
700 morti, 2500 feriti, 150 rapiti: sono i terribili dati dell’attacco senza precedenti del fondamentalismo islamico a Israele. Lo scenario, le storie delle vittime, alcune riflessioni
di Andrea Musacci
Lo scorso 1° settembre in Israele si sono riaperte le scuole. In totale, circa 2,5 milioni gli studenti rientrati in classe. Cosa c’entra, direte voi, con quello che sta succedendo? C’entra perché ad essere stata violentata e rapita dai terroristi di Hamas e della Jihad Islamica è la realtà quotidiana di uno Stato che dal 1948 cerca di vivere in pace, di progredire e di tutelare ogni libertà e diritto personale e collettivo, come avviene in qualsiasi comunità democratica e costituzionale.
E invece l’inferno si è scatenato nella terra di Davide e Salomone: le vittime dei raid di Hamas, comprese le 260 del terribile massacro del rave party israeliano (il Nova Music Festival) alla frontiera con Gaza per celebrare la festa di Sukkot, mentre scriviamo (lunedì 9) sono arrivate ad oltre 700. Dei circa 2.500 feriti, molti sono gravi. E all’appello mancano ancora in centinaia, molti dei quali rapiti (si pensa 750) e portati nel gorgo di Gaza e spartiti, come merce, tra Hamas, Jihad islamica e Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Tel Aviv e Gerusalemme appaiano città fantasma, con la popolazione barricata in casa. Sull’altro versante, quello di Gaza, i morti sotto gli attacchi necessari dell’aviazione israeliana sono arrivati ad oltre 436 tra civili e miliziani, con 2.270 feriti. Prima di qualsiasi azione di terra, l’esercito israeliano deve infatti liquidare le sacche di resistenza al confine con la Striscia, dove sono ancora in corso scontri tra miliziani di Hamas e soldati. A inizio settimana una colonna di tank israeliani è diretta verso Gaza: secondo il Washington Post gli USA si attendono un’ampia operazione via terra contro Hamas a Gaza entro questo mercoledì. E ancora sei località nel sud di Israele vicino alla frontiera sono teatro di combattimenti con i miliziani di Hamas, ha dichiarato Daniel Hagari, portavoce delle Forze di difesa israeliane, nominando le località di Beeri, Kfar Aza, Nirim e Alumim. «I miliziani – ha aggiunto – hanno varcato la linea di confine non solo la sera dell’attacco ma anche negli ultimi due giorni».
STORIE DI VITE RAPITE
«Una voce si ode da Rama,
lamento e pianto amaro:
Rachele piange i suoi figli,
rifiuta d’essere consolata perché non sono più».
Dice il Signore:
«Trattieni la voce dal pianto,
i tuoi occhi dal versare lacrime,
perché c’è un compenso per le tue pene;
essi torneranno dal paese nemico»
(Geremia 31, 15)
Tanti i video, le foto, i racconti di giovani, bambini, anziani, famiglie intere sterminate dalla furia islamista di tagliagole senza scrupoli, sostenuti in ogni modo (non solo economicamente) dall’Iran e dalla libanese Hezbollah, oltre che da parte dell’universo islamico a livello globale e da una fetta dell’opinione pubblica occidentale.
C’è la storia di Yoni Asher che ha denunciato l’irruzione di Hamas sabato sera mentre sua moglie, insieme alle due figlie Aviv e Raz, di 3 e 5 anni, erano in casa della suocera, nel Kibbutz Nir Oz. Grazie al servizio di geolocalizzazione del telefono della donna, Yoni è riuscito a rintracciare lo smartphone a Khan Younis, città a sud di Gaza, avendo così conferma della condizione della donna. Tra le denunce relative ai tanti rapiti dal rave sopracitato, tenutosi al Kibbutz Reim, vicino al confine con Gaza, c’è quella relativa a Noa Argamani, 25enne apparsa in un filmato in cui viene portata via su una moto dai miliziani di Hamas durante l’evento. La si vede mentre implora per la sua vita: «Non uccidermi! No, no, no», grida spaventata; a due passi il suo fidanzato tenuto stretto da due terroristi. Dalla medesima festa risulta disperso anche un cittadino britannico di 26 anni, Jake Marlowe, mentre il suo connazionale, il londinese Nathanel Young, 20 anni, è stato ucciso mentre, militare, era addetto alla sicurezza del rave.
