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Ferrara e il teatro: il Cortile e il Palazzo dove tutto ebbe inizio

11 Mag

Tra l’attuale Piazza Municipale e la residenza degli Estensi nacquero il teatro classico italiano e, grazie all’Ariosto, la commedia italiana. La mostra di Gualandi al Comunale

di Andrea Musacci

Ferrara città del Rinascimento significa anche «culla del teatro italiano», come la descrisse nel 1929 Gianna Pazzi nel suo Ferrara antica e Ferrara d’oggi (1000-1927). A questa storia gloriosa e non sufficientemente nota, ha dedicato un ampio lavoro artistico e documentaristico l’illustratore Claudio Gualandi, autore della mostra Ferrara teatro della città nelle illustrazioni di Claudio Gualandi. Un progetto speciale, promosso dal Teatro Comunale Claudio Abbado (insieme a Ferrara Arte e al Comune di Ferrara) per festeggiare i 60 anni dal restauro che lo fece rinascere.

La mostra di Gualandi si trova sia nella Rotonda Foschini – dove resterà visitabile sino al 15 settembre – sia nel Ridotto del Teatro, dov’è possibile visitare le opere dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 13 (previa prenotazione al numero 0532-202675). Per l’occasione, è stato anche prodotto un catalogo con testi di Giacomo Battara e Linda Mazzoni, e con introduzioni dell’Assessore Marco Gulinelli e di Moni Ovadia (Direttore Fondazione Teatro Comunale di Ferrara).

È il 2 settembre 1798, in piena occupazione francese, quando inaugura l’allora Teatro Nazionale, progettato da Cosimo Morelli e Antonio Foschini, con la rappresentazione de Gli Orazi e i Curiazi. Nel 1964, come detto, il Teatro viene restituito rinnovato alla città dopo quasi 20 anni di disuso: il 31 ottobre si alza nuovamente il sipario, con un concerto dell’orchestra del Teatro alla Scala, diretta da Nino Sanzogno.

GLI ESTE E PRISCIANI: ALBORI

Ma il teatro a Ferrara nasce con la signoria di Ercole I d’Este (1431-1505), che consolida l’idea di teatro come forza propagandistica del potere: per questo, le rappresentazioni della commedia latina vengono recitate in volgare. Testo fondamentale per capire questo periodo rimane Spectacula, nel quale Pellegrino Prisciani (c. 1435-1518) illustrava l’architettura teatrale dell’epoca e soprattutto gli edifici adibiti ad accogliere le rappresentazioni.

QUEL CORTILE DOVE NACQUE IL TEATRO FERRARESE E IL TEATRO CLASSICO ITALIANO

Nel 1486 i Menecmi plautini vengono allestiti nel Cortile Nuovo di Palazzo Ducale (l’attuale Piazza del Municipio) a ridosso del Teatro Estense (oggi Sala Estense). Questa rappresentazione segna l’inizio della tradizione teatrale ferrarese e la nascita del teatro classico italiano. Nel Cortile Nuovo venivano erette eleganti tribune di legno per gli spettatori invitati, mentre la corte assisteva agli spettacoli dai piani alti del Palazzo Ducale. Il palcoscenico e le gradinate lignee venivano smontati dopo ogni spettacolo: solo qualche macchina teatrale veniva riutilizzata. Fra gli spettatori vi era un giovanissimo Ludovico Ariosto. 

Il rinascimentale Teatro di Cortile, nel Novecento diventerà quello dei burattini, dei funamboli, dei buskers. Protagonista sarà sempre Piazza Municipale: qui, ad esempio, verrà rappresentato l’Orlando furioso di Luca Ronconi (1969) e il Quijote! (1990) del Teatro Nucleo.

PALAZZO DUCALE, ARIOSTO E LA COMMEDIA ITALIANA

Ma lo stesso Palazzo Ducale diventerà di lì a breve luogo simbolo del teatro italiano: la Sala Grande che, lunga 70 metri, occupava il piano nobile ed era affacciata sull’attuale corso Martiri della Libertà (dal Volto del Cavallo a piazza Schifanoia) vide infatti la nascita della Commedia italiana, con la rappresentazione della Cassaria dell’Ariosto avvenuta il 5 marzo 1508 (con scenografia di Pellegrino Prisciani). Da quel momento Ariosto diviene protagonista della vita teatrale alla corte estense, proprio mentre compone l’Orlando furioso: fu proprio Ariosto a suggerire ad Alfonso I d’Este di fabbricare nella Sala Grande del Palazzo Ducale un teatro stabile, il primo di questo tipo in Italia, forse in Europa: nel 1531, infatti, con l’appoggio dell’allora principe Ercole d’Este (futuro Ercole II, figlio di Alfonso I), diviene un vero e proprio spazio scenico (divenendo Teatro Ducale di Ferrara), e lì viene allestito un palco con scena fissa raffigurante case, chiese, botteghe tipiche della città. Ma avrà vita breve: nella notte del 31 dicembre 1532 un incendio provocato da una spezieria sottostante distrugge la Sala Grande. Questo evento scuote molto l’Ariosto: Gualtiero Medri nella sua Il volto di Ferrara nella cerchia antica (1963) spiega come «il dolore che egli provò alla notizia del disastro fu tale che influì ad aggravare e accelerare il corso della malattia che lo affliggeva e forse causarne la fine». Con Ercole II e Renata di Francia (1534-1559) le rappresentazioni entrano poi in una fase di declino.

