 7 ottobre 1914: “potrei morire fra un’ora, potrei morire fra due ore, fra un mese oppure fra un paio d’anni; non posso saperlo e non posso farci nulla, pro o contro: così è la vita. Ma allora come devo vivere per sopravvivere in ognuno di questi momenti? Vivere nel bene e nella bellezza fino a quando la vita non giunga da sé al termine”. “Proprio mentre vive uno dei momenti più bui della propria vita e più nichilisti del mondo – ha spiegato Alessandrini -, scrive il libro che cambierà, forse per sempre, il pensiero logico e filosofico”, il “Tractatus”, appunto, “tentando così in un certo senso di riordinare il mondo”. Il mondo, per Wittgenstein è, come accennato, un insieme di fatti, di eventi, non di cose isolate, ma “che esistono solo se analizzate nel loro contesto, nelle loro relazioni”. Riguardo al rapporto tra linguaggio e mondo, la sua tesi è quella dell’isomorfismo (“stessa forma”), per cui pensiero e linguaggio non sono la realtà, ma hanno delle strutture in comune con questa. “Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere”, è l’ultima delle sette proposizioni del libro. “Con questo ‘imperativo’ – ha proseguito il relatore – sembra voglia metterci in silenzio, quasi in modo mistico”, spiegando come “il linguaggio ha dei limiti, non tutto è esprimibile”. “Il mio lavoro – scrisse lo stesso Wittgenstein – consiste di due parti: di quello che ho scritto ed inoltre di tutto quello che non ho scritto. E proprio questa seconda parte è quella importante”: etica e religione – ciò di cui “non si può parlare” – “sono quindi più importanti delle scienze empiriche”. Infine, la seconda fase del suo pensiero segnerà l’abbandono dell’idea di un linguaggio idealmente unico e perfetto, a favore del linguaggio ordinario o quotidiano, e dei suoi molteplici usi, introducendo il concetto di “gioco linguistico”.
Andrea Musacci
Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” del 1° marzo 2019
Forse non in molti, anche tra gli stessi ferraresi, sanno che al civico n. 30 di via della Luna a Ferrara, vi è, non immediatamente visibile per chi non vi entra, tanta storia quanta bellezza. Da diversi anni l’edificio, che dal XVI secolo ospitava il Monte di Pietà di Ferrara, accoglie un ristorante, attualmente il “Lotregano”, gestito da Valter Lucchini, il quale ha deciso di far conoscere i gioielli che adornano la sala interna dove vengono accolti gli avventori. Per questo, ragionando con un suo dipendente, Daniele Spanu, cameriere e artista, ha deciso di riempire la parete dell’ambiente d’ingresso, visibile dalla strada grazie a un’ampia vetrata, con un dipinto murario di grandi dimensioni. Ma, oltre ad aver così abbellito ulteriormente l’edificio, cosa c’è da richiamare all’interno? Come spieghiamo meglio dopo, citando ampiamente le indagini svolte dalla storica Silvia Villani (alla quale va, anche, la stessa riscoperta dell’intera iscrizione dell’affresco), nel soffitto del salone vi è un magnifico stucco del’ 400 col Cristo in Pietà levantesi dal sepolcro, simbolo dei Monti stessi, mentre sulle due pareti del salone stesso vi è una maestosa decorazione parietale.
