Tag Archives: Chiesa Cattolica

Identità e speranza tra assimilazione e inculturazione: dialogo fra cattolici ed ebrei al MEIS

18 Feb

Partendo dall’esilio babilonese, confronto tra rav Caro e don Bovina. Con un occhio alle migrazioni contemporanee

Difesa della propria identità, del proprio credo e, dall’altra parte, la necessità di conservare la speranza senza alienarsi nel luogo dell’esilio.

Su questo difficile equilibrio si è mossa la discussione svoltasi nel pomeriggio del 10 febbraio in occasione della 33° Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei.

Nel bookshop del MEIS si sono confrontati il Rabbino capo di Ferrara rav Luciano Caro e don Paolo Bovina, biblista e Direttore di Casa Cini, moderati dal Direttore del MEIS Amedeo Spagnoletto. Tema del confronto, la “Lettera agli esiliati” del profeta Geremia (Ger 29,1-23). La registrazione video dell’incontro è disponibile sul canale You Tube “UCS Ferrara-Comacchio Ufficio Comunicazioni Sociali”.

Non chiudersi né assimilarsi

«“Quando settant’anni saranno compiuti per Babilonia, io vi visiterò e manderò a effetto per voi la mia buona parola facendovi tornare in questo luogo. (…) Vi farò tornare dalla vostra prigionia; vi raccoglierò da tutte le nazioni e da tutti i luoghi dove vi ho cacciati”, dice il Signore; “vi ricondurrò nel luogo da cui vi ho fatti deportare”» (Gr 29, 10-14) 

Geremia, uno dei quattro grandi profeti d’Israele, nato verso il 650 a.C. vicino Gerusalemme, iniziò il suo ministero profetico sotto il regno di Giosia. Uomo mite, fu chiamato ad una missione profetica molto dura: quella di essere l’annunciatore e il testimone della rovina di Gerusalemme e del regno davidico di Giuda. In quegli anni scompariva definitivamente l’impero Assiro e si riaffermava la potenza di Babilonia, specie con il re Nabucodonosor, che fece pesare la sua autorità in Palestina. Geremia fu sempre contrario ad un’alleanza del popolo d’Israele con l’Egitto, consigliando sottomissione alla potenza babilonese. Gli avvenimenti gli diedero ragione. L’esilio o cattività babilonese – la deportazione a Babilonia dei Giudei di Gerusalemme e del Regno di Giuda al tempo di Nabucodonosor II – durò circa 70 anni.

Ma in questi decenni, come dimostra il passo sopracitato di Geremia, «Dio non si dimentica del suo popolo, che rimane nelle Sue mani, rimane quindi storia di salvezza», ha riflettuto don Bovina. «Dio non perde il controllo della storia, accompagnando il suo popolo ovunque». Al tempo stesso, però, questo «forte messaggio di speranza» impedisce agli ebrei di vivere come «alienati» il loro periodo di esilio («Costruite case e abitatele; piantate giardini e mangiatene il frutto; prendete mogli e generate figli e figlie; prendete mogli per i vostri figli, date marito alle vostre figlie perché facciano figli e figlie; moltiplicate là dove siete, e non diminuite. Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il Signore per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene» – Gr 29, 5-7). È importante, quindi, per don Bovina, «il vivere il presente, il luogo nel quale ci si trova, nonostante tutte le difficoltà. E questo fa venire in mente le parole di Papa Francesco sulla pandemia, pronunciate a fine maggio 2020: “peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi”». 

Spagnoletto, pur condividendo la posizione di fondo di don Bovina, ha sottolineato come non si debba dimenticare che per gli ebrei «l’esilio è segno di un castigo divino, e rappresenta il rischio dell’assimilazione, della perdita della propria tradizione, del proprio credo, della propria identità». Lo stesso invito “moltiplicatevi tra voi”, ha incalzato rav Caro, «è un invito a non assimilarsi. L’esilio è la cosa peggiore che può capitare agli ebrei, e a ogni popolo. Lo vediamo oggi con le migrazioni, quanti drammi e sofferenze portano a chi è costretto a lasciare la propria terra».

«Rinunciare alla propria identità in esilio sarebbe qualcosa di totalmente negativo, come gli stessi profeti dicono», ha ribattuto don Bovina. «Detto ciò, sarebbe sbagliato anche chiudersi in una fortezza e non essere sale, luce, lievito della terra che si abita, tutte categorie, per la nostra Chiesa, della missionarietà». Parole rafforzate dal breve intervento del nostro Arcivescovo, che ha assistito all’incontro: «è importante il concetto di inculturazione, cioè il rileggere l’identità dentro un contesto nuovo, particolare. Le migrazioni oggi, pur nelle sofferenze, debbono sempre portare con sé la cura di queste persone e quindi un messaggio di speranza».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 18 febbraio 2022

https://www.lavocediferrara.it/

(Foto: da sx, Spagnoletto, rav Caro, don Bovina e mons. Perego)

«Sinodo, cammino da aprire a chi è fuori. Ma le difficoltà sono tante»

9 Feb

L’incontro dei Coordinatori diocesani: confronto tra una 40ina di persone. Sabato 12 febbraio la Giornata del Laicato dedicata al Sinodo

Da Vigarano a Comacchio, da Pontelagoscuro a Santa Maria Codifiume. Gli estremi della nostra Diocesi si sono toccati per una sera, in occasione del secondo incontro dei Coordinatori del Sinodo.

Una bella immagine di comunione, di desiderio di confrontarsi, di guardarsi negli occhi e lasciarsi interrogare. Il 4 febbraio una 40ina di persone si sono collegate con don Michele Zecchin, Responsabile per il Sinodo in Diocesi, e con altri presenti nella chiesa di Sant’Agostino.

Don Zecchin ha introdotto illustrando brevemente alcune delle tappe dei prossimi mesi, a partire da quattro incontri nel periodo quaresimale che vedranno coinvolti l’Associazione Viale K, i Ricostruttori nello Spirito, Comunione e Liberazione e la Città del Ragazzo. Appuntamenti di cui vi parleremo in modo più dettagliato più avanti.

Circa a metà aprile, poi, dovrebbe avvenire la consegna dei risultati dei vari gruppi di lavoro, di cui il Coordinamento diocesano farà una sintesi che invierà, come tutte le Diocesi, ai Vescovi italiani. Sintesi che, ha proposto Cecilia Cinti, può essere anche inviata ai gruppi e diffusa nell’intera Diocesi (proposta, questa, subito confermata da don Zecchin).

Il percorso sinodale, pur andando avanti, di certo non procede senza ostacoli. I motivi sono diversi e intuibili: l’emergenza sanitaria che rallenta e rende difficili gli incontri, la disaffezione diffusa verso la Chiesa, le divisioni e le incomprensioni all’interno della Chiesa stessa. Ma il Sinodo – come ha detto Patrizia Trombetta dell’equipe sinodale – «è un’esigenza, un’urgenza. Dobbiamo cercare di suscitare entusiasmo e speranza nelle persone». 