UN GIOIELLO VICINO S. PAOLO

Due parole a parte merita il dimenticato Teatro Scroffa: inaugurato nel 1692 e demolito nel 1810, venne progettato e costruito nell’attuale corso Porta Reno (a quei tempi via San Paolo), circa all’altezza della chiesa da poco riaperta, dall’architetto Francesco Mazzarelli. Quest’ultimo fu protagonista della ristrutturazione settecentesca (1712-1728) della Cattedrale di Ferrara, della progettazione del vicino Palazzo Arcivescovile e dell’ex chiesa dei SS. Cosma e Damiano di via Carlo Mayr, consacrata nel 1738 e oggi luogo di culto della comunità ortodossa rumena. Fin dalla prima metà del Settecento, il Teatro Scroffa fu il teatro principale di Ferrara, sede privilegiata per le rappresentazioni dei “comici”. 

Un altro tassello che ci restituisce l’immagine di un mosaico complesso, variegato, ancora in buona parte da studiare e divulgare. Ferrara è, nel midollo, anche teatro. La storia del teatro non può prescindere da Ferrara.

***

Il teatro di ricerca nato dopo il ’68

Tanto il fermento in città dopo la riapertura del Comunale, negli anni della contestazione.

Fra le compagnie spontanee ferraresi, Die Spieler e Teatro Empirico: ecco la loro storia

L’amore di Claudio Gualandi e Linda Mazzoni per il teatro emerge, nella mostra e nella ricerca storica, in tutta la sua limpidezza. E fu, in giovinezza, una passione che coinvolse Gualandi in prima persona. Dopo aver studiato scenografia all’Accademia di Venezia, infatti, entra a far parte del Collettivo Teatrale Die Spieler (Il giocatore), occupandosi di scene e costumi: erano i primi anni Settanta. Dalle informazioni dateci dallo stesso Gualandi e in parte trovate nel volume Teatro Comunale di Ferrara 1964-1984. 20 anni (Teatro Comunale di Ferrara / Comune di Ferrara, 1985, con progetto grafico dello stesso Gualandi), abbiamo ricostruito un pezzo di quel fermento nel periodo della contestazione e sicuramente incentivato dalla riapertura, nel ’64, del Teatro Comunale. Tra fine anni ’60 e inizio anni ’70 nascono, infatti, in città e in provincia alcune compagnie teatrali spontanee, sostenute dall’ATER (Associazione Teatrale Emilia-Romagna), fra cui appunto Die Spieler. Con Gualandi vi è Andrea Barra, regista, Paolo Natali (ex Vicedirettore del Teatro Comunale) come musicologo e Paolo Bertelli come scenografo.

Tre le commedie di Die Spieler portate in scena in Sala Estense (all’interno della programmazione del Teatro Comunale): la prima, Rivoluzione alla sud-americana del brasiliano Augusto Boal, parodia sul potere portata in scena il 23 e 24 aprile 1969 con attori Gianni Rizzati, Aureliano Bandiera e Giulio Felloni;Histoire du soldat di Igor Stravinskij (su testo di Ramuz, “mescolata” con La leggenda del soldato morto di Bertolt Brecht), portata in scena il 29 e 30 aprile 1970 con sul palco Giulio Felloni e Marco Benini; Non consumiamo Marx di Luigi Nono, che registrò i suoni e le voci delle manifestazioni del Maggio francese mescolandoli con musiche dodecafoniche, con testi di Cesare Pavese. Non consumiamo Marx andò in scena il 24 marzo 1971, con le voci di Liliana Poli, Kadigia Bove e Edmonda Aldini. Un’altra compagnia nata in città in questi anni è Teatro Empirico che in Sala Estense (all’interno degli spettacoli del Teatro Comunale) il 29 marzo 1969 porta in scena Direzione memoria di Corrado Augias, il 7-8 febbraio 1970 La lezione di Eugene Ionesco e il 18 marzo 1971 Recitare di Dacia Maraini.

Gualandi curò anche le scene della Compagnia Teatro Zero per Proibito e La finestra di Tennessee Williams e Georges Feydeau, rappresentate in Sala Estense il 10 marzo 1971. Poi, Gualandi e Linda Mazzoni, all’interno della Rassegna Internazionale Aterforum, svolsero i ruoli di consulenti per l’ambientazione e l’arredamento del concerto Varieté Liberty di Hubert Stuppner, tenutosi al Comunale il 3 giugno 1983.

a.m.

Pubblicati sulla “Voce” del 10 maggio 2024

Abbònati qui!

Straferrara, negli anni ’50 “emigrò” in Argentina

30 Giu

Nel dopoguerra la storica Compagnia dialettale ferrarese fu portata anche a Buenos Aires grazie alla  passione di alcuni emigrati: Nino Beccati, Icaro Rossi e Gianni Casadio. Il racconto di un’intuizione poco nota

di Andrea Musacci

Un amore così grande per la propria città e la sua lingua, da non poter fare a meno di portarle ovunque con sé. È ciò che hanno vissuto tanti emigranti nel corso dei decenni. Alcuni di loro, però, nel secondo dopoguerra, decisero di portare la propria città e le sue tradizioni non solo nel cuore ma anche di farle rivivere pubblicamente.