Come distinguere i miti buoni da quelli cattivi? Ma soprattutto, ha ancora senso parlare di “mito” in una società desacralizzata come la nostra? A partire da queste domande, nel pomeriggio del 23 febbraio scorso Paolo Pasini ha sviluppato la propria riflessione sul tema“Raccontare il mito. Come orientarsi tra miti che ingannano e miti che fanno crescere”. Si è trattato del primo dei quattro incontri del ciclo dal titolo “Il mito. Una chiave per entrare in noi stessi. Riflessioni, analisi, stimoli”, in programma nella sede de “I Ricostruttori”, Cascina Santa Caterina, sullo stradone del Gallo, 2. Una 50ina di presenti ha assistito alla relazione di Pasini partecipando anche con diversi interrogativi e spunti di riflessione. Il relatore ha avviato la propria relazione partendo da decine di migliaia di anni fa, nel Paleolitico, e da alcune pitture rupestri pervenuteci che dimostrano come già l’homo neanderthalensis e l’homo sapiens “riuscissero a pensare simbolicamente, dunque a creare miti”. Per Pasini si può dire che “il primo pensiero avuto da un essere umano è stato simbolico, è un pensiero magico, che nasce dalla paura e dalla meraviglia, dal terrore e dallo stupore”. Nel suo excursus storico è poi passato al periodo della filosofia greca, presocratica e postsocratica: già da Anassimandro “il pensiero filosofico – ha spiegato – inizia a prendere le distanze dal mito, a metterlo in discussione, privilegiando sempre più il logos rispetto al mythos, quindi preferendo un concatenamento di ragionamenti, un’argomentazione razionale rispetto a un tentativo di comprensione simbolica”. Il logos filosofico, rafforzatosi con Platone e Aristotele, considera il mito “ciò di cui non si può trovare qualcosa di più vero”, qualcosa di “non preciso”, al massimo di “quasi esatto”. L’assimilazione del mito al falso, al non vero, si è invece intensificata con la rivoluzione scientifica e soprattutto nel periodo illuministico, quando la ragione e la scienza venivano viste – con le dovute sfumature interne alle varie correnti di pensiero – come “mezzi per liberare l’uomo dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione, quindi anche dal mito”. Kant, pensatore illuminista, sceglierà una posizione già maggiormente critica rispetto a una mentalità razionalista, ammettendo che esiste tutta una sfera di conoscenza – sull’anima, su Dio, sull’universo – “che la ragione non può comprendere”, e sulle quali, perciò, esiste un margine di soggettività maggiore rispetto al campo delle cosiddette scienze empiriche. In questo solco creato dal kantismo si inserirà successivamente il romanticismo, rivalutando “come fondamentali per il pensiero e per cercare le ragioni del vivere, l’amore e i sentimenti, la fede e la religione, l’arte e lo stesso mito”. Passando al XX secolo, sarà Ernst Cassirer a ridare ulteriore importanza al pensiero mitico come “basilare per lo sviluppo successivo del metodo scientifico e delle varie forme di conoscenza”. Ma è il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer e il suo pensiero ermeneutico, per Pasini, ad avere nel Novecento un ruolo fondamentale contro ogni forma di positivismo o dogmatismo. L’ermeneutica – scrive in “Verità e metodo” (1960) – non riguarda la “costruzione di una conoscenza certa, che soddisfi all’ideale metodico della scienza; e tuttavia anche qui si tratta di conoscenza e di verità. Nella comprensione di ciò che è trasmesso non si comprendono solo dei testi, ma si acquistano delle idee e si conoscono delle verità”. “Tutto nella realtà va quindi interpretato – ha spiegato Pasini -, necessita continuamente di essere interpretato”, disvelato nel suo senso. Il rapporto della persona col reale è dunque “una ricerca continua”, un muoversi perennemente in “un universo ermeneutico, per sua natura perciò aperto”. In questa continua apertura, inoltre – e ciò è fondamentale nel pensiero gadameriano – non cambia solo il reale e la nostra coscienza dello stesso, ma “noi stessi, lo stesso soggetto che vive un’esperienza di verità”. Quest’idea di ricerca e apertura è un ottimo antidoto “contro ogni forma di chiusura e di narcisismo, usando sempre il senso critico e nella consapevolezza dei propri limiti di essere umano – anche, possiamo dire, nei confronti di Dio”. Un rischio e una scoperta continui per smascherare – ha concluso Pasini – anche i falsi miti. E qui il richiamo finale è a un passo del Vangelo (Mt 7, 15-17): “Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro son lupi rapaci. Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi? Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi”. Gli altri tre incontri del ciclo sono in programma, sempre alle ore 17, sabato 2 marzo (“Dal mito di sè al contatto con sè. Come superare blocchi e timori per una piena realizzazione di sè”, con Silvia Donati), sabato 9 marzo (“Alla ricerca dell’immortalità. Il mito della salute”, con Silvia Braghini) e sabato 16 marzo (“Parzival. Attraverso la riscoperta del mito medievale del Graal, un percorso verso l’unificazione interiore e la libertà di spirito”, con Simone Sacchier).
Letterkenny è un nome che forse ai più non dirà molto, ma che 75 anni fa è diventato, a pieno diritto, luogo di memoria per gli italiani. E’ infatti il nome del campo che tra il ’44 e il ’45 ospitò – in modo più che dignitoso – più di 1200 soldati provenienti dal nostro Paese (del 321° battaglione di cooperatori), perlopiù catturati nell’ultima fase della campagna di Tunisia.
Non arte e moda ma la moda in quanto arte, immagine di un’epoca a cavallo di due secoli, nella fanciullezza della modernità, quando nobiltà e alta borghesia si affiancano – convivendo – l’un altra, sempre tese – tra ozio e bellezza, vizio ed edonismo – nella ricerca di una perfezione.