Invito raccolto: «stiamo vivendo una bella esperienza di confronto tra parrocchiani dell’Unità pastorale», ha riferito don Luciano Domeneghetti di Ostellato. «C’è voglia di raccontarsi ed è importante riscoprire la bellezza del dialogare e del ritrovarsi, soprattutto in presenza. C’è sconforto ma anche desiderio di un cammino di comunione». Importante è che «questo confronto non arrivi solo agli “addetti ai lavori”: la percezione è che coloro che non vivono un cammino di fede, non siano dentro questo dinamismo». 

«Nell’Unità pastorale Borgovado – ha spiegato Daniela Salvi – abbiamo pensato di concentrarci su due categorie: le famiglie giovani che si stanno avvicinando alle parrocchie, e i giovani che sono passati nelle nostre parrocchie ma che poi le hanno lasciate, non trovando altrove alternative, luoghi di speranza». 

Un’altra “categoria” di persone da cercare di riavvicinare è quella dei genitori dei bambini del catechismo, «la maggior parte dei quali non frequenta la Chiesa», ha riflettuto Rita da Pilastri-Burana. «Anche noi stiamo cercando di avvicinare questi genitori», ha spiegato don Stefano Zanella della parrocchia cittadina dell’Immacolata. «Abbiamo pensato di fare un incontro con loro dopo avergli inviato alcune domande» sulla Chiesa e sulla fede, «per poi rifletterci insieme».

Un sempre difficile rapporto tra il “dentro” e il “fuori” la Chiesa, quindi, dove spesso gli stessi confini sono labili. Una tensione ben descritta da Alberto Mambelli di S. Caterina Vegri (UP dei Borghi fuori le Mura): «dobbiamo essere coscienti dell’importanza del dialogo innanzitutto fra noi nella Chiesa, per poi aprirci di più all’esterno». Apertura che significa anche «comunicazione, integrata e più incisiva», come sottolineato da Alberto Lazzarini, e rapporto con le forze sociali, economiche e del volontariato, come emerso dagli interventi di Enrico Ghetti (S. Maria Codifiume), don Zecchin e di altri.

Sempre nella consapevolezza che i “lontani” non si raggiungono con le riunioni o i grandi eventi, ma col contatto personale, al massimo con piccoli gruppi nei quali potersi conoscere e sentirsi liberi di parlare e di mettersi in gioco.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 febbraio 2022

https://www.lavocediferrara.it/

Mescoliamoci e usciamo: dibattito sul Sinodo della Chiesa

26 Gen

L’interessante confronto tra i movimenti e le associazioni della nostra Diocesi sul percorso sinodale

Mescolarsi, concretizzare, uscire. Sono questi i tre verbi che ricorrono nel confronto in atto nella nostra Diocesi sul tema del Sinodo.

L’incontro on line della Consulta delle aggregazioni laicali svoltosi lo scorso 11 gennaio (di cui in parte abbiamo già parlato nel numero scorso) ha confermato da più parti la volontà profonda di dialogare sull’anima e la missione della Chiesa, contaminandosi appunto – nel giusto equilibrio tra unità e rispetto delle differenze -, pensando a iniziative comuni e rivolgendosi, com’è nello spirito sinodale, a chi la Chiesa non la conosce, non la vive o l’ha abbandonata.

Tanti i presenti all’incontro dell’11: Massimo Minichiello (CVX), Francesca Ferretti (Agesci), Monica Rivaroli, Giorgio Maghini, Marcello Musacchi (Uffici pastorali diocesani), Pia Rovigatti (Cooperatori Salesiani), Massimo Martinucci (Unione Preghiera Beato Carlo), Franca Malini Poggi (Movimento dei Focolari), Leonardo Gallotta (Alleanza Cattolica), Alberto Mambelli, Grazia Fergnani (Rinascita Cristiana), Umberto D’Antonio, Luciano Giuriola, Chiara Benvenuti (Le Bissarre), Alice Baserga (Incontro Matrimoniale), Lorenzo Lipparini (Neocatecumenali, presenti per la prima volta), Grazia Ansaloni (Ass. Suor Veronica), Chiara Ferraresi (AC), Carlo Tellarini (CL).


Conoscersi, mescolarsi

«L’invito è a mescolarsi nel rispetto di ogni carisma ed esperienza, per far circolare le varie ricchezze o povertà verso la scoperta di una nuova forma di Chiesa», ha esordito Minichiello. Tema ripreso anche da Martinucci: «quando si parte per camminare insieme non si parte mai dall’inizio perché tutti noi stavamo già camminando, non occorre ricominciare da capo. Faccio presente che sul tema della famiglia, esiste già qualcosa che si è mescolato in questi anni: il Forum delle Associazioni Famigliari». Ferraresi ha rimarcato: «Mi piacerebbe il fatto di mescolarsi e di lavorare in piccoli gruppi», quest’ultima, fase che potrebbe partire dopo la Giornata del Laicato (GdL) di febbraio. E a proposito della GdL, Maghini ha spiegato come «la Giornata del Laicato potrebbe favorire questo incontro tra noi». Sul delicato equilibrio tra comunione e valorizzazione delle differenze, positivo è stato l’intervento di Malini Poggi: «è un’occasione bellissima per continuare a conoscerci. Questo Sinodo dovrebbe essere l’occasione per approfondire certi argomenti, per conoscerci di più e dire le nostre esperienze». «Da una parte non c’è cammino se non si tiene conto delle singole esperienze», ha incalzato Musacchi. «Dall’altro, si deve tenere conto che quello che le singole realtà fanno diventa un cammino comune, nello stile sinodale. Non è semplice, perché mettere insieme le cose non viene automatico».


Nel quotidiano

Riconoscersi, non mescolarsi, ha puntualizzato Tellarini: «è il dialogo di Cristo con l’uomo che ci interessa». «Mi piacerebbe – ha proseguito, introducendo il secondo verbo, quello del concreto dell’esperienza – che quando ci incontriamo si potesse anche entrare nel merito e fare emergere la diversità e la particolarità con cui oggi la nostra Chiesa vive l’incontro con l’uomo. Negli ambienti che viviamo quotidianamente, come la nostra presenza è segno di Cristo?». Di «lavoro costruttivo e non semplice condivisione di esperienze» ha parlato Gallotta, riflettendo anche sull’importanza di «definire verso dove vogliamo camminare e che cosa vogliamo raggiungere». Sulla stessa linea, Mambelli: «dovremmo cercare di dirci la fatica della nostra fede, la fatica dell’affrontare ogni giorno i problemi. Cosa ci aspettiamo dalla nostra Chiesa? Come noi siamo Chiesa? Dobbiamo ragionare sull’uomo di oggi».


E fuori dalla Chiesa?