È il caso della “Straferrara” che a Buenos Aires in Argentina negli anni ’50 e ’60 ha rappresentato diversi spettacoli della storica Compagnia dialettale ferrarese nata negli 1931 grazie a Ultimo Spadoni insieme a Mario Bellini, Piero Bellini, Renato Benini, Leonina Guidi Lazzari, Arnaldo Legnani, Umberto Makain, Norma Masieri, Erge Viadana.

LA STRAFERRARA “MADRE”

La prima recita avvenne il 3 settembre 1931 al Teatro dei Cacciatori di Pontelagoscuro con la commedia “Padar, fiol e…Stefanin” e la farsa “L’unich rimedi”, scritte entrambe da Alfredo Pitteri. Allora, infatti, si usava concludere la serata, dopo la commedia, con una farsa.

Da allora la Straferrara lavorò quasi per un anno intero al Cinema-Teatro Diana di Ferrara. L’anno successivo iniziò una toumée in tutti i teatri della provincia e poi al teatro Nuovo e al teatro Verdi di Ferrara dove si esibì per molte recite. Grande successo ebbe Rossana “Cici” Spadoni, nata nel ’31, che a 5 anni era considerata una bambina prodigio ed era per questo denominata “la Shirley Temple italiana”.

Durante la seconda guerra mondiale, la Compagnia continuò la propria attività, pur sotto l’incubo delle incursioni aeree, recandosi con mezzi di fortuna anche nei pochi teatri di provincia disponibili, per portare un po’ di svago e conforto agli sfollati. Oggi sono oltre cinquecento i testi rappresentati dalla Straferrara e dalle altre compagnie del teatro dialettale.

UN PO’ DI FERRARA IN ARGENTINA

Nel secondo dopoguerra anche dal Ferrarese in molti scelgono di emigrare per cercare un riscatto dopo gli anni difficili del conflitto mondiale. Tra il 1946 e il 1950 si stima che circa 278mila italiani emigrano in Argentina (sono quasi 3 milioni dal 1871 al 1985, con picchi nel primo trentennio del Novecento). Nel secondo dopoguerra tra i ferraresi che emigrano nel Paese sudamericano c’è Nino Beccati, che a fine anni ’40 vi si trasferisce, sposandosi: dal suo matrimonio nascono Anna e Luciana (ancora residenti a Buenos Aires). Nino lavorerà come lucidatore di mobili, professione che già svolgeva a Ferrara, e che a Buenos Aires gli permetterà di aprire un’azienda di grande successo, la “B.K.T.” (sigla che richiama il suo cognome). Ci sono, poi, Icaro Rossi, che conosce Beccati proprio sulla nave che da Genova li porta a Buenos Aires (viaggio che, ad esempio, circa 20 anni prima aveva compiuto la famiglia Bergoglio); Gianni Casadio, classe ’27, nato in corso Isonzo a Ferrara, arrivato a Buenos Aires nel ’50 (l’anno successivo lo raggiunsero la moglie Lara Droghetti e il loro figlio Andrea di 10 mesi; quattro anni dopo nascerà il secondogenito Carlo Alberto); e Mario Maregatti

Questi decidono di ricreare nella capitale argentina una piccola Ferrara, con la nascita, appunto, della “Straferrara”, con Rossi capocomico, e della SPAL. Di quest’ultima ne abbiamo parlato sulla “Voce” del 5 ottobre 2018. 

Nel 2008, un certo Maurizio originario di Portomaggiore, invia una lettera al Carlino di Ferrara: «Cari amici, abito in Argentina da ben 57 anni. Sono venuto coi miei genitori quando ne avevo 6. A quell’epoca i Ferraresi di Buenos Aires erano parecchi. Tanti che in un certo momento si poteva radunare non meno di 50 concittadini in maggioranza Portuensi (di Portomaggiore). Per iniziativa di uno di loro, Icaro Rossi, si formò una compagnia dilettante di teatro parlato in dialetto Ferrarese. Alcune volte all’anno vi si riuniva per assistere alla commedia e dopo si ballava fino a tarda ora. Oggi nel gruppo originale rimaniamo soltanto una decina». 

Quasi un decennio dopo, il 3 agosto 2017, Maurizio Musacchi nella sua rubrica su estense.com scrive riguardo a Gianni Casadio: «Lo conobbi durante un viaggio a Buenos Aires invitato dalla Comunità Ferrarese locale. Portai loro un po’ di Ferrara: Pampapati, ciupéti, farina castagna da “far i tamplù”, una sciarpa della SPAL e pubblicazioni dialettali. Gianni era dinamicissimo e legato fortemente alla sua Città, con amici emigranti, fondò una locale SPAL e una compagnia dialettale chiamandola Straferrara». 

La Straferrara rappresenta a Buenos Aires alcuni storici spettacoli della Compagnia nata nella città estense. Fra questi, “A.S.M.A. (Agenzia Segreta Matrimoni e Affini)”, commedia in tre atti di Augusto Celati e Arturo Forti, nella quale Nino Beccati recita nel ruolo di Franco De Menti; e “Alla bersagliera”, alla quale è legato un aneddoto della guerra. Il 23 aprile 1945, infatti, la Straferrara fu sorpresa dalla prima granata caduta sulla città al Teatro Diana (in via San Romano/piazza Travaglio) dove stava rappresentando il primo atto dello spettacolo.

Una storia, dunque, quella della Straferrara argentina,  che racconta del legame indissolubile dei tanti ferraresi con le proprie radici, della volontà di non dimenticare la propria città, facendola rivivere anche grazie alla commedia dialettale.