“Non temo nessun uomo. I miei occhi hanno visto l’arrivo del Signore, il suo splendore”. Che grande e umile esempio è ancora per noi M. L. King, che non usava la fede come arma contundente contro l’avversario, ma come sprone al servizio verso i fratelli e le sorelle (bianchi/e o neri/e), riserva aurea di forza e di abbandono al Signore, orizzonte sempre presente nel suo cuore e nel suo agire ma mai muro posto nei confronti dell’altro, mai confine blindato col quale dividere il mondo.
“Siamo membra gli uni degli altri (Ef 4,25). Dalle social network communities alla comunità umana” è il titolo del Messaggio di Papa Francesco per la 53esima Giornata Mondiale delle Comunicazioni, quest’anno in programma il 2 giugno.
Nella notte tra il 4 e 5 ottobre 1943 muore, dopo giorni di violenze e sevizie di ogni tipo, Norma Cossetto, giovane studentessa nata 23 anni prima a Visinada, nell’entroterra istriano, oggi località croata. Il suo nome già negli anni immediatamente successivi alla Liberazione diviene simbolo delle violenze e dei massacri ai danni della comunità italiana locale dell’Istria e della Venezia Giulia nel biennio ’43-‘45, colpita da arresti arbitrari, processi sommari, fucilazioni, sepolture in fosse comuni e infoibamenti ad opera dei partigiani locali titini. Circa un migliaio furono i morti, non necessariamente fascisti, ma anche antifascisti (socialisti, cattolici, liberali). Ma la pietà non deve morire. Mai. E con essa mai dovrebbe venir meno il rispetto per i morti, come nel caso di Norma perlopiù giovani e innocenti. Pietà e rispetto che vengono meno quando da una parte si strumentalizza la morte di questa povera ragazza ergendola a “martire fascista”, usurpandone così il nome, e dall’altra quando si considera la sua una “morte di serie B” solo perché figlia di un gerarca del regime mussoliniano.
“Antonio Farinatti. L’eroe di Parenzo” è il nome del volume – appena edito da La Carmelina – che racconta la vita del Maresciallo di Finanza originario di Migliaro, ucciso dai partigiani di Tito per infoibamento nell’ottobre del ’43. Il testo, a cura di Gerardo Severino e di Federico Sancimino, ha il patrocinio del Comune di Ferrara e del Museo Storico Guarda di Finanza – Comitato di Studi Storici, e il patrocinio e il contributo del Comitato Provinciale di Ferrara dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (il cui presidente Flavio Rabar ha scritto l’introduzione al volume) e dell’Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara. Antonio Farinatti nasce il 7 febbraio 1905 a Migliaro da Romolo e Pasqua Bonora. Lascia presto la scuola, mettendosi a lavorare come carpentiere e iscrivendosi alla Sezione locale del Partito Nazionale Fascista, partecipando anche alla Marcia su Roma. Nel febbraio ’23 invia la domanda di arruolamento nel Corpo della Regia Guardia di Finanza. L’ottobre dello stesso anno si trasferisce a Verona, in uno dei Battaglioni di formazione delle Fiamme Gialle. Un anno dopo, finito il corso, è promosso a guardia. Da qui, è costretto a spostarsi, per anni, in diverse località: a Piedicolle, Legione di Venezia, oggi territorio sloveno, poi Porto Nogaro (UD), Cortina, a Caserta per frequentatre il corso di allievo sottoufficiale, quindi, una volta divenuto Sotto brigadiere, a Cernobbio, sul Lago di Como, e nel ’27 a Piazzola, nelle vicinanze, dove conosce la futura moglie, Luigia Giulia Della Torre. L’anno dopo viene trasferito a Predazzo (TN), Maslianico, Bormio. Nel frattempo nasce la prima figlia Maria detta “Titti”. Farinatti torna al Sud, a Maddaloni (CE), Palermo e in provincia di Caltanissetta, per poi risalire al nord, a Firenze e a Cesenatico. Nel ’34 si sposa con Luigia a Cernobbio, e l’anno dopo si trasferiscono a Bellaria, a Ravenna e poi nel Comune di San Pietro del Carso, allora sotto Trieste, dove nel ’39 nasce la seconda figlia Stefania, detta “Neni”. Nel ’40 è nella vicina Postumia e viene promosso al grado di Maresciallo Ordinario, mentre nel ’41 è a Parenzo, a metà strada tra Pola e Trieste, e viene poi promosso al grado di Maresciallo Capo. Dopo l’armistizio dell’8 settembre ’43, l’Istria e la Dalmazia diventano terra