Il Sinodo nasce soprattutto per ripensare nuove forme per far conoscere Cristo (e la sua Chiesa) a chi non lo conosce o lo rifiuta. «Mi ha spinto a partecipare a questi incontri l’idea di portare l’annuncio al di fuori dalla Chiesa», ha spiegato Lipparini. «Per molti la porta è chiusa, per altri è necessario mettere il piede per tenerla aperta». «Dobbiamo avvicinarci alle motivazioni di chi si è allontanato dalla Chiesa», ha ripreso D’Antonio».Un mondo spesso ostile o inesplorato è quello giovanile. «Attenzione ai contenuti che si sceglieranno, se li vogliamo vicini ai giovani», è il pensiero di Ferretti. «La Giornata del Laicato non riscuote molto successo tra i giovani, possiamo fare qualcosa?». «Certamente la nostra Diocesi ha bisogno di incontrare e capire i giovani, si gioca lì il nostro futuro e il nostro essere Chiesa», ha riflettuto Rovigatti. «Certamente, può essere il caso di leggere le tematiche del Sinodo in un’ottica di futuro e di coinvolgimento dei giovani. Occorrono rapporti e tempo, non basta invitarli alle nostre iniziative».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 28 gennaio 2022

https://www.lavocediferrara.it/

Filippo de Pisis flâneur del sacro

13 Gen
Filippo de Pisis

Il grande pittore e scrittore ferrarese raccontato attraverso un suo lato poco noto, quello di fervente cattolico. Membro di una famiglia profondamente religiosa, nei suoi libri racconta la sua fede, a un tempo mistica e popolare. La visione del Corpus Domini, l’ex voto alla Madonna e la richiesta dell’Eucarestia in punto di morte

di Andrea Musacci

Eccentrico e vanesio, omosessuale e libertino, instancabile viaggiatore senza quiete. A chi non verrebbero in mente queste definizioni per caratterizzare la personalità di Filippo de Pisis (al secolo Luigi Filippo Tibertelli), pittore e scrittore nato a Ferrara l’11 maggio 1896 nella casa al numero 61 di via Mortara, da Giuseppina Donini, di origini bolognesi, e dal nobiluomo Ermanno, terzo di sette fratelli (sei maschi e una femmina, Filippo era il terzo).

Eppure, Filippo, di famiglia cattolica, ha serbato sempre nel proprio cuore la fiamma della fede, quel fascino per il Mistero, il legame con Cristo e con la sua Chiesa. Una fede, la sua, legata molto alla memoria, ai genitori, alla sua Ferrara. Fede che non perderà mai. Una fede viscerale, fatta di radici, di nostalgia, di intensa commozione.

Nella Ferrara piccolo-borghese e perbenista – anche nel suo anticlericalismo di inizio Novecento – Filippo dava scandalo col suo abbigliamento stravagante, volutamente provocatorio, che sicuramente denotava una personalità incandescente, sensibile fino allo stremo, bisognosa di vivere di un’intensità e di una pienezza che valessero tutto il dolore, il senso di vergogna, tutti gli scherni subiti in un’intera esistenza. Un’incomprensione vissuta fin dall’adolescenza, ma che in lui non represse quel senso di incomprensione del Mistero eterno che è nelle cose, e di desiderio non di comprenderlo, ma di viverlo.

Una storia dentro la Chiesa

Il padre Ermanno appartiene alla nobiltà vaticana, da giovane era stato cameriere segreto di cappa e spada del pontefice Leone XIII, ed è patrono dell’Istituto delle Povere Figlie delle S.S. Stimmate. In quegli anni di già forte anticlericalismo, Filippo inizia a sentirsi un diverso. E in più lui e la sua famiglia vengono mal giudicati da molti cattolici critici verso l’amico Giovanni Grosoli che tenta di superare il non expedit papale. Luigi Filippo, chiamato Gigi in famiglia, non frequenta scuole pubbliche o collegi, ma i suoi studi, come quelli dei suoi fratelli, sono affidati ad alcuni precettori (tra cui mons. Campi del Seminario di Ferrara) che ne curano l’educazione a casa. Ernesta, l’unica sorella, di appena un anno maggiore di lui, ha una notevole importanza nella sua formazione.

L’educazione religiosa che riceve è totale. Fra i giochi dei bambini, c’è un altarino in miniatura con cui lui e i fratelli possono simulare una celebrazione. Attorno al 1904 inizia a disegnare sotto la guida del professor Odoardo Domenichini. Nell’autunno 1906 la famiglia Tibertelli lascia il palazzo di via Mortara e trasferisce la propria residenza a Palazzo Calcagnini, di proprietà del conte Grosoli, in via Montebello, 33. Qui quest’ultimo, dopo la morte della moglie, ci viveva solo con la madre e gli bastava un appartamento al pianterreno, dove in altri tempi abitò il cardinale Calcagnini. Grosoli è anche presidente dell’Arciconfraternita delle Stimmate, a cui la famiglia era molto legata. Lo stesso Filippo, «non mancava mai di intervenire all’annuale processione, in cui sfilava incappucciato e con un cero in mano» (1) e compie ricerche sull’Arciconfraternita.

Fuori da casa, Filippo frequenta le Case del Popolo, istituzione fondata da Grosoli per riunire in un’unica sede le associazioni cattoliche della città. Grosoli fonda anche l’Unione Giovanile Cattolica, movimento meno confessionale dell’allora Azione Cattolica, alla quale Filippo si iscrive. Il conte lo considera un figlio adottivo e una nuova leva della cultura cattolica ferrarese e italiana. Per questo, inizia a fargli scrivere nei giornali locali di sua proprietà. A Ferrara il giovane Filippo tiene le sue prime conferenze, prima su argomenti religiosi e poi sull’antica cultura ferrarese. Famigliarizza un po’, in questo ambiente, con Italo Balbo, di umile famiglia cattolica: «veniva a trovarlo per farsi fare i temi d’italiano e per giocare a palline con tutti noi», ricorda il fratello (2).

Come racconta Zanotto (3), da adolescente scrive per sé dei “Propositi morali” come questo: «Esser puro e non macchiare la mia coscienza e la purezza dell’anima con schifose macchie di colpe abominevoli». Negli anni successivi, allontanandosi dal cattolicesimo, scrive “Le visioni di un agnostico”, opera filosofica di carattere esoterico.

Epifanie ferraresi

Ne “La città dalle 100 meraviglie” (4), pubblicato per la prima volta a Roma nel 1923, ma ambientato nella Ferrara del 1917 e degli anni immediatamente successivi, prima del trasferimento nella capitale, de Pisis racconta di questo suo legame viscerale con la “città metafisica”. La residenza dei de Pisis in via Montebello si trova di fronte alla chiesa di Santo Spirito, allora retta dai Frati Minori: «Rinchiudendo il battente del portone del palazzo dove abito – scrive – ò visto la chiesa secentesca chiara sotto il cielo nuvoloso, tenera, patetica, parallelepipeda. Una leggera vertigine forse mi à preso e il desiderio di sole occiduo, e, sotto l’androne, delle grosse scale rosse e bianche e dei pali alzati contro le pareti, con le ombre nere precise mi ànno incantato come uom nuovo sulla terra. Ho fatto in fretta gli scalini perché sentivo quasi la testa girarmi» (5).

Racconta il fratello Pietro (6): «Da nostro padre aveva anche ereditato il sentimento religioso rimastogli sempre vivo, che lo spingeva sovente a entrare in chiesa a godersi l’ombra delle navate, la luce rossastra delle candele accese sugli altari, il profumo dell’incenso sempre presente nell’aria, e tutto l’apparecchio sacro che stimola la mistica pietà». «Stamattina, prima chiara e azzurra di questo autunno clemente, sono entrato nella linda chiesina delle Cappuccine. Non c’era nessuno», scrive Filippo riferendosi alla chiesa di Santa Chiara in corso Giovecca (7).