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 30 giugno 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

(Foto Collezione Claudio Gualandi – Anno 1954)

«La fantasia è ciò che ci tiene aperti, che ci reinventa»

8 Mag

Siamo andati ad ascoltare Giacomo Poretti alla presentazione del suo spettacolo al Teatro Comunale. Ecco cos’ha detto su lavoro in ospedale, covid e trio…

L’esistenza è un «gioco serio», nel quale conta saper gestire i momenti in cui l’ironia è importante, se non necessaria, e quelli, invece, dove la commozione e l’empatia debbono semplicemente imporsi.

Anche questo, in un certo senso, ha inteso comunicare Giacomo Poretti, noto attore comico, nella sua due giorni a Ferrara. Il membro del mitico trio con Aldo e Giovanni nel pomeriggio di sabato 6 maggio ha presentato il proprio spettacolo “Chiedimi se sono di turno” in una platea del Teatro Comunale di Ferrara al completo, incalzato dalle domande di Giovanni Farkas (Fondazione Zanotti) e Marcello Corvino, Direttore artistico del Teatro Comunale.

L’OSPEDALE: IL LAVORO PIÙ FATICOSO

Poretti, dai 18 ai 29 anni di età ha lavorato come infermiere nell’Ospedale di Legnano (di cui 5 in oncologia), dopo un biennio da metalmeccanico. «I malati adulti, in ospedale non hanno così tanta voglia di ridere», ha spiegato a Ferrara. Un Patch Adams è adatto a un reparto per bambini. «L’adulto malato preferisce la compagnia, la vicinanza, anche silenziosa». L’ospedale, per Poretti, «è un luogo tragicamente straordinario, per gli incontri umani che si possono avere».

Dal periodo del covid, emerge un aneddoto, com’è  spesso accaduto, agrodolce: «dopo alcune settimane dall’inizio dell’emergenza nel 2020, alcune regioni precettavano i medici perché non ce n’erano a sufficienza. Io vivo a Milano, e ho tremato dalla paura che mi potessero richiamare, sono sincero. Lavorare in ospedale è il lavoro più duro che abbia fatto. Faticoso soprattutto a livello mentale e sentimentale».

IL LOCKDOWN: IL PERIODO PIÙ AMBIVALENTE

L’attore ha poi aggiunto di come lui e la moglie Daniela Cristofori abbiano avuto il covid i primissimi giorni dell’emergenza nel 2020. Un’esperienza vissuta in maniera ambivalente, quella del lockdown: «in quel periodo sono riuscito a riposarmi, a godermi la vita domestica con mia moglie e nostro figlio (che ha 17 anni, ndr), a leggere, guardare film e partite dell’Inter…D’altra parte, però, è vero che non si può trasferire tutto su uno schermo, sul digitale. Il teatro, ad esempio, ha bisogno di presenza, corporeità, non si può guardare su uno schermo. Mi ribello a questa idea». È invece importante non dimenticare la potenza dell’arte e della letteratura, derivante dal fatto che sanno parlare «delle nostre angosce e dei nostri desideri più profondi, e così è per il teatro, arte antichissima:all’uomo è sempre piaciuto raccontare e farsi raccontare storie».

Ma tornando alla bellezza dell’aver potuto, pur nella tragedia, riscoprire l’intimità domestica, rimane il fatto che «è molto difficile andare d’accordo con tutte le parti di se stesso, figuriamoci con gli altri… Su questo io e mia moglie abbiamo preparato uno spettacolo che si intitola “Litigar danzando”. Anche io, Aldo e Giovanni – ha proseguito – siamo tre caratteri forti e per certi versi molto diversi fra di noi. Tante volte abbiamo anche litigato, ma litigare può essere anche sano, in quanto espressione di qualcosa che è dentro di noi».

Detto ciò, dal periodo del covid «ne sono uscito arricchito», ha detto Poretti. E poi, vi sono i gesti di umanità, gesti che la straordinarietà della situazione ha fatto emergere: «come quello di uno dei nostri vicini di casa che ci portava la spesa quando non potevamo uscire perchéammalati. Lasciava a terra i sacchetti appena aperta la porta, e poi si ritraeva. Ma a vincere non era il suo naturale gesto di “repulsione”, ma quello di umanità nell’averci aiutato».

LA FANTASIA: IL “LAVORO” PIÙ IMPORTANTE

Venendo al tema del Festival nel quale era inserito l’incontro, «la fantasia è sempre fondamentale, in tutti gli ambiti, è quell’abito mentale che ti porta nella dimensione del gioco. La nostra stessa ironia – ha proseguito parlando del trio – è strettamente imparentata col gioco, seppur un gioco “serio”, che tenta di mostrare una dimensione diversa dalla solita».

Sul rapporto professionale con Aldo e Giovanni, ha spiegato come «dopo 30 anni abbiamo sentito l’esigenza di prendere strade diverse» e dunque di non fare più teatro assieme. Teatro che rimane per Poretti la grande passione, quella passione nata da giovane: «mentre facevo ancora l’infermiere, mi ero iscritto ad una scuola serale di teatro. Ho avuto sempre quella curiosità e quell’inquietudine di tentare strade diverse; già mi piaceva, nei miei precedenti luoghi di lavoro, raccontare storie ai colleghi…».