C’è poi una giovane israelo-tedesca, Shani Louk, la cui madre ha chiesto la liberazione in un disperato video apparso sui social. E proprio un orribile video ha fatto conoscere la sua vicenda: un gruppo di sudici criminali di Hamas tengono il suo corpo sotto le gambe nel retro di un pick up. La giovane è distesa a faccia in giù, incosciente, seminuda, le gambe orribilmente spezzate. Un uomo la tiene per i capelli, come una bestia appena cacciata, un giovane le sputa addosso. Tutti urlano “Allah Akbar”.
Poi c’è la storia di un’intera famiglia, le cui sorti sono apparse in un video condiviso dalla giornalista di Ynetnews Emily Schrader, composta da marito, moglie e due bambini che si vede seduta a terra in casa, tenuta in ostaggio dai miliziani palestinesi. La figlia più grande è stata uccisa nell’irruzione di Hamas. «Volevo che vivesse, c’è la possibilità che torni?», ha domandato il fratellino piccolo alla mamma. E c’è Yaffa Adar, 85 anni, fondatrice di un kibbutz, ribattezzata la “nonna della coperta rosa” perché in un video la vediamo così mentre palestinesi la portano via su un veicolo dopo averla rapita. Ma il suo sguardo è quello del suo popolo: fermo, fiero, dignitoso.
In un altro video, un bimbo israeliano rapito (di nemmeno 10 anni) viene messo in mezzo a tre suoi coetanei palestinesi che lo bullizzano, spingendolo, prendendolo in giro, agitandogli un bastone vicino al viso. Un bullismo infantile frutto di una cultura radicalmente antisemita: secondo un rapporto commissionato dall’Unione Europea nel 2019, i libri di testo dell’Autorità Palestinese incoraggiano la violenza contro gli israeliani, il popolo ebraico e includono messaggi antisemiti.
NAZISTI ISLAMICI, NON “VITTIME DEL SIONISMO”
«Le violenze degli islamisti si sono esercitate essenzialmente contro i civili», scrive lo storico Claudio Vercelli su http://www.mosaico-cem.it, sito della Comunità ebraica milanese. «Non i militari (…) e neanche i “sionisti” o gli “israeliani” (…), bensì contro gli “ebrei”. Nella dottrina di Hamas, e nelle liturgie di comportamento che ne derivano, sono infatti questi ultimi ad essere odiati. Pochi giri di parole, al riguardo. Israele, di per sé, è inteso solo come un recente prodotto “ebraico” e non in quanto altro», prosegue. «Pertanto, quel che conta, è estirpare la “cattiva pianta” dell’ebraismo come tale. Soprattutto da Dar-al-Islam, la terra benedetta in quanto integralmente musulmana. Poiché da tutto ciò non potrà quindi derivare altro che non sia un’armonia universale, altrimenti inquinata – ed interrotta – dalla persistente presenza dei “giudei”. In tutta sincerità, è assai difficile non pensare che una tale impostazione mentale, prima ancora che ideologica, sia molto lontana da quella terrificante esperienza che, in Europa, e non solo, abbiamo conosciuto con il nome di “nazismo” (…). Non di meno, tuttavia, non esimiamoci dal bisogno di trovare un qualche precedente. Pertanto, il terrorismo islamista, in quanto movimento anche di massa, trova parte delle sue ispirazioni nel lascito, al medesimo tempo catacombale, demoniaco nonché messianico, del nazionalsocialismo. (…) Se le premesse sono queste – sono ancora parole di Vercelli -, Hamas non esercita una “resistenza palestinese all’occupante sionista” (così come altrimenti recita ad uso e consumo del pubblico non musulmano) bensì un Jihad, apertamente dichiarato nei confronti del resto del mondo: ovvero, un atto di purificazione, non troppo diverso, nella logica degli attuali protagonisti, da quello che animava coloro che intendevano, tra la fine degli anni Trenta e la prima metà degli anni Quaranta, mettere mano definitiva alla «soluzione della questione ebraica».