O, nella non lontana chiesa di San Carlo, scrive ancora (8), «il pellegrino, il sognatore guarda e il cuore gli si gonfia, il respiro gli si fa affannoso. Egli sente che la vita è sogno e contemplazione per chi voglia dimenticare il gramo corpo e forse, senza accorgersene, si getta in ginocchio sul gradino di marmo rosso di Verona o sulla tomba illagrimata e mestissima di qualche antico e si mette a pregare. E le campane suonano nella città triste». Flânuer del sacro, de Pisis nello stesso libro racconta anche dei «rosei ippogrifi leonini del duomo» che «mi guardano talora con grandi occhi rotondi sporgenti, dilatati in un loro vago millenario dolore. Con la loro solidità massiccia mi confortano».

Un’altra apparizione lo coglie sulle Mura cittadine: «in un ardente pomeriggio estivo (i castani d’India son tutti verdi e fioriti) in un viale più deserto, sulle mura di “Porta degli Angeli”, ti capita invece di trovare un foglietto rigato di quaderno dove con grafia chiara, femminile, un po’ torta, trovi scritto: Lezione 5° – (Il tempo e il modo della Risurrezione)» (9). Seguono gli appunti da lui meticolosamente trascritti. «Tu quasi non credi ai tuoi occhi. Quelle parole profetiche e misteriose ti sembrano riecheggiare intorno nell’aria pulita. Il rosignuolo canta monotono nella siepe, e la cicala trilla e i piccoli coleotteri nascosti fra l’erba tenera e i fiorini colorati, ma a te sembra che squillino trombe lucenti nel sole, sopra il grande campo dei morti, sopra i pennoni della Certosa rossa e solenne. Trombe che vengono a scuotere gli spiriti dal letargo (gli uomini dormono nelle loro camere buie sui letti sfatti), a scuotere dalle fondamenta la città pentagona. A glorificare il tuo spirito che vigila».

Il Corpus Domini: «O antiche processioni, tornate…»

Ma una visione in particolare dice della profonda affezione di de Pisis a Cristo e alla sua Chiesa, come Mistero, sacramento, storia concreta: «Nella via più lunga e maestosa della “città nobile” (Corso Ercole I d’Este, ndr)» De Pisis nota a lato del marciapiede «alcuni pezzi di marmo bianco con un vuoto parallelepipedo nel mezzo; servivano per infiggervi le aste che reggevano il telone per la solenne processione del Corpus Domini». Memorie antiche che rievoca nella propria fantasia. Egli rivive la processione del SS. Corpo e Sangue di Cristo «fra nugoli d’incenso e tremolar di torce accese», «crani e barbe lucenti, tremule bocche oranti, la porpora del Cardinale e l’oro dell’ostensorio e delle cappe ricamate e il bianco dei rocchetti inamidati». «Hai tanto bisogno – prosegue –, in quest’aria vile e cieca, d’amore, di canti, di fede, di credere in qualcosa almeno, di risentire sia pure l’aria patetica e implorante del Te Deum o del Vexilla che ti fasci l’anima dolcemente, come la carezza della madre: perché, senza spirito, l’uomo non vive e la carne, anche satollata, infine si ribella, perché non si vive, in questa città metafisica e religiosa, senza canti e senza campane».

«O antiche processioni, tornate», continua con forte struggimento: «non solo il poeta, ma l’uomo buono, che si macera per l’amore che non trova, vi invoca; oh, antiche processioni, tornate e tu torna o Cristo almeno in immagine a benedire il tuo popolo, così egli creda, fermamente creda per la sua salvezza che Tu sei vivo e presente, nella specie del Pane consacrato e lanci la sua voce a benedirti

“O vivo Pan del Ciel Gran Sacramento!”

“Insegnami, o Signore, a portare la tua Croce, perché essa sia, più che peso, sostegno”.

“Magnìficat ànima mea Dòminum

et exultavit spìritus meus in Dèo salutàri meo…

…Fecit potentiam in brachio suo; dispèrsit superbo mente cordis sui”.

Qual canto più puro, più solenne, più consolante?» (10).

Ho voluto citarlo quasi integralmente per renderne quanto possibile l’intensa passione mistica. È una visione che forse de Pisis attinge anche dalla memoria delle processioni annuali davanti a S. Spirito ogni anno in occasione della festa di Sant’Antonio. Riflettendo sul Risorgimento subito dopo scrive: «Sangue e lotta dunque ci vuole per redimere il mondo!? Ma sangue che lavi, che purifichi, non sangue che sia seme d’odio». E ripensa alla visione del Corpus Domini: «e tu, lo scettico, il frigido, l’ironista, ti trovi ad aver gli occhi pieni di lagrime e un brivido per tutta la persona…».

L’ex voto a Rimini

In uno dei suoi frequenti momenti di depressione in cui si sente «anche più misero e tristo del solito» (11) – nel settembre 1941, mentre è in villeggiatura a Rimini -, gli viene un’idea: «dipingere una specie di tavoletta votiva, come quelle che si vedono nei santuari attorniare l’immagine venerata della Vergine (…). In alto la Vergine sul dolce sfondo di cielo che apre il mantellone, pronta nella sua infinita misericordia ad accogliere anche il più indurito peccatore, purché sinceramente pentito; ai suoi piedi io in ginocchio a mani giunte indossando la veste di confratello della S. S. Stimmate (antica e gloriosa confraternita di Ferrara alla quale ò l’onore di appartenere)». Già si vede «come un povero bimbo derelitto, sotto il grande manto. Quasi mi venivano le lacrime agli occhi». La tavoletta non solo la realizzerà – inserendoci anche il suo amato pappagallo Cocò – ma la donerà al vicino convento di Santa Maria delle Grazie dei frati minori di S. Antonio: «pensai di regalarla (già più volte il gentile direttore mi aveva chiesto qualcosa) al piccolo museo annesso a un convento di un santuario celebre su un ridente colle, non lungi dalla città. Allora il demone della fantasia (…) si destò. Bisogna organizzare una processione!». L’opera si ispira al “Polittico della Misericordia” di Piero della Francesca (1445-1462 ca.).

Questa sua tavoletta, “Ex voto alla Madonna delle Grazie” (“Mater Dei ora pro me”) era griffata, nel retro, Philippus De Pisis fecit in Arimino A. D. MCMXLI – Mater Dei ora pro me. Donato per p. al Museo delle Grazie VII.IX-1941. Purtroppo, però, fu rubata dal Museo nella notte tra il 16 e il 17 settembre 1985. Fu un furto mirato, in quanto null’altro fu sottratto. Non fu mai più ritrovata. L’opera fu anche esposta nella 2^ Mostra nazionale d’arte sacra contemporanea – Premio Fratelli Canova a Bologna, dal 1° ottobre al 1° novembre 1956 (12).

Eucarestia in punto di morte

Una fede sincera, umile, quella di de Pisis, con venature mistiche. Espressa nel silenzio non per paura del giudizio altrui, ma nella consapevolezza che fosse qualcosa di tanto bello, puro e vero che andasse preservato, di cui prendersi cura senza vanti.