E a proposito di strade nuove, dal 2019 Poretti dirige il teatro Oscar deSidera a Milano insieme allo scrittore Luca Doninelli e a Gabriele Allevi. «Senza la fantasia, non saremmo andati da nessuna parte. La fantasia ti dice: stai aperto, disponibile ad immaginare altro, altre possibilità». Una scommessa non facile, in una città colma di teatri. Proprio la sera del 5, l’Oscar ha ospitato lo spettacolo “La Milonga del Fútbol” di Federico Buffa: ilDirettore Corvino ha anticipato che lo spettacolo farà parte del programma del Teatro Comunale di Ferrara nella stagione 2023/2024.

Andrea Musacci

(Foto Marco Caselli Nirmal)

Pubblicato sulla “Voce di Ferrara-Comacchio” del 12 maggio 2023

La Voce di Ferrara-Comacchio

Un normale conflitto tra amici: a teatro l’opera di Serraute

2 Mar
Foto Marco Caselli Nirmal

Si intitola “Pour un oui ou pour un non”  l’opera di Nathalie Sarraute portata in scena lo scorso fine settimana al Teatro Comunale di Ferrara da Umberto Orsini e Franco Branciaroli. I confini tra amico e nemico sono sempre così netti? Le parole sono davvero così fondamentali per comprendersi, oppure spesso non sono controproducenti?

di Andrea Musacci

Un dramma travestito da commedia che inizia nel proprio epilogo, nella propria catarsi. Un uomo irrompe in casa di un amico, preoccupato (o solo curioso?) del fatto che quest’ultimo da un po’ non si faccia più sentire. Da qui erompono rancori sopiti, malumori, incomprensioni. Chi fra i due è l’accusato e chi l’accusatore?

Un’ora e dieci di vita distillata è “Pour un oui ou pour un non”, commedia di Nathalie Sarraute portata in scena lo scorso fine settimana al Teatro Comunale di Ferrara dagli attori Umberto Orsini e Franco Branciaroli.

Non comprendo quindi sono

Arriva l’amico, l’intruso irrompe. E dice: «io sento che…io voglio cercare…». È l’inquieto. Vuole capire il perché dell’assenza e del silenzio dell’altro che, placido, risponde, nega finché può (poco): «niente che si possa dire…». Cioè, nessuno può capire, può capirmi. Fin da subito, la questione si pone come radicale. O tutto o niente. O sì o no. D’ora in poi non varranno fughe, nascondimenti, ironie o virgolettati. La verità dovrà essere sbattuta sul tavolo, sezionata, osservata fino all’osso. Con lo scacco come inevitabile finale (che ne siamo o no consapevoli).

Insomma, l’inquieto che irrompe nella calma vita domestica dell’ospitante da “accusatore”, indagatore, si trasforma ora in “accusato”. È amico ma visto come hostis, nemico, non più hospes (ospite). Perché è lo stesso ospitante che si pone come ostile. Inizia una lotta, un processo reciproco, dove insieme, controvoglia o con acredine, ci si potrà ancora una volta illudere di poter fondare un’amicizia sulla totale comprensione. Non è così, mai. L’altro – amico o nemico poco importa – irrompe nella mia esistenza e in quanto altro non può non stravolgerla. La mia posizione per quanto prossima alla sua sarà sempre distinta, distante, altra.

Questo di Sarraute è, niente più niente meno, che un dramma, il dramma dell’uomo, “obbligato” a confrontarsi, a dialogare, quindi anche a fraintendersi e scontrarsi.

L’oggetto iniziale del contendere rimane, com’è normale, molto vago, indefinito, è qualcosa che riguarda incomprensioni sulle rispettive carriere. Ciò che importa è la vera sostanza di ogni dialogo: quella di muoversi – sempre, inevitabilmente – dal nulla dell’incomprensione, sul vuoto del non capire l’altro, di non poterlo afferrare. E da questo ni-ente mai del tutto potersi distaccare. 

«La vita è là». Ma dove?

A un certo punto l’ospite apre la finestra e fa entrare il mondo sotto forma di una musica dolce e malinconica che arriva dalla strada. Una nuova incomprensione si ha quando uno dei due cita (forse involontariamente) Verlaine: «La vita è là», dice indicando il mondo oltre l’appartamento. «Mio Dio, mio Dio, la vita è là / semplice e tranquilla, / questo rumore quieto / viene dalla città», sono in effetti alcuni versi del poeta francese.

Da qui il contrasto io–tu si fa contrasto «noi»-«voi», dove «voi» a dir dell’ospitante sarebbero quelli come l’amico: gli arrivati, gli ironici, gli uomini di mondo che il mondo, però, lo schematizzano, lo ingabbiano in categorie. Sono i superficiali. Per contrasto, la solitudine dell’ospitante diventa distacco, coscienza critica, ma anche, come detto, rancore. E degnazione: atteggiamento, questo, all’inizio affibbiato, al contrario, dall’ospitante all’ospite. 

I ruoli, dunque, sempre più si invertono, si confondono: l’accusatore diventa accusato, il distacco è quello dell’ospite inconsapevole o quello del solitario ospitante? Quest’ultimo da riservato e pudico si trasforma in viscerale, esplicito, costringendo l’altro invece a difendersi. Allora, dov’è la vera vita? Chi fra i due è più libero? L’ospite, leggero, vitale, realizzato ma in realtà inquieto, sempre deciso se indossare il proprio soprabito e andarsene, oppure l’amico ospitante, «inafferrabile», anch’esso inquieto ma forse più profondo?