di nessuno: iniziano le vendette slave contro gli italiani, innanzitutto finanzieri (parte dei quali nel ’45 si schiereranno apertamente con i partigiani italiani), carabinieri, Guardie di Pubblica Sicurezza e membri della Milizia Volontaria per la Sicurezza dello Stato, ma anche responsabili di uffici pubblici, insegnanti e sacerdoti, fascisti e antifascisti, uomini e donne, giovani e anziani. La IV Armata del Maresciallo Tito fa ingresso a Trieste il 1° maggio ’44: per un mese gli italiani vengono prelevati dalle loro case, molti finiranno nelle foibe o nei campi di concentramento titini. Molte saranno anche le confische, le requisizioni e violenze di ogni genere. Farinatti è tra i finanzieri che rimangono a Parenzo anche dopo l’armistizio dell’8 settembre, seppur cosciente dei seri rischi che corre. Il 14 dello stesso mese, i miliziani slavi arrivano a Parenzo, occupandola: “i giorni che seguirono – è scritto nel libro – portarono in città lutti e tragedie di ogni genere, ascrivibili a quella che agilmente può essere definita una ‘brutale rappresaglia militare’ ”. Il 19 iniziano i fermi e gli arresti di italiani (in tutto furono 84), prelevati con l’inganno, lasciando spesso i famigliari nell’attesa, illusoria, che avrebbero presto fatto ritorno. Fra questi, Norma Cossetto (ne parliamo a pag. 11). Farinatti viene prelevato dalla sua abitazione, davanti alla moglie e alle figlie, la notte tra il 20 e il 21 settembre ’43 da alcuni partigiani titini, e portato nella prigione adibita nel Castello Montecuccoli di Pisino, località ad alcune decine di km da Parenzo. Nell’ultima lettera, spedita alla moglie, prima di essere infoibato, Farinatti scrive (la data è 27 settembre ’43): “[…] Come tu ben puoi immaginare, il mio pensiero è sempre rivolto a voi. Vi vedo sempre davanti agli occhi e siete sempre nel mio cuore e nel mio pensiero. Noi qui siamo trattati molto bene. Il vitto è sano e sufficiente”. La mattina del 4 ottobre insieme ad altri dieci prigionieri viene trasferito a Vines, dove vi è una foiba: “giunta l’oscurità – è scritto nel volume – sotto la luce dei fari degli automezzi ebbe dunque luogo la ‘mattanza’, secondo un rituale ormai noto. Il Maresciallo Farinatti, con i polsi legati da uno spesso filo di ferro e accoppiato ad altre due vittime, fu gettato nella sottostante foiba (profonda circa 146 metri)”. Solo il 25 ottobre il suo corpo viene riportato in superficie e riconosciuto dalla moglie, grazie al particolare di un lembo di camicia indossata dal marito. Il 23 novembre 2006 il Direttore del Museo Storico della Finanza, l’allora Tenente Gerardo Severino, propone una ricompensa al Merito Civile per Farinatti: con Decreto del 24 luglio 2007, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, gli conferisce la Medaglia d’Oro.
Uno stile di vita improntato all’ascolto e alla relazione, che segua le vie della piccolezza e della povertà: sono questi i contorni delineati dal nostro Arcivescovo mons. Gian Carlo Perego nella sua lunga e articolata relazione tenuta in occasione della seconda Giornata del laicato dell’anno pastorale in corso. Un momento che ha rappresentato uno snodo importante della riflessione, ma che al tempo stesso è voluto essere un momento di confronto fondato sulla concretezza, sulla condivisione di esperienze reali, di percorsi di vita laicali premessa per nuovi e arditi orizzonti, per proposte da attuare a partire dal prossimo anno pastorale. Non a caso, un’altra parola fondamentale del percorso dei laici di Ferrara-Comacchio è “sperimentazione”, quindi qualcosa fatto tanto di ricerca quanto di verifica sul campo. Il pomeriggio di sabato 9 febbraio è stata la Città del Ragazzo di Ferrara a ospitare, dopo l’appuntamento del 29 settembre scorso, circa 150 persone, le quali, dopo la riflessione del Vescovo, si sono suddivise in una ventina di gruppi per discutere e confrontarsi sull’ascolto del mondo, della Parola, e su nuove esperienze ecclesiali da immaginare. “Passione e bellezza. Testimoni di un cammino comune” è stato il tema scelto, sul quale ha impostato il proprio intervento mons. Perego, dopo la presentazione di don Paolo Valenti.