Una fede schietta e profonda, fatta di un immaginario artistico-popolare attinto a piene mani, a occhi sgranati nelle chiese semibuie e silenti della sua Ferrara, città non più pontificia ma in cui l’eco di secoli di forte e chiara religiosità si propaga ancora negli animi come il suo, che alla grettezza del materialismo non volevano cedere. Una religiosità, quella di de Pisis, che mai scade nella piaggeria o nell’intellettualismo, che sempre si immerge nel grande mare della pietà, del perdono (la stessa pietà che chiedeva agli altri), dell’anelito che vorrebbe farsi grido d’amore a Dio, e lo diventa, ma senza dare inutile scandalo, continua prova di sé.

Il 17 aprile 1948, quand’è già malato, scrive: «Aiutami o Signore a portar la mia croce perché essa sia più che peso, sostegno». Negli ultimi tempi si sente sempre più depresso, dice di meditare anche il suicidio. Una depressione che l’ha sempre accompagnato e che da giovane gli fa scrivere pensando alla sua vecchiaia: «Mi figurerò in qualche chiesa taciturna fresca d’estate, tepida d’inverno e aspetterò con l’animo scarnito e con la bocca amara la fine» (13).

«Un giorno dei suoi ultimi (circa due mesi dopo sarebbe morto) – scrive il fratello Pietro (14) – lo trovai insieme con padre Favero (o Favaro?), venuto a porgergli i saluti di padre Poggeschi che, prima d’entrare nella Compagnia di Gesù, era stato pittore a Parigi; stavano recitando la poesia “Benedizione”, dedicata alla mamma (…). Alla fine, gli occhi velati di tenere lacrime, Gigi disse che avrebbe desiderato accostarsi all’Eucaristia invaso da quei ricordi». Per la madre, dopo la sua morte, fa celebrare ogni anno una Messa di suffragio.

Affetto da un’irreversibile malattia psichica, de Pisis viene internato spesso in manicomio. Polinevrite è ciò che gli viene diagnosticato. Per tutta la vita deve fare i conti con questo disturbo che lo conduce alla morte il 2 aprile 1956. I funerali religiosi vengono celebrati a Milano e dopo la salma viene trasportata a Ferrara, dove arriva alla Certosa. Il 5 aprile avviene il funerale solenne nella sua città, con il feretro portato a spalla dagli allievi del Dosso Dossi. Pochissime persone assistono alle esequie.

(1) “Filippo de Pisis ogni giorno”, Sandro Zanotto, Neri Pozza, Vicenza, 1996.

(2) “Mio fratello de Pisis”, Pietro Tibertelli de Pisis, Guarnati, Milano, 1957.

(3) “Filippo de Pisis ogni giorno”, op. cit.

(4) “La città dalle 100 meraviglie”, Filippo de Pisis, Abscondita, Milano, 2009.

(5) Ibid.

(6) “Mio fratello de Pisis”, op. cit.

(7) “La città dalle 100 meraviglie”, op. cit.

(8) Ibid.

(9) Ibid.

(10) Ibid.

(11) “Confessioni”, Filippo de Pisis, Le lettere, Firenze, 1996.

(12) Fonte: Provincia Sant’Antonio dei Frati Minori, Bologna.

(13) “La città dalle 100 meraviglie”, op. cit.

(14) “Mio fratello de Pisis”, op. cit.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 14 gennaio 2022

https://www.lavocediferrara.it/

Vera comunione senza ipocrisie

13 Gen

Una riflessione sull’unità nelle differenze all’interno della Chiesa

di Andrea Musacci

Il card. Zuppi nelle esequie per mons. Negri ha riflettuto molto sul tema della comunione nella Chiesa. Una scelta maturata, immaginiamo, nella consapevolezza di quanto sia forte oggi (anche nella nostra comunità locale), la tendenza ad accentuare le diversità fino a trasformarle in solchi insormontabili, in incomprensioni aprioristiche, in mancanza di curiosità, di quello spirito fraterno che, se viene meno, ci porta a vedere l’altro – a partire dal fratello o dalla sorella nella Chiesa – come semplicemente in errore e non, invece, come un “pungolo”, un’alterità necessaria. Se qualcosa ci ha insegnato mons. Negri nel suo breve periodo a Ferrara, è stata questa postura. Scomoda, certo, fatta di possibili fraintendimenti, di lontananze di visioni, di scontri. Ma, come diceva Victor Segalen, poeta e medico viaggiatore, «non c’è mistero in un mondo omogeneo».

Precisiamo subito un punto. La divisione fatta di rancore, nella mancanza di curiosità e desiderio dell’altro, viene dal demonio. È quella di cui tante volte ha parlato Papa Francesco: «Non andiamo sulla strada delle divisioni, delle lotte tra noi, no! Tutti uniti, tutti uniti con le nostre differenze, ma uniti, uniti sempre, che quella è la strada di Gesù! L’unità è superiore ai conflitti, l’unità è una grazia che dobbiamo chiedere al Signore perché ci liberi dalle tentazioni della divisione» (1). Nella Messa per il Palio del 2016 mons. Negri – parlando in generale, ma il discorso era rivolto anche alla comunità ecclesiale – sottolineò l’importanza di amare la propria storia di popolo «per costruire una società meno disumana, che accolga le diversità nell’impegno di maturare un cammino comune nella chiarezza dell’identità».

Ma lo stile del cristiano – dentro la Chiesa (e non solo) – non è nemmeno quello ammantato di ipocrisia, di facili consensi, di convivenze vissute forzatamente. Il suo modello dev’essere quello del poliedro. Scrive il Papa in Evangelii Gaudium che il poliedro «riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (n. 236).

No alle divisioni, quindi, che feriscono il corpo di Cristo, ma nemmeno alle false unità che non fanno crescere ognuno di noi e le nostre comunità.

La Chiesa, dunque, deve vivere di un’inquietudine sana, utile per nascere sempre a vita nuova. Lasciamoci, quindi, trasformare dallo Spirito. Anche nei conflitti. Scriveva Michel De Certeau: «attraverso i conflitti, come un tempo mediante il fulmine, le pestilenze e le sconfitte che colpivano Israele», Dio «spezza le sicurezze, dilata gli orizzonti, rinnova la fede». «Le critiche e le divergenze – scriveva ancora il francese – rappresentano la maniera in cui ciascuno si vede opporre ciò che non sa del mondo in cui vive e ciò che non sa del suo Dio» (2). Ciò che non sa del suo Dio. Così si evitano idolatrie, competizioni, atteggiamenti arroganti.

Nella Messa del 2017 a S. Chiara per il suo amico e maestro don Giussani, mons. Negri disse: la periferia «ci viene incontro sempre, non va cercata in qualche luogo preciso ai margini delle città, ma essa è il mondo senza Dio: noi cristiani, infatti, non viviamo per rispondere solamente ai bisogni dei poveri, ma per dire Cristo, che comprende tutto, anche l’assistenza materiale».

Dire Cristo. Sta a ognuno di noi, fratelli e sorelle nella fede, provocare sempre in noi, e in chiunque incontriamo, quella scintilla perché tutti possano incontrarLo. Facciamolo uniti, pur nelle nostre dissonanze.

(1) Udienza generale, 18 giugno 2019.