Senza parole

Un’ora abbondante, dunque, in cui non si è parlato di nulla di concreto. Ma è proprio questo il punto: a prescindere dal tema specifico, dall’oggetto del contendere, ogni confronto si basa sul non comprendere, sul fraintendimento.

E allora in quest’ora così satura di parole, il finale lascia aperto un dubbio: vincerà quella musica dalla strada, quel richiamo divino nella propria inafferrabilità, nella sua non-necessità di parole, oppure l’atto estremo, la tentazione di risolvere l’irrisolvibile conflitto eliminando l’altro?

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 4 marzo 2022

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Con lo sguardo proteso oltre Ferrara e il Po

7 Giu

“Antonioni, Bassani, Vancini, Visconti e, affettuosamente, gli altri – Ferrara, il Po e l’Altrove” è il nome del volume di Maria Cristina Nascosi Sandri. Un dono alla nostra terra e all’arte che l’ha omaggiata

Ci sono corpi e sguardi di artisti e letterati talmente e profondamente legati alla terra ferrarese, da non riuscire, quando si parla dei primi, a non parlare anche della seconda.

Questo sa bene Maria Cristina Nascosi Sandri, giornalista, scrittrice, studiosa e ricercatrice di lingue anche dialettali, che l’anno scorso ha scelto di realizzare una piccola antologia dei suoi scritti dal titolo “Antonioni, Bassani, Vancini, Visconti e, affettuosamente, gli altri – Ferrara, il Po e l’Altrove” (Edizioni Cartografica, 2020, ora distribuita da “La Carmelina” di Federico Felloni).

Per chi, come l’autrice, da tanti anni è abituata alla cadenza quotidiana o settimanale dei propri articoli, a volte è necessario mettere dei punti fermi, e consegnare alla comunità tasselli di un lavoro durato anni, di una memoria personale e collettiva insieme.

Così la Nascosi Sandri in questo volume raccoglie testi scritti in circa quattro decenni tra carta e web, con l’aggiunta di alcune sue poesie dedicate al Po e a Ferrara. Sullo sfondo e nel midollo, quell’atmosfera trasognata e antica della città e del Delta, che emerge costantemente nelle pagine del libro. Radici di terra e di acqua da cui non può non nascere, e mai morire, un legame viscerale, materno. Un legame invincibile che accomunava oltre ai quattro citati nel titolo, anche gli altri protagonisti del volume (ma non meno importanti per l’autrice): Fabio Pittorru, scrittore, sceneggiatore, cineasta; Alfredo Pittèri, drammaturgo (non solo dialettale); Lyda Borelli Cini, attrice del Muto, moglie di Vittorio Cini; “Cici” Rossana Spadoni Faggioli, attrice teatrale della “Straferrara”, ed Elisabetta Sgarbi.

Un libro per Ferrara, dunque, un libro-omaggio alla nostra città e al suo territorio attraverso lo sguardo mai banale delle sue figlie e dei suoi figli dediti alla ricerca della bellezza e di quell’altrove citato anche nel titolo, oltre il fiume, la nebbia e i ricordi di una vita.

Andrea Musacci

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” dell’11 giugno 2021

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E all’alba, ecco la nostra rinascita: “Passio Christi” al Teatro Comunale

6 Apr
Vito Lopriore – (C) Marco Caselli Nirmal

L’opera di Michele Placido con la “Passione” di Mario Luzi presentata il Venerdì Santo: i tormenti della condizione umana e la Liberazione in Cristo

di Andrea Musacci

L’affanno di chi ha paura, il rantolo dell’angoscia, di chi è solo e senza luce. Di chi, disarmato, vive la lontananza, l’apparente insanabilità dello smarrimento. Dove ogni dire e udire è vano, ogni sguardo è nemico, dove il male ha le sembianze dell’irreparabile.
Oltre 20 anni fa il poeta Mario Luzi, invitato da Giovanni Paolo II a scrivere i testi per la Via Crucis al Colosseo, seppe, come pochi, dare parola a questo tremendo umanissimo non comprendere. Per questo, la scelta di alcuni di quei versi per lo spettacolo “Passio Christi”, non può non commuovere. Il progetto tra cinema e teatro andato in onda la sera di Venerdì Santo sul canale You Tube del Teatro Comunale di Ferrara (e disponibile fino al 12 aprile), è stato ideato dal Presidente dell’“Abbado” Michele Placido su testi, oltre che di Luzi, di Dario Fo e Franca Rame (“Maria alla croce”), coi Salmi recitati da Moni Ovadia e lo Stabat Mater interpretato in dialetto trentino da Daniela Scarlatti. In scena, anche lo stesso Placido, Sara Alzetta e Vito Lopriore nei panni del Cristo. Fra i luoghi della nostra città scelti, la chiesa di San Giuliano e il Cimitero ebraico. Magistrale il Coro dell’Accademia dello Spirito Santo diretto da Francesco Pinamonti.

La stanchezza, dicevamo, quel respiro affannoso che «inciampava nei denti» (1). E, insieme, la violenza della derisione, lo scherno impietoso che anticipa la brutalità sulla carne. «Dubito talora – prega al Padre il Cristo di Luzi – / che questa sofferenza non ti arrivi / poi subito di questo mi ravvedo / perché so la tua misericordia». Ma la notte è buia, i minuti non scorrono ma incombono: «Io dal fondo del tempo ti dico: la tristezza / del tempo è forte nell’uomo, invincibile». E quegli anfratti sono, nella “Passio” di Placido, le budella nascoste del teatro ferrarese, dove gli umori e i tormenti urlano per affiorare, per rivivere in questa stagione di non-presenza, di chiusura e lontananze. E questa mancanza, questa privazione il regista sceglie di mostrarla, per renderle giustizia. È il “retroscena” col suo travaglio a un tempo manuale e intellettuale, del legno e del pensiero, in una zona ambigua dove finzione e realtà sovrapponendosi sanno di incertezza.

Negli interstizi dietro, sopra e oltre la scena, dunque, al di là dell’apparire – vero o falso che sia – il dialogo è con Dio, sempre, è la confidenza del Figlio col Padre, è la preghiera che si apre all’eterno. Dai sottofondi, la vertigine: «quanto è lontana da te l’angoscia che mi opprime»; e ancora Luzi: «Anche la morte pare eterna, è duro convincerli, gli umani, / che non ci sono due eternità contrarie, / il tutto è compreso in una sola e tu sei in ogni parte / anche dove pare che tu manchi». Anche in quell’ossatura di legno e polvere, dove una debole luce filtra, sul palco dell’umano dimenarsi dove le tuniche, come detto, possono essere inganno o domanda perpetua, lì, nel fastidio e nel dubbio, «Tu entri» «e lo disbrogli / pure così lontano come sei nella tua eternità / da questi nodi delle esistenze temporali».

E nei viluppi entra anche il femminile, portando cura e visione, rivelandosi nel viso contratto di Maria, sulle labbra il lamento, ancora l’affanno della via che porta alla croce. Lungo la strada – di nuovo – la scelta, fino al sepolcro, è di affiancare, coi loro corpi, alcuni morti ammazzati del nostro tempo: da Pier Paolo Pasolini a Stefano Cucchi, da George Floyd ai bambini vittime delle guerre. Volti morti o sofferenti privi di luce, come nel tremendo silenzio del sabato. Ma Lui «non è qui», e allora perché Lo cerchiamo tra ciò che non può essere all’altezza di tutto il nostro dolore? Perché, invece, nello smarrimento non tentare di riconoscerLo mentre ci accompagna, quando nel buio ci affianca? Perché anche lungo la via che Tu hai tracciato, che Tu sei, è «difficile tenersi». Ma «Tu solo» davvero sai il Mistero. 

«Ora sì, o Redentore», «invochiamo il tuo soccorso, tu, guida e presidio, non ce lo negare».  Ora e sempre, ora e ogni giorno. Adesso possiamo chiederglieLo, sappiamo di poterglieLo chiedere perché crediamo nella Sua Resurrezione, perché – sempre tentati dal non sperare – ancora una volta speriamo. Nell’affanno, «con amore ti chiediamo amore». Un amore che libera, che fa uscire, un amore «infinitamente più grande».

La resurrezione è, nella “Passio”, proprio un’uscita, una fuga, una lode, ancora e sempre, una perenne preghiera sulle labbra, in canto o in prosa, nel giubilo o nel dolore. Si ricongiunge il cammino, ritorna su quei passi iniziali, gli stessi ma incredibilmente diversi: nell’esordio della “Passio” vi era, infatti, Placido pellegrino inquieto fra le vie del centro di Ferrara. Un sobbalzo nel petto, poi gli spari improvvisi come un lampo di luce, e invece era notte, una lunga notte, quella dei corpi riversi ai piedi del Castello, quella tremenda notte nel novembre del ’43. Ma non dormono, no, sono morti, giacciono ma rivivranno. E allora «di mattino, quando era ancora buio» (2), in un’alba grigia e vuota, è l’ora della Liberazione, della Rinascita, è il tempo della pienezza, anche per noi, per chi, come gli apostoli, non aveva «ancora compreso» (3). 


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(dove non indicato, le citazioni sono tratte da “La Passione. Via Crucis al Colosseo” di Mario Luzi, 1999)


(1) F. Guccini, “Venezia”.

(2) Gv 20, 1.

(3) Gv 20, 9.

Pubblicato su “La Voce di Ferrara-Comacchio” del 9 aprile 2021

http://www.lavocediferrara.it

Scutellari espone da Cloister

5 Apr

3398_83bf477b2e678d60e49902232b15f61c[Sotto l’articolo, alcune immagini dell’esposizione]

Si intitola “Il segno e la forma” la nuova esposizione che inaugura oggi alle 18.30 nella Galleria d’arte Cloister di Ferrara (in corso Porta Reno, 45).
In mostra, opere di Giulio Scutellari, artista ferrarese classe ’74. Scutellari si diploma nel ’94 all’Istituto d’arte Dosso Dossi di Ferrara, e successivamente frequenta lo studio del pittore Pistoiese Max Loy. Laureatosi nel 2002 presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna in “Scenografia”, in seguito frequenta il corso di pittura di scena, autorizzato dalla Regione Veneto, e il corso di tecnico teatrale promosso dal Rossini Opera Festival. Fin dal 2002 collabora con continuità, presso teatri di tradizione ed enti lirici, in qualità di tecnico di palcoscenico.
La mostra sarà visitabile fino al prossimo 29 aprile da lunedì a sabato dalle ore 9 alle 19.30.
L’amore per l’arte, il teatro, il corpo umano, lo portano ad un continuo studio e ad una attenta progettazione di corpi e di spazi. Il segno è l’assoluto protagonista nella produzione di questo giovane artista che riempie nitidi spazi, con campiture ad acquerello, ottenendo una pulizia grafica e un’immediata carica espressiva nella precisione formale.
Attualmente Scutellari collabora con Teatri di Tradizione ed enti Lirici Italiani, quali il Teatro Comunale di Ferrara, il Teatro Regio di Parma e la Fondazione Arena di Verona.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 04 aprile 2017