«DIFENDERE ISRAELE È DIFENDERE OGNI DEMOCRAZIA»
«Ribadiamo con forza il diritto dello Stato di Israele di difendere il proprio territorio – definito sulla base di storici accordi internazionali e di pace – e la legittimazione ad attivarsi a tutti i livelli per sradicare questa minaccia che riguarda tutta la regione mediorientale e le democrazie di tutto il mondo». Così Noemi Di Segni, presidente UCEI (Unione delle Comunità Ebraiche Italiane) in un comunicato uscito l’8 ottobre. «I palestinesi hanno ricevuto tutta la Striscia di Gaza, così come altri territori, nella speranza che possano divenire luoghi di crescita e sviluppo per vivere a fianco al popolo di Israele ma a quanto vediamo accade esattamente il contrario: i leader palestinesi invece di coltivare frutti di pace per le future generazioni seminano odio e generano terrore con il sostegno di molti Paesi non solo arabi», prosegue Di Segni. «Questo è il risultato di chi mette fin dalla nascita un fucile in mano ai propri neonati anziché nutrirli di valori e amore per la vita propria e altrui. Di chi trasforma moschee, scuole, e aree residenziali in arsenali e centro di comando dell’odio. L’Ucei – sono ancora parole di Di Segni – chiede con forza che si sostenga il diritto di Israele ad esistere e a difendersi, arginando ogni tentativo di distorsione così tante volte subito anche nelle sedi europee e internazionali più rappresentative e dinanzi a qualsiasi foro internazionale. Non si tratta solo di un attacco terroristico, non è solo guerra sferrata contro inermi civili sotto migliaia di missili e fatti anche ostaggio, è un attacco alla civiltà».
Dalla Germania alla Francia e dagli Stati Uniti all’Italia, intanto, la polizia intensifica la protezione delle istituzioni ebraiche e israeliane. Il timore, oltre alla possibilità che il conflitto possa trasferirsi oltre i confini israeliani, è che possa scatenare una nuova ondata di antisemitismo a livello globale. Nel frattempo, gruppi filo-palestinesi negli Stati Uniti esultano e applaudono l’attacco terroristico di Hamas, pianificando manifestazioni di sostegno. In Germania, a Berlino-Neukölln, simpatizzanti di Hamas hanno distribuito baklava sulla Sonnenallee per festeggiare l’attacco a Israele. Sostegno, sui social, anche da simpatizzanti italiani.
«L’attacco contro Israele e la reazione che ne sta seguendo, con un’escalation inimmaginabile, destano dolore e grande preoccupazione. Esprimiamo vicinanza e solidarietà a tutti coloro che, ancora una volta, soffrono a causa della violenza e vivono nel terrore e nell’angoscia». Lo scrive in una nota la Presidenza della CEI, che chiede «il pronto rilascio degli ostaggi» e si appella «alla comunità internazionale perché compia ogni sforzo per placare gli animi e avviare finalmente un percorso di stabilità per l’intera regione, nel rispetto dei diritti umani fondamentali».
La Comunità Ebraica di Ferrara ha aperto il Tempio di via Mazzini la sera del 9 ottobre ai cittadini ebrei e ferraresi per pregare insieme per la pace, per la solidarietà al popolo di Israele e per la salvezza degli ostaggi.