(2) M. De Certeau, “Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza”, Qiqajon, Magnano (Bi), 1993.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 14 gennaio 2022

https://www.lavocediferrara.it/

Una folla per salutare Silvana: «sarai sempre una di noi»

8 Dic
Il saluto del marito Pino

Masi Torello, chiesa gremita e tredici fra sacerdoti e diaconi per l’addio alla scultrice Grilanda. La promessa del Sindaco: «Le opere che ci ha lasciato verranno onorate»

Un’intera comunità, quella masese, e una grande famiglia, quella dell’Arcidiocesi, ieri pomeriggio hanno dato l’estremo saluto a una figlia affezionata. La chiesa di Masi Torello era gremita per i funerali di Alberta Silvana Grilanda, scultrice e artista poliedrica, membro del coro parrocchiale “Ruah”, per tanti anni impegnata nelle più disparate iniziative artistiche, culturali e religiose in paese e a Ferrara, deceduta all’improvviso lo scorso giovedì a 68 anni.

Alberta Silvana Grilanda

«Silvana non è morta di vecchiaia ma per le sofferenze interiori», lei donna sensibile «sempre vicina ai dolori e alle povertà delle persone», ha riflettuto nell’omelia il parroco e amico don Giuseppe Crepaldi che ha celebrato insieme ad altri 12 fra diaconi e sacerdoti, tra cui il Vicario generale mons. Massimo Manservigi. «Era impegnata nella famiglia e aveva una grande fede, il suo volto era sempre gioioso, mi era stata molto vicina anche quando ero stato operato di cataratta». Con commozione don Crepaldi alla fine della cerimonia ha confidato: «mia è la gioia e insieme il pianto: pianto per un dispiacere così grande, gioia nel vedere così tanta solidarietà. Grazie, sarai sempre una di noi».

«Oggi sono qui soprattutto come “Riccardo”: così Silvana mi ha sempre chiamato, fin dai primi giorni da Sindaco nel 2014», ha ricordato il primo cittadino Riccardo Bizzarri. «Era intelligente, colta, intuitiva». E affidabile: «ogni volta che le veniva assegnato un incarico, ero sicuro che ne sarebbe uscito un capolavoro. Faccio una promessa – ha proseguito -: «le opere che ci ha lasciato verranno onorate, saranno la testimonianza della sua persona e un omaggio a lei. La sua morte lascia un grande vuoto in me e nella nostra comunità».

Un vuoto riempito almeno in parte dall’enorme affetto per Grilanda, per il marito Pino e il figlio Michele. Una forte riconoscenza espressa, ad esempio, nelle parole pronunciate da Renato Veronesi del Gruppo Scrittori Ferraresi, nella presenza dell’AVIS col presidente comunale di Ferrara Sergio Mazzini e di una rappresentanza della sezione locale, dell’Azione Cattolica e del gruppo diocesano dei “Genitori in cammino”, a cui Grilanda e il marito si sono uniti dopo la morte prematura del figlio Antonio nel 2004.

«Ci hai lasciato così, Silvana – è stato l’ultimo saluto del marito -, con un dolore talmente grande da essere oltre ogni immaginazione. Ma la fede ci sostiene».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Nuova Ferrara” l’8 dicembre 2021

Il saluto del Sindaco

Alberta Silvana Grilanda, una vita per l’arte e la Chiesa

6 Dic

È morta improvvisamente lo scorso 2 dicembre a 68 anni. Scultrice di Masi Torello impegnata anche nella pittura e nell’incisione, lascia il marito e un figlio. L’impegno nell’Azione Cattolica e l’appartenenza ai “Genitori in cammino”

di Andrea Musacci

Lo sgomento che diventa commozione, il dolore che, pur rimanendo, assume i tratti della gratitudine profonda e della preghiera nell’affidamento al Signore.

Ha lasciato un oceano di affetto e riconoscenza Alberta Silvana Grilanda, deceduta improvvisamente la mattina del 2 dicembre scorso a 68 anni. I funerali sono stati celebrati nel pomeriggio del 7 dicembre nella chiesa di Masi Torello, paese dove risiedeva. Scultrice impegnata anche nella pittura e nell’incisione, lascia il marito Pino Cosentino – fotografo del nostro Settimanale – e il figlio Michele, il secondo dei due avuti dalla coppia: nel 2004, infatti, morì giovane il loro Antonio, mai dimenticato, dramma che li fece avvicinare al gruppo diocesano dei “Genitori in cammino” allora guidato da mons. Mario Dalla Costa. Un’appartenenza, quest’ultima, decisiva per Silvana e Pino, ma non esclusiva all’interno della Chiesa: lei, infatti, era attiva nell’Azione Cattolica e nel Coro Ruah della parrocchia di Masi Torello, partecipava ad alcune attività del Circolo Laudato si’, si impegnava per il “Progetto diga – Emergenza Zimbawe”. Silvana amava la sua Chiesa, di cui si sentiva parte integrante e attiva, tanto da donare negli anni anche alcune sue opere: l’ultima, lo scorso maggio, la Via Crucis realizzata per la nuova chiesa di Ponte Rodoni, parrocchia guidata da mons. Dalla Costa. Ma come non ricordare, ad esempio, anche la “Madre della Sofferenza”, terracotta policroma donata a Papa Francesco; la “Via Crucis” in terracotta alla parrocchia di S. Caterina Vegri a Ferrara, “Gesù e la Madre coronati da spine” donata al Santo Padre Benedetto XVI. O il “S. Francesco”, scultura di terracotta presente nel Seminario Arcivescovile di Ferrara; “Il Signore della Vita”, paliotto di terracotta nella chiesa di Cassana; e il “S. Leonardo Abate”, altorilievo di terracotta nella chiesa di Masi Torello.

Tutte opere che Grilanda realizzava nel suo studio situato dove un tempo sorgeva l’officina del padre fabbro ferraio (foto). Opere che continuava a creare grazie a una vena artistica mai sopita: oltre a essere spesso invitata al MAF di S. Bartolomeo in Bosco, nella Galleria del Carbone di Ferrara fino al 12 dicembre una sua incisione, “La forza della terra”, è esposta nella collettiva dal titolo “L’albero della conoscenza”. Sempre col Carbone, lo scorso luglio e agosto ha partecipato a una collettiva di artisti ferraresi nella “Kreis Gallerie” di Norimberga. E col Carbone «diversi erano i progetti per il futuro», ci spiega Lucia Boni. Collaborava anche col Club Amici dell’Arte. Socia del Gruppo Scrittori Ferraresi, Grilanda lo scorso giugno è stata protagonista, con la sua opera “La Tenda”, della copertina dell’Ippogrifo. Tra le sue ultime opere ricordiamo anche l’acquerello “Villa Estense di Medelana” per la copertina del libro “La ‘mia’ Delizia” di Gabriele Barboni, da poco uscito. Innumerevoli le mostre, i riconoscimenti e le pubblicazioni in tanti anni di attività.

