Il 15 settembre anche a Ferrara il tema è stato al centro della Giornata europea della cultura ebraica
I sogni, si sa, sono per loro natura sfuggevoli, “materia” inafferrabile sui quali è possibile disquisire all’infinito. Anche per questo, una cultura come quella ebraica, che fa dell’interpretazione un suo carattere sostanziale, trova nel mondo onirico e nei suoi innumerevoli richiami, terreno fertilissimo sul quale lavorare. L’annuale Giornata Europea della Cultura Ebraica, giunta alla XX edizione, in programma domenica 15 settembre, era proprio dedicata a “Sogni. Una scala verso il cielo”. A Ferrara, sono state organizzate due iniziative. La prima, svoltasi nella mattinata nel Tempio italiano, organizzata dalla Comunità ebraica di Ferrara al secondo piano della sede storica di via Mazzini, 95, ha visto diversi relatori alternarsi sulla traccia della Giornata. In serata, invece, è stata la Sala Estense di piazza Municipale a ospitare il concerto “Shemà – Sogni con anima e corpo”, organizzato dal MEIS, con le poesie in musica di Primo Levi, incentrato sui sogni di libertà e liberazione dopo il trauma della Shoah. Protagonisti di quest’ultimo evento, la cantante Shulamit Ottolenghi, il compositore e trombettista Frank London e il pianista e produttore Shai Bachar, pianista e produttore, introdotti da Simonetta Della Seta, Direttrice del MEIS . Quattro le relazioni della mattinata, presentata e moderata dal vice Presidente della Comunità Ebraica di Ferrara, Massimo A. Torrefranca: “Sogni nella Torà” del Rav Luciano Meir Caro, Rabbino capo della Comunità ebraica di Ferrara; “Il sogno sionista di Theodor Herzl a Ferrara”, Simonetta Della Seta, Direttore del MEIS; “La scala di Giacobbe: un oratorio incompiuto di Arnold Schönberg”, Massimo A. Torrefranca; “La Torà sogna? / Sognare la Torà?”, prof. Gavriel Levi. Da un sogno concreto e possibile ha preso le mosse il Presidente della Comunità Ebraica ferrarese, Fortunato Arbib, nel suo saluto iniziale: “che i lavori nell’edificio che ci ospita finiscano presto e che quindi questa sede torni a essere viva, accogliente, luogo di ritrovo e di socialità”. Ricordiamo, infatti, che il complesso di via Mazzini 95, che ospita tre sinagoghe, gli uffici della Comunità e il Museo ebraico, è chiuso per restauri a causa degli effetti del sisma del 2012.
Sogno, comunicazione di Dio o espressione dell’uomo?
Il Rav Caro nel suo intervento ha spiegato come il sogno nella tradizione ebraica è “lo strumento usato da Dio, in maniera enigmatica, per comunicare all’uomo la propria volontà in forma di avvertimento, o come indicazione pratica, o ancora per avvertirlo su ciò che avverrà. Nella Bibbia, però, sono presenti anche interpretazioni critiche nei confronti del sogno, in quanto il sognatore sarebbe il mago, l’indovino, lo stregone”. Sempre nella Torà il sogno “è anche espressione dei desideri più profondi della persona”, quindi non di Dio, oppure sinonimo di “apertura”, e “segno, anche se molto parziale, di profezia. Altre interpretazioni molto importanti del sogno presenti nella tradizione ebraica, lo indicano come “anticipazione della morte o come discesa nelle profondità divine, o, ancora, come albero della vita”. Un’ultima esegesi, ha concluso Rav Caro, descrive la vita narrata in Genesi come “mondo dei sogni, imprecisio, mentre quello successivo, normativo, dopo la rivelazione di Dio a Mosè sul Monte Sinai e la consegna dei Dieci Comandamenti e della Torà, è quello davvero reale, dove l’uomo inizierà a vivere nella consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti di Dio e delle altre persone”.
L’utopia concreta (e ferrarese) di Theodor Herzl
“Se il sogno è ciò che dà possibilità di cambiamento”, ha spiegato invece Della Seta, proprio da un “sogno” è stato incitato Theodor “Beniamino” Herzl (1860-1904) (prima foto in basso), giornalista, scrittore e avvocato ungherese naturalizzato austriaco, padre del sionismo e dello Stato Israele, da lui, appunto, preconizzato e progettato nella sua celebre opera “Lo Stato ebraico” (1896). “Dobbiamo vivere come uomini liberi nella nostra terra”, scriveva. Fondamentali per la sua decisione furono i progrom di cui erano vittime gli ebrei nell’est Europa (l’antisemitismo violento), e, in Francia, l’affaire Dreyfus, caso di antisemitismo sottile, intellettuale, ma non meno grave. Un sogno, il suo, che passa anche da Ferrara. Nel 1904 Herzl, infatti, viene in Italia per tentare di avere un colloquio diplomatico sia col re Vittorio Emanuele III sia con papa Pio X, al fine di convincerli della bontà del suo progetto. Due incontri assolutamente fondamentali, resi possibili dall’intermediazione dell’avvocato ferrarese Felice Ravenna (1869-1937), figlio di Leone, residente in via Voltapaletto. Nei suoi diari parla dell’“amico Ravenna” e dei suoi famigliari, persone dai “cuori molto caldi”. Herzl e Ravenna si scambiarono ben 17 lettere tra il 1902 e il 1904. Mentre il re esprime positività nei confronti del sionismo, il pontefice è netto nella sua contrarietà al progetto di uno Stato ebraico: “gli ebrei – era il suo pensiero – non hanno riconosciuto nostro Signore”, quindi “non possiamo riconoscere lo Stato ebraico”. Non poche critiche i sionisti ricevettero anche da giornalisti e politici italiani, nonostante in quel periodo, ad esempio, 18 erano i parlamentari ebrei nel nostro Paese, fra cui Giacobbe Isacco Malvano, meglio noto come Giacomo Malvano (1841-1922), che fu in contatto con Herzl.
Musica, una scala che eleva a Dio
Della figura e dell’opera di Arnold F. W. Schönberg (1874-1951), compositore ebreo austriaco naturalizzato statunitense, uno dei teorici del metodo dodecafonico, ha parlato, invece, Torrefranca. Convertito nel 1908 al protestantesimo per profonda convinzione (non per opportunismo, come invece era uso fare), e tornato all’ebraismo nel 1933, iniziò a comporre l’oratorio “La scala di Giacobbe” negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale. Come nel racconto biblico, l’oratorio rappresenta una sorta di “elevazione spirituale verso Dio”, anche se fondamentale è la figura dell’Arcangelo Gabriele.
Agente di trasformazione, strumento contro la “dimenticanza”
Gavriel Levi ha, invece, riflettuto su come il sogno notturno “condensa desideri e censure verso gli stessi, quindi i conflitti profondi della persona”, e come dunque sia “un continuo racconto di se stessi, sempre aggiornato dalle spinte dell’esistenza”. Inoltre, “come la Torà scritta è quasi insignificante senza la cosiddetta Torà orale, cioè senza le interpretazioni, così il sogno coincide con la sua interpretazione, quindi anche con chi lo interpreta”. Levi ha poi analizzato i sogni nella vita del patriarca Giuseppe, figlio di Giacobbe, nipote di Isacco, bisnipote di Abramo: due sogni è Giuseppe a farli (quello dei covoni, e quello del sole, della luna e delle stelle). Negli altri casi, invece, Giuseppe è interprete di sogni altrui: prima quelli del coppiere e del panettiere coi quali divide la prigionia in Egitto, poi del faraone stesso. Questa sequenza, per Levi, dimostra bene il passaggio di Giuseppe “dal pensare se stesso all’interagire con gli altri e dunque, ancora più in grande, all’intero Egitto”, e, aspetto importante, “preannuncia l’esilio e la schiavitù del popolo d’Israele, conditio sine qua non per diventare popolo. Per essere ebrei, insomma, bisogna passare per la schiavitù, per la perdita di legami”. In conclusione, questo significa che, “qualunque avvenimento tragico possa accadere, la vita fiorirà”, ha spiegato il relatore. Fondamentale è, perciò, il sogno, che “ci evita la dimenticanza, ci permette di ricordare le cose nuove, ci mette in crisi, dicendoci qualcosa di importante su noi stessi. Sta a noi, dunque, usarlo come agente di trasformazione, di liberazione”.
Andrea Musacci
Pubblicato su “la Voce di Ferrara-Comacchio” il 20 settembre 2019
http://lavoce.e-dicola.net/it/news



Quando si parla del periodo delle leggi razziali, è importante parlare delle sofferenze patite da ciascuno dei 50mila ebrei in Italia, dei rischi che correvano, da ciò che gli è stato portato via (tutto), da ciò che gli è stato restituito dopo (poco), e del fatto che il Parlamento non ha mai chiesto loro scusa”. Non ha usato giri di parole Fabio Isman, giornalista e saggista (che in passato si è occupato tanto anche di terrorismo), lo scorso 22 gennaio al MEIS di Ferrara in occasione della presentazione del suo libro “1938. L’Italia razzista” (Il Mulino, 2018). Le leggi razziali in Italia, precedute da un censimento – una vera e propria schedatura “essenziale per chi dopo andrà a prelevarli per deportarli nei campi di concentramento” -, e anticipate da una violenta campagna antisemita, esclusero gli ebrei dalla scuola, dal lavoro, dalla vita civile e sociale. Isman ha compiuto una capillare ricerca in diversi archivi sul territorio nazionale (ma “il lavoro sarebbe infinito…”, ha spiegato lui stesso) per portare a galla informazioni, aneddoti, storie di persone in carne e ossa sentitesi all’improvviso stranieri indesiderati nel luogo dove vivevano, tranquillamente, da cittadini. “La persecuzione contro di loro – ha spiegato Isman – in Italia non è stata, come dicono alcuni, ‘all’acqua di rose’, ma durissima, ed è iniziata non nel ’43, ma nel ’38”. E’ infatti, pubblicato il 14 luglio del ’38, col titolo “Il fascismo e i problemi della razza”, su “Il Giornale d’Italia”, il Manifesto degli scienziati razzisti o Manifesto della razza. Firmato da alcuni dei principali scienziati italiani, il Manifesto diviene la base ideologica e pseudo-scientifica della politica razzista dell’Italia fascista. Tra i firmatari vi è il medico Nicola Pende (al quale è ancora intitolato un Istituto Comprensivo, il Gramsci-Pende, a Bari). Pend nel ’38 sostenne pubblicamente “la necessità di evitare il matrimonio con individui di stirpe semitica, come sono gli ebrei, i quali non appartengono alla progenie romano-italica, e soprattutto dal lato spirituale, differiscono profondamente dalla forma mentis della nostra razza”. E’ di pochi mesi successivo – del 17 novembre – la promulgazione del decreto governativo n. 1728, “Provvedimenti per la difesa della razza italiana” – anche se sono 420 in totale, fino al 1945, le norme e i decreti razzisti emanati in Italia, “che il re sottoscrisse senza vergogna. Queste norme razziste – ha proseguito lo scrittore – sono state l’anticamera della Shoah”. Insomma, “molti italiani non erano affatto ‘brava gente’ ”, e lo dimostrano, ad esempio “le istanze ai prefetti, dove nostri connazionali chiedevano, per citarne una, se potevano occupare appartamenti requisiti dopo il ’38 a ebrei”, senza nessun scrupolo al riguardo. Nel ’39 nasce l’Ente di Gestione e Liquidazione Immobiliare (Egeli), con sede a Roma e guidato da un presidente e da un consiglio d’amministrazione nominati direttamente da Mussolini, chiuso definitivamente solo nel 1997. “Agli ebrei presero tutto – sono ancora parole di Isman -, non si contano le ruberie e le razzie ai loro danni, con schedatura dei loro beni di una minuzia straordinaria. Dopo il censimento, gli ebrei dovevano autodenunciarsi alle autorità, dichiarando di appartenere alla ‘razza ebraica’ ”. “Papa Pio XI fu uno dei pochi oppositori alle leggi razziali, ma molti dei parroci erano assolutamente favorevoli”, ha proseguito. “Pio XI scrisse un’enciclica contro fascismo e nazismo, mai pubblicata dal suo successore, la trovarono sul suo comodino quando morì”. Si tratta di Humani generis unitas (Sull’unità del genere umano), che conteneva una condanna categorica dell’antisemitismo, del razzismo e della persecuzione degli ebrei. Fu invece pubblicata l’enciclica di Pio Xi del ’31, “Non abbiamo bisogno”, a difesa dell’Azione Cattolica, dove il Pontefice scrive: “[il fascismo è] una vera e propria statolatria pagana, non meno in contrasto con i diritti naturali della famiglia che con i diritti soprannaturali della Chiesa”. Isman ha poi proseguito sottolineando ad esempio come le discriminazioni antiebraiche iniziarono dalle scuole: “prima vennero espulsi infatti insegnanti e studenti, alcuni di loro finirono ad Auschwitz, come Enrico e Luciana Finzi”, iscritti al Liceo classico “Giulio Cesare” di Roma, deportati ad Auschwitz il 16 ottobre 1943, e mai tornati. “Espulsi dalle scuole furono anche i libri di testo di 114 autori ebrei. Grazie alle norme razziali – proseguendo -, gli ebrei venivano ad esempio anche tolti dagli elenchi telefonici, non potevano più praticare più l’arte fotografica…”. “Oltre 40 ebre italiani” non resistettero a questo clima d’odio assurdo, e si suicidarono. Tra questi, Giuseppe Jona, medico veneziano, dal giugno 1940, anche se non ebreo praticante, alla guida della comunità israelitica locale. Dopo l’8 settembre 1943 scelse di rimanere a Venezia come riferimento per chi non voleva o non poteva fuggire. Di fronte alla richiesta delle autorità tedesche di consegnare una lista aggiornata degli ebrei rimasti in città, Jona il 14 settembre redasse il proprio testamento, lasciando gran parte dei suoi beni ad opere sociali e caritatevoli, e tre giorni dopo si tolse la vita, dopo aver distrutto ogni documento in suo possesso che potesse rivelare l’identità e il domicilio degli ebrei veneziani. Fra alcune altre storie da non dimenticare, citate da Isman, vi è quella del primo deportato italiano, Renzo Carpi, mantovano residente a Bolzano, e quella di Renato Terracina, fra i 4.450 ebrei che si sono salvati garzie all’accoglienza trovata in 180 strutture ecclesiali cattoliche.
“Le musiche…interrotte. Musica, canti e passi nella Memoria” è il nome dell’evento svoltosi nella tarda mattinata di domenica 27 gennaio in piazza Municipale a Ferrara. Organizzata dall’associazione Musijam col patrocinio del Comune di Ferrara, ha visto come protagonisti circa 150 studenti e studentesse dell’Istituto Comprensivo “C. Govoni” (nello specifico, della Scuola secondaria Tasso e della Scuola primaria Poledrelli) accompagnati dall’Orchestra del Baluardo diretto da Elio Pugliese e dal Vocal Ensemble sotto la guida di Marco Ferrazzi. “Nei tre mesi di preparazione delle danze, i bambini coinvolti – ci spiega Patrizia Pazi di Musijam – hanno risposto con gioia ed entusiasmo, in particolare quelli stranieri, grazie all’aiuto di Isabella Gallesini”. Si tratta di tre danze tradizionali ebraiche (…), che in genere fanno riferimento all’area centro-orientale europea, in Yiddish o ebraico antico, con musiche medievali, moderne, non senza contaminazioni contemporanee. “Un evento, ci spiega ancora la Pazi, che vuol essere un momento di inclusione e dialogo importante, per far memoria e per costruire qualcosa di diverso nella solidarietà e nella comunione”. “Abbiamo cercato di evitare un – comprensibilissimo – approccio ’luttuoso’ al Giorno della Memoria – spiega invece Pugliese -, cercando di spostare l’attenzione sulla quotidianità della comunità ebraica – dove l’orchestra e la danza erano due elementi fondamentali -, cercando di riportarla in vita”.
Per la XXX Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra Cattolici ed Ebrei è stato scelto come tema il libro di Ester. Per l’occasione il 23 gennaio, a Casa Cini (via Boccacanale di Santo Stefano, 24/26 a Ferrara) don Paolo Bovina ha dialogato con Piero Stefani sul tema “Ester: le sorti ribaltate”, introdotti dal diacono Marcello Panzanini, Direttore dell’Ufficio diocesano ecumenismo e dialogo interreligioso. Assente per impegni imprevisti il rabbino Luciano Caro.
Un progetto storico-artistico che coinvolge diversi studenti insieme al MEIS di Ferrara, dedicato all’identità e alla memoria ebraica della nostra città. Domani alle 10.30 a Palazzo Bonacossi (in via Cisterna del Follo) verrà presentato il libro “L’identità ritrovata”, scritto e illustrato dagli studenti delle classi 2° B e 4° E, in collaborazione con la 3°A del Liceo artistico Dosso Dossi e la 3° G e 3° T del Liceo scientifico Roiti, edito anche in formato Ebook dal Comune di Ferrara.