I detenuti-attori insegnano”La forza del perdono”

25 Feb

Spettacolo in carcere dopo “Pope is pop”images

C’è tanta ironia ma anche struggimento per un tema importante, com’è quello del perdono, e rappresentato da attori particolari. Ieri nel primo pomeriggio nella Casa Circondariale di via Arginone ha avuto luogo lo spettacolo teatrale “La forza del perdono”, che ha visto protagonisti una decina di detenuti del carcere ferrarese, coadiuvati dal cappellano Mons. Antonio Bentivoglio. In una decina di giorni, per un’ora al giorno, i detenuti, italiani e non, hanno preparato lo spettacolo, rappresentato nel teatro/palestra della casa circondariale.

La rappresentazione racconta la vicenda di un mafioso, Trovato Innocente, arrestato perché colto in flagranza mentre chiede il pizzo in un mercato. Dopo il finto processo, troviamo il protagonista in cella (con letti e coperte realmente usati dai detenuti/attori): qui inizia il processo di pentimento per il male commesso, e di perdono nei confronti del complice, finito anche lui in carcere, suo accusatore durante il processo.

Alla rappresentazione hanno assistito diversi volontari dell’Associazione Noi per Loro, la comandante Annalisa Gadaleta e alcune educatrici.

Ad apertura dello spettacolo, e dopo lo stesso, vi è stato l’intrattenimento musicale eseguito da sei detenuti  (più due tecnici del suono), che hanno reinterpretato brani di Dylan, Vasco, Celentano e tanti altri.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara il 25 febbraio 2017

La magia del Furioso nelle sculture-teatro di Maurizio Bonora

11 Dic

In occasione del quinto centenario dalla prima edizione dell’Orlando furioso, nella Galleria del Carbone di Ferrara (in via del Carbone, 18/a) è visitabile la mostra “Angelica e Alcina per un teatro ariostesco” di Maurizio Bonora.

Come mi spiega lui stesso, si tratta di una scultura narrativa, fatta di opere d’arte tripartite: il volto (parte anteriore), la narrazione di scene tratte dall’Orlando furioso nella parte posteriore dell’opera, e la base scultorea. Sono sculture in terracotta e cemento realizzate nel 2013, e in parte concluse proprio per questa esposizione, più alcuni disegni a matita, compreso uno del 1966. Tutta la riflessione dell’artista gioca su profonde dicotomie: essere/nulla, pieno/vuoto, luce/ombra, materia/spirito.

Il progetto prende le mosse, anticipandolo, da quello di una struttura teatale da realizzare in futuro.

La mostra è visitabile fino a fine mese, dal mercoledì al venerdì dalle 17 alle 20, sabato e festivi dalle 11 alle 12.30 e dalle 17 alle 20.

Andrea Musacci

“Compulsioni. Fantasmi d’amore”: a Cloister le opere di Manelli

1 Nov

manelli-a-cloisterDopo l’esposizione di sculture e disegni di Sergio Zanni, “Tutto scorre”, rimasta in parete fino a venerdì scorso, oggi alle 18.30 nella Galleria d’arte Cloister in via c.so Porta Reno, 45 inaugura la personale “Compulsioni. Fantasmi d’amore” di Enrico Manelli.

Come viene spiegato con suggestione nella presentazione della mostra, “l’Artista rappresenta il profondo desiderio d’amare sul palco del teatro nel chiarore scenografico, rivelando le sue origine più autentiche di Scenografo. Sul palcoscenico si materializzano i Personaggi di drammi e commedie d’amore. Gli attori reali e forse riconoscibili, si proiettano nell’Eroina e nell’ectoplasma dei dolci e soffocanti desideri dei ricordi dei primi giochi. Una nuvoletta beffarda ed ammaliatrice è il segno distintivo di Enrico Manelli”.

Manelli nasce a Modena nel 1946, ed è diplomato in Scenografia presso l’Accademia di Bologna, dove insegna la stessa disciplina ininterrottamente dal 1968 al 2008. Come scenografo e pittore svolge attività espositiva dal 1966, ideando e realizzando allestimenti teatrali ed espositivi in Italia e all’estero, per teatri stabili, Enti Lirici, gruppi sperimentali, Pinacoteche Nazionali, industrie ceramiche, firma scenografie per il cinema e trasmissioni televisive per RAI2 e RAI3. Consegue numerosi riconoscimenti e premi nelle varie discipline. Collabora e progetta spettacoli con molti gruppi teatrali e con le formazioni sperimentali dell’Università di Bologna in seno all’Istituto di studi musicali e teatrali, fonda numerosi collettivi di studenti del corso, realizzando con loro numerosi allestimenti scenografici ed espositivi, esperienze che lo portano a fondare nel 1945 la cattedra di Scenografia del Melodramma a Cesena in collaborazione col Conservatorio B. Maderna e il teatro Bonci.

Andrea Musacci

Pubblicato su la Nuova Ferrara l’01 novembre 2016