Tempo fa, come testimonianza della loro esperienza coi “Genitori in cammino”, Silvana e il marito Pino scrissero in un passaggio: «Gesù ci dona la capacità di andare avanti e l’angoscia, la solitudine, lo sconforto e le nostre fragilità vengono da Lui accolte, sostenute e trasformate in un cammino verso Dio». È l’augurio che rivolgiamo ai suoi cari.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 10 dicembre 2021

https://www.lavocediferrara.it/

Monastero delle Benedettine “invaso” dai giovani

29 Nov
Linda Rouhani e Caterina Brunaldi

Sant’Antonio in Polesine. Visite guidate grazie ad alcuni studenti del Dosso Dossi come  “apprendisti ciceroni”. Il Monastero benedettino dal 22 al 26 novembre è stato animato dal progetto del FAI. In tutto, 250 bambini e ragazzi in visita

di Andrea Musacci
Un afflusso tranquillo ma comunque anomalo per il Monastero di Sant’Antonio in Polesine. Un’apertura eccezionale per permettere a tanti bambini e ragazzi di conoscere meglio questo angolo di Cielo nel cuore antico della nostra città.

Da lunedì 22 a venerdì 26 novembre, dalle 9 alle 12, il Monastero che ospita le Monache Benedettine ha aperto le proprie porte a circa 250 alunni e ad alcuni loro insegnanti in occasione della decima edizione delle “Giornate Fai per le scuole”, che in tutto il Paese (nelle altre località fino al 27) prevedevano visite esclusive a luoghi di interesse storico, artistico e naturale a cura degli “apprendisti ciceroni”. La delegazione ferrarese del FAI ha organizzato visite riservate alle classi “Amiche FAI” e gestite da studenti formati dagli stessi volontari del Fondo Ambiente Italiano insieme ai docenti. A Ferrara gli “apprendisti ciceroni” sono stati gli alunni della classe 3 B/E del Liceo Artistico “Dosso Dossi”, impegnati per l’occasione nell’attività di PCTO – Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (l’alternanza scuola-lavoro) e coordinati dalla prof.ssa Donatella Palchetti, docente di italiano e referente del progetto, da lei curato insieme alla collega Patrizia Massarenti, docente di Storia dell’arte.

Le ragazze e i ragazzi della 3 B/E hanno accolto e accompagnato, per visite di 45 minuti, in alcuni ambienti del Monastero bambini e ragazzi appartenenti a 13 classi di alcuni istituti cittadini: Istituto Comprensivo Alda Costa, I. C. Dante Alighieri, I. C. Boiardo, I.I.S. Luigi Einaudi e dello stesso Dosso Dossi, dalle classi IV delle Primarie fino al III° anno delle Superiori.

Viviana Babacci, volontaria del FAI impegnata in questo progetto insieme a Cristina Bignami e Marcella Pivano, ci spiega come dopo la stipula della convenzione tra il FAI e il Liceo, il progetto ha preso avvio tra fine settembre e inizio ottobre, per poi, a fine ottobre, iniziare la settimana di preparazione con lo studio del materiale, la redazione dei testi per le visite e una prima visita preparatoria al Monastero insieme alla Madre abbadessa Maria Ilaria Ivaldi.

I “ciceroni” del Dosso sono stati divisi in tre gruppi: uno si occupava di illustrare l’ingresso, lo spazio accoglienza e il chiostro; il secondo il sepolcro della Beata – la cui tomba in marmo i ragazzi hanno potuto vedere “gemmata” dalle “lacrime” della Beata Beatrice II d’Este, che normalmente è possibile ammirare fino a marzo -, il coro e le tre cappelle; il terzo, la chiesa.

Lorenzo Baroni e Marta Montanari sono due dei “ciceroni” incaricati di accogliere e guidare i gruppi di studenti nell’ingresso del Monastero per la prima parte della visita. «All’inizio – ci spiega Lorenzo – è stato difficile comprendere un luogo così particolare, così distante da quelli che normalmente viviamo. Prima di riuscire a spiegarlo, ho dovuto cercare di capirlo. E c’è voluto un po’ di tempo». La chiusura e il silenzio un po’ intimoriscono e spiazzano anche Marta, comunque ammaliata, come Lorenzo e i loro compagni, dalla bellezza e dal fascino del luogo. «Importante – aggiunge Marta – è anche il confronto con persone diverse» in questa che assomiglia a una prima esperienza lavorativa: «mi sento più matura», ci confida.«Le monache bevono l’acqua del pozzo?«. È una delle domande bizzarre rivolte ai “ciceroni” da alcuni bambini, più curiosi e spontanei rispetto ai loro omologhi adolescenti. «È bello spiegare da studente a studenti», ci spiega ancora Lorenzo, e «di volta in volta adattare i termini e il linguaggio in base alle età di chi mi ascolta, non usando o spiegando meglio alcuni termini più difficili».

Nell’ultima tappa in chiesa incontriamo, invece, Linda Rouhani e Caterina Brunaldi, interessate in particolare alla parte esterna della chiesa, alle decorazioni e agli affreschi. «La vita delle monache – riflette con noi Linda – la immagino difficile da seguire, così staccata dal mondo, mentre noi adolescenti siamo abituati ad ambienti caotici». Il luogo, però, concorda anche Caterina, è «davvero molto bello e tranquillo». «Il Miracolo – per Caterina – può sembrare inventato, ma dall’altra parte bisogna ammettere che è qualcosa di davvero inspiegabile».


Storia di un luogo davvero unico

Primo monastero femminile nella città estense, il complesso di S. Antonio fu creato per accogliere Beatrice d’Este, figlia del marchese Azzo VII Novello d’Este, e le giovani che, come lei, intendevano seguire la regola benedettina. Già intorno all’anno Mille si erano insediati sull’isoletta tra i terreni paludosi, monaci agostiniani devoti a S. Antonio: il marchese acquistò dai padri l’area e gli edifici nel 1257. L’anno seguente Beatrice e le sue compagne si trasferirono nel complesso, oggetto di importanti lavori, che Beatrice non riuscì a vedere completati poiché fu colta dalla morte nel 1262. Nel 1413 il vescovo di Ferrara, Pietro Boiardi, consacrò la chiesa. Le benedettine separarono la chiesa in due spazi, uno per i fedeli, l’altro per le loro preghiere. Già dal 1473, infatti, si ottennero, dividendo l’edificio, le due chiese attuali. La chiesa esterna ebbe nel secolo seguente un splendido organo, opera di Giovanni da Cipro, dal 1796 sistemato nella chiesa del Suffragio. Nel ‘600 la chiesa esterna fu abbellita da nuovi altari e da grandi tele e venne ridipinto il soffitto della chiesa esterna, ad opera di Francesco Ferrari, supportato forse dal figlio Felice. Il tema prescelto per la decorazione fu la Madonna col Bambino in gloria ed i Santi Antonio e Benedetto sistemati tra ricchi motivi ornamentali, e sei immagini di santi benedettini.

Si deve a interventi operati nel XVIII secolo la sistemazione della selciata della corte, come attestano le perizie coeve. Furono queste le ultime opere eseguite prima del tracollo del monastero, provocato dall’arrivo degli eserciti francesi: nel 1796 S. Antonio il Polesine ebbe chiuso il tempio, e il convento fu ridotto a reclusorio.La ripresa ufficiale dell’abito monastico si ebbe solamente nel 1924, tra vicende alterne che videro pure sistemare il nuovo altare del SS. Sacramento (1806) e creare una sorta di cappella, decorata da una statua della Beata.Nel 1910 l’ala delle novizie fu adibita a Caserma. Nello stesso anno il Comune di Ferrara acquistò tutto il complesso affidandolo alla custodia delle benedettine. All’entrata del monastero ci si trova nell’ala settentrionale del chiostro, in cui si venera il sepolcro della beata fondatrice dalla cui tomba in marmo periodicamente stilla un’acqua miracolosa detta le “Lacrime della Beata”.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 3 dicembre 2021

https://www.lavocediferrara.it/

Cristiani e musulmani, «ragioniamo insieme anche su ciò che ci divide»

22 Nov

Proficuo incontro il 20 novembre tra Piero Stefani e Hassan Samid

La conoscenza reciproca tra le religioni non può avvenire solo cercando, spesso a tutti i costi, punti di convergenza, ma anche ragionando e confrontandosi assieme su ciò che divide.

Sulle differenze e l’importanza di non sottovalutarle, si è trovato – “paradossalmente” – un accordo nel corso del confronto pubblico svoltosi il 20 novembre tra Piero Stefani, biblista e scrittore, e Hassan Samid, Presidente del Centro di Cultura islamica di Ferrara.L’appuntamento pomeridiano – il terzo in memoria del giornalista trentino Piergiorgio Cattani -, organizzato in collaborazione con l’Ufficio diocesano per l’ecumenismo, riguardava la presentazione del libro di Stefani, “Bibbia e Corano, un confronto”, pubblicato lo scorso giugno da Carocci. “In memoria di Piergiorgio Cattani (1976-2020). ‘Allora quando uscirà il libro mi prenoto per fare la recensione’ ” il nome dell’incontro che ha visto un’ottima partecipazione di pubblico nella sala parrocchiale di Santa Francesca Romana.

Marcello Panzanini, Direttore del sopracitato Ufficio diocesano, ha introdotto ricordando lo storico incontro tra San Francesco e il Sultano del 1219: «grazie al dialogo e alla conoscenza – ha riflettuto -, hanno compreso che dall’altro si può imparare qualcosa. Solo col vero ascolto si possono avere frutti di pace».Dopo il ricordo di Cattani da parte di Stefani, Samid ha preso la parola. «Il Corano – ha riflettuto – è un libro al servizio del dialogo interreligioso, ma è utile anche per il dialogo coi non credenti. Spesso sbagliamo quando cerchiamo di trovare solo ciò che ci accomuna», ha proseguito. «È importante, invece, anche ragionare insieme su ciò che ci divide, ad esempio su chi è per noi Dio. Sarebbe una forma di dialogo più matura».

Sempre confrontandosi con Stefani, e sollecitato da alcune domande di donne presenti fra il pubblico, Samid ha poi spiegato come  nel Corano – «che per noi musulmani è incontestabile» ed è «l’unico libro tra quelli sacri rimasto intatto per com’è stato rivelato» -, «quando si parla di avvicinarsi agli altri popoli del Libro (ebrei e cristiani, ndr) il più delle volte vi siano situazioni di conflitto. Oggi, invece, siamo ben oltre il dialogo: siamo conviventi».

Alcune riflessioni di Samid hanno riguardato poi, ad esempio, l’importanza, quando si parla di Islam, di non trattare solo questioni concrete, “terrene” (il velo, i diritti ecc.) ma anche – com’è nel libro di Stefani – temi riguardanti la trascendenza, l’Aldilà, i concetti di bene e di male, il giorno del Giudizio. Ma riguardo a temi più “terreni”, Samid ha chiarito ad esempio come nel testo coranico «vi siano indicazioni sulla vita di tutti i giorni, ma non così dettagliate – a suo dire – da potersi applicare a tutte le epoche». O riguardo al tanto discusso termine “jihad”, ha spiegato con chiarezza come nel Corano venga usato «sia per indicare lo sforzo personale nella fede sia la guerra per difendere la fede stessa, anche quando non si tratta di autodifesa».

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 26 novembre 2021

https://www.lavocediferrara.it/

(Foto, da sx Samid, Stefani, Panzanini)

Cattolici latinoamericani: gruppo nutrito in Diocesi fra identità e integrazione

2 Nov


Almeno una 50ina, sono studenti, operai, professori e casalinghe. Provengono da Repubblica Dominicana, Cuba, Colombia, Venezuela, Panamá, Perù  Ecuador, Argentina e Cile. Il gruppo, fondato da don Zappaterra, attualmente è guidato da don German Diaz Guerra

Intergenerazionali e interclassisti, provenienti da diversi Paesi dell’America Latina, di passaggio o ormai integrati nella nostra città.

Sono i “Católicos latinoamericanos de Ferrara” del gruppo San Martín de Porres, i cattolici di lingua spagnola appartenenti alla nostra Arcidiocesi. Il gruppo è attualmente formato da almeno una 50ina di persone, oltre a molte altre che partecipano solo sporadicamente alle attività e ai momenti di incontro e preghiera. Responsabile del gruppo è don German Diaz Guerra, cubano d’origine (è nato a L’Avana nel 1966), ordinato sacerdote a Comacchio il 21 settembre 2019 e attualmente in servizio nella parrocchia di Sant’Agostino a Ferrara, dopo essere stato, nel periodo da seminarista, nella parrocchia di Masi San Giacomo e poi diacono e sacerdote nella parrocchia cittadina della Sacra Famiglia.

La nutrita comunità ferrarese dei latinos comprende persone provenienti da Repubblica Dominicana, Cuba, Colombia, Venezuela, Panamá, Perù  Ecuador, Argentina e Cile, oltre a una piccola minoranza di lingua portoghese, fra cui brasiliani e africani. Alcuni sono studenti universitari, molti di loro lavoratori impiegati in vari ambiti, dai più semplici, come operai, fino a docenti universitari, passando ad esempio per alcuni attivi nello sport. Il gruppo diocesano, fondato e guidato per anni da don Emanuele Zappaterra, ormai prossimo a iniziare la sua esperienza missionaria in Argentina, attualmente non ha una sede fissa, ma per diverso tempo è stato ospitato nella parrocchia di Malborghetto di Boara proprio quando don Emanuele ne era parroco.

I latinos ferraresi si incontrano due volte al mese, una volta per la celebrazione della Santa Messa, un’altra per un momento di catechesi. L’ultimo incontro in ordine di tempo è stato domenica 31 ottobre al Santuario della Madonna del Poggetto da don Giuseppe Cervesi, in passato missionario in Messico. E a proposito di venerazione mariana, simbolo del gruppo non poteva che essere la Vergine di Guadalupe, Nuestra Señora de Guadalupe. Il gruppo, però, come detto, porta il nome di San Martín de Porres (1579-1639), peruviano mulatto di Lima, religioso dominicano figlio di un aristocratico spagnolo e di un’ex schiava nera, per una vita al servizio dei poveri, dei malati, dei bambini indigenti. Un esempio di integrazione importante per questi cattolici che, pur mantenendo la propria identità latinoamericana, vivono in modo attivo e con forte convinzione la propria appartenenza alla Chiesa di Ferrara-Comacchio e alla città dove hanno scelto di vivere.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 5 novembre 2021

https://www.lavocediferrara.it/