Pubblicato sulla “Voce” del 13 ottobre 2023








Italia, 2019. Il 26 settembre appare questa scritta su un muro di Roma: “entriamo senza bussare come nelle soffitte di Amsterdam…perché dobbiamo trovare quella bugiarda di Anna Frank”. A metà ottobre, in Toscana, una madre scopre per caso che il figlio minorenne fa parte di una chat su Whatsapp piena di immagini, testi e video orribili, riguardanti malati di cancro, stupri e violenze di ogni tipo: è l’indicibile, e in questo indicibile vi sono anche frasi antisemite (ad esempio: “gli accendini e gli ebrei dove sono?”, “gli ebrei sono combustibile”). La chat è stata chiamata “The Shoah Party”. Lo scorso 6 novembre il Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza di Milano decide di assegnare la scorta a Liliana Segre, internata nel 1944, a 14 anni, in quanto di fede ebraica e sopravvissuta al campo di concentramento di Auschwitz. La motivazione risiede nelle continue minacce ricevute via web dalla senatrice a vita, che, secondo un’analisi dell’osservatorio Antisemitismo del Cdec – Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea – riceverebbe oltre duecento messaggio d’odio al giorno. Sono solo alcuni episodi recenti di odio verso gli ebrei avvenuti nel nostro Paese, fra i tanti, – pensiamo anche a “ebreo, via via!” contro Gad Lerner al raduno di Pontida -, più o meno pubblici, verbali e non, che accadono e spesso non emergono.
La tristezza nel non poter ancora aprire al pubblico la “casa” di via Mazzini, 95, ma, dall’altra parte, la gioia di inaugurare una mostra in quella che è ormai, e sempre più, la seconda casa per la comunità ebraica ferrarese, il MEIS. Lo scorso 12 novembre nel Museo di via Piangipane a Ferrara è stata inaugurata la mostra dal titolo “Ferrara ebraica”, aperta in occasione del Premio letterario “Adelina della Pergola” istituito dall’ADEI WIZO (Associazione Donne Ebree d’Italia) e della Conferenza annuale dell’AEJM (l’associazione che riunisce i musei ebraici di tutta Europa), svoltasi proprio nella nostra città dal 17 al 19 novembre. Per l’occasione, è intervenuto anche il Sindaco Alan Fabbri, ed erano presenti, fra gli ospiti, il presidente della Comunità ebraica di Ferrara Fortunato Arbib, il Rabbino di Ferrara Rav Luciano Meir Caro, il Rabbino capo di Bologna Rav Alberto Sermoneta e il Vicario mons. Massimo Manservigi in rappresentanza della nostra Arcidiocesi. L’esposizione, visitabile fino al 1° marzo 2020, e che segue “Il Rinascimento parla ebraico” (esposta fino al 15 settembre), vede il contributo fondamentale della curatrice del MEIS Sharon Reichel, dell’architetto Giulia Gallerani e del regista Ruggero Gabbai che ha firmato le interviste (a Marcella Ravenna, Rav Luciano caro, Baruch Lampronti, Marcello Sacerdoti, Josè Bonfiglioli, Andrea Pesaro e Alessandro Zarfati Nahmad) e il documentario installati nel percorso espositivo. La mostra è un omaggio a un pezzo fondamentale della storia della nostra città, a una parte dell’identità di tutti noi che ancora vive e vuole vivere. Le prime notizie di insediamenti ebraici in città si hanno, infatti, a partire dal XII secolo, ma pare che i primi ebrei fossero arrivati attorno all’anno 1000. La maggiore fioritura della comunità risale al Quattrocento, quando le zone di residenza degli ebrei si spostano da via Centoversuri a via dei Sabbioni, oggi via Mazzini, e via San Romano. Nel 1485 il romano Ser Mele acquista l’attuale edificio comunitario di via Mazzini, uno dei più antichi d’Europa ancora in uso. Il suo lascito testamentario alla comunità prevede il divieto di alienazione e la condizione che l’edificio ospiti per sempre un luogo comune riservato al rito. Sorgono infatti in via Mazzini tre sinagoghe, quella italiana, oggi trasformata in sala sociale, quella tedesca e quella fanese. “Noi siamo molto contenti che vengano ad abitare qua con le loro famiglie…perché sempre saranno benvisti e trattati in tutte le cose che potremo e ogni die più se ne conteranno di essere venuti a Casa nostra”: fu questo l’invito che Ercole I d’Este rivolgeva nel 1492 agli ebrei esuli dalla Spagna. Come non ricordare, poi, il medico e filosofo Isacco Lampronti (1679-1756), ma anche, dall’altra parte, l’isolamento nel ghetto costruito nel 1627 quando Ferrara era sotto lo Stato Pontificio. E poi l’impegno risorgimentale e per l’Unità d’Italia, fino alla promulgazione delle leggi razziali nel 1938, le persecuzioni e le deportazioni, e infine la Liberazione. Il percorso espositivo accoglie i visitatori con un plastico dell’ex ghetto ebraico ferrarese. Troviamo quindi il Talled (scialle di preghiera) appartenuto al rabbino Leone Leoni, schiaffeggiato dai fascisti il 21 settembre 1941 durante la devastazione da parte delle camicie nere del Tempio farnese e di quello tedesco. E poi, ancora, libri di preghiere, oggetti rituali, l’armado ligneo per conservare la Torah (Aron Ha-Qodesh), candelabri, un corno di montone per il richiamo alla preghiera (shofar del XX secolo), la corona (Atarah), i puntali (rimmonim) per il rotolo sacro, il manto (meil), alcune medaglie, i mantelli che riprendono, in alcune parti, il rosso ferrarese, oltre a testi di Silvano Magrini, storico, autore della storia ebraica ferrarese, nonno di Andrea Pesaro. Un altro pezzo pregiatissimo è l’enciclopedia talmudica, il cosiddetto “Timore di Isacco”, di Isacco Lampronti. Una sezione è poi dedicata all’Eccidio del Castello (di cui è ricorso il 76esimo anniversario lo scorso 15 novembre) con disegni e tempere di Mario Capuzzo, donati il Giorno della Memoria del 2009 da Sonia Longhi alla Comunità Ebraica per il futuro MEIS. Come ricordò lei stessa nell’occasione, la mattina del 15 novembre 1943 – all’età di 8 anni – mentre andava a scuola si trovò davanti il cadavere di un uomo davanti al muretto del Castello. La notte prima i fascisti erano andati a prelevare il padre, l’avvocato Giuseppe Longhi, che solo per l’intervento di un ministro fascista ebbe salva la vita, ma visse per lunghi mesi con la paura di essere deportato. Anche il pittore Mario Capuzzo la mattina del 15 novembre 1943 passò davanti al muretto e schizzò su un foglio, di straforo, camminando, la scena del massacro. Schizzi che divennero apunto i quattro disegni poi donati da Capuzzo a Longhi. Infine, due buone notizie: all’ingresso del MEIS uno schermo proietta il trailer de “Il giardino dei Finzi-Contini” di Tamar Tal-Anati e Noa Karavan-Cohen, film documentario che uscirà a breve. Seconda notizia, lo scorso 28 ottobre il Ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini ha annunciato: “il lavoro per recuperare i 25 milioni di euro necessari per il completamento del progetto edilizio del Meis è a buon punto. Spero di poter dare l’annuncio in un tempo ragionevolmente breve”. I soldi in questione erano stati bloccati dal primo Governo Conte.
Totalità o infinito? Uno spazio chiuso, (pre) definito dell’essere o un’apertura sempre possibile tra volti, nella loro irriducibile differenza? L’ambivalenza su cui da sempre si fonda il pensiero occidentale è stata centrale nella ricerca di Emmanuel Levinas (Kaunas, Lituania 12 gennaio 1905 – Parigi, 25 dicembre 1995) (foto al centro), filosofo ebreo su cui l’8 novembre ha relazionato Giuliano Sansonetti. L’occasione era, nella Sala Agnelli della Biblioteca Ariostea di Ferrara, l’ultimo appuntamento del ciclo di incontri dedicato ai “Maestri”, a cura dell’Istituto Gramsci e dell’Istituto di Storia Contemporanea (ISCO). Sansonetti ha dedicato la prima parte del proprio intervento a Remo Bodei, scomparso il giorno prima, che a Ferrara era intervenuto nel gennaio 2016 invitato proprio dal Gramsci e dall’ISCO, nello stesso luogo, sul tema della democrazia, introdotto, come in questo caso, da Piero Stefani. Tornando a Levinas, Sansonetti ha spiegato come egli ritenesse fondamentale “trovare un punto di incontro tra l’eredità ebraica e il pensiero greco, le due tradizioni fondamentali dell’Occidente, quindi in un certo senso tra profezia e filosofia”. A tal proposito, riferendosi a Monsieur Chouchani (foto in alto a dx), ricordò come egli rese impossibile, per sempre, “un approccio dogmatico e fideistico al Talmud”, convincendosi dunque che “non esisteva uno spartiacque tra pensiero teologico e filosofico”. Ma le basi – o parte di esse – del pensiero occidentale, sono, per Levinas, la causa profonda di una concezione filosofica, quindi anche politica, dogmatica e illiberale: “Alcune riflessioni sulla filosofia dell’hitlerismo” è il titolo di un suo saggio uscito nel 1934 sulla rivista “Esprit”, edito e tradotto in Italia grazie a Giorgio Agamben. Qui Levinas analizza il pensiero filosofico classico occidentale: il nazismo, secondo il filosofo, “non è qualcosa di accidentale nella storia e nella cultura tedesca, ma le sue radici sono interne alla storia dell’Occidente”. Sua caratteristica precipua è “l’incatenamento dello spirito al corpo”, all’elemento meramente biologico, un “risveglio di sentimenti elementari”, viscerali, violenti. La causa profonda di ciò, ha proseguito Sansonetti, risiede nel fatto che per Levinas “la filosofia occidentale sia una filosofia del neutro, dell’essere, quindi di una dimensione spersonalizzante, in cui ciò che ha valore è appunto l’essere indistinto e non l’ente”, il singolo, la persona con la sua individualità. Secondo Levinas questo porta a una deresponsabilizzazione del soggetto, mentre “ognuno di noi può essere responsabile solo nei confronti dell’altro”, rappresentato simbolicamente dal “volto”. “L’etica, quindi, e non la metafisica, dev’essere considerata la filosofia prima”: la seconda, infatti, nella tradizione greca, è intesa come “pensiero della totalità, del perfettamente definibile”, a cui Levinas contrappone “l’infinito, dato appunto dal volto, concetto assente nel pensiero greco” (“Totalità e infinito” è il titolo della sua opera più celebre, edita nel 1961). “Dal concetto di totalità – sono ancora parole di Sansonetti -, nascono quindi i totalitarismi, vale a dire società organiche dove tutto è definibile, ordinabile e controllabile, società chiuse”. Il rapporto etico autentico, al contrario, in Levinas, “è il rapporto faccia a faccia”, un rapporto tra volti: “prima ancora della conoscenza dell’altro, è necessario un rapporto con lo stesso, col suo volto, per evitare che l’altro diventi una proiezione di noi stessi”, e non, come invece è, una diversità irriducibile, verso la quale è necessario innanzitutto e soprattutto “l’ascolto (l’ebraismo, non a caso, si fonda sull’ascolto della Parola di Dio), e quindi il rispondere”. Infine, il volto, per Levinas, è nella sua essenza, “sguardo”: solo dallo sguardo, che identifica ogni volto, ogni persona, “può nascere il linguaggio, quindi il discorso e la responsabilità”, che, appunto, è sempre nei confronti di